Con un atteggiamento di estrema apertura Bartolini ha orientato il suo percorso verso una continua scoperta e indagine del linguaggio dell’arte; questo percorso diventa assoluto in “Due qui / To Hear”, il progetto curato da Luca Cerizza per il Padiglione Italia alla 60. Biennale Arte di Venezia.
Dall’ascolto si è colti alle spalle, non sempre si può decidere se ascoltare o no
Alla radice del suo progetto per il Padiglione Italia c’è l’idea dell’ascolto come elemento fondativo di una relazione (con se stessi, gli altri, la natura, la tecnologia). Come se si immaginasse che anche la creatività dell’arte divenisse agente di una epokè, di una necessaria sospensione del dire, del fare, per affermare prima di tutto la supremazia dell’ascoltare. Quale la sua idea?
Dall’ascolto si è colti alle spalle, non sempre si può decidere se ascoltare o no. Questo modera l’impulso all’onnipotenza che impera nell’ovest del mondo. L’ascolto è un mondo parallelo pieno di esperienze, pieno di opportunità. È un mondo sorprendente se solo decidessimo di praticarlo. In arte ci sono stati grandi artisti come Pierre Schaeffer, R. Murray Schafer, Pauline Oliveros, oggi Georg Haskell, che hanno indicato luoghi e modalità di percorrenza dell’ascolto. Il mio lavoro pone l’udito sullo stesso livello della vista: li metto chiaramente sul medesimo piano, dando corpo al suono e dematerializzando i corpi.
Cosa rappresenta la musica per lei e la sua arte?
La musica per la mia vita rappresenta quel momento dove l’aria si tinge di qualcos’altro da me. Dove sono nel mio mondo, ma non lo riconosco più. È il viaggio più economico che abbia mai fatto. La musica è trasporto, viaggia sull’aria, attraversa il corpo e riesce ad aprire a un altro modo di relazionarsi con l’altro e il mondo.
I tre musicisti coinvolti nel suo progetto sono diversi tra loro, ma accomunati da un approccio compositivo ed esecutivo sperimentale ma minimalista, immersivo ed emozionale. Può illustrarci perché sono stati scelti Caterina Barbieri, Kali Malone e Gavin Bryars?
Per ragioni diverse che poi hanno rivelato molte affinità. Gavin Bryars è un mio grande riferimento sin da quando ero appena uscito da scuola. Nella musica di Gavin si può sostare, c’è sempre il posto per respirarci dentro. È un maestro e un nuovo vecchio amico. Kali Malone e Caterina Barbieri sono invece un invito condiviso con Luca Cerizza. Nella musica di Kali appaiono strade di ascolto sospese, fragili, intese come miraggi e prodotte dagli armonici di una tessitura pensata come un viatico. Ritrovo questo anche nel lavoro di Caterina, anche se la formazione di tale mondo sospeso non è qui analogica ma elettronica, avviene a livello atomico, su un’altra scala.
L’ascolto richiede un inizio e una fine, un’uscita dal e un ritorno al silenzio. A partire dalla partitura 4’33’’ di John Cage settant’anni fa, il silenzio è diventato una pulsione cui tendere ma quasi impossibile da raggiungere. Qual è per lei, oggi, il significato del silenzio?
Credo che ogni giorno per sempre, in tutto il mondo, ci dovrebbe essere un’ora di silenzio totale. Il silenzio andrebbe insegnato a scuola. Il silenzio è scuola. Il silenzio è empatia.
L’unica concessione del suo progetto alla dimensione figurativa è nella statua che troveremo all’entrata del Padiglione, dedicata al Buddha Bodhisattva. Perché questa presenza estranea alla cultura occidentale, se si eccettuano tuttavia alcuni pensatori sommi come Schopenhauer e Nietzsche?
Non è così estranea, si definisce, si denomina solo in modi diversi. Il Bodhisattva è un maestro che rinuncia all’illuminazione per aiutare gli altri a trovare la via. Ci sono molte figure così anche in Occidente; per dirne una Gesù…, anche se nel regime monoteista tale figura, per sua natura, diventa meno graziosa e sempre affannata a fare qualcosa. Questo Bodhisattva per converso non fa nulla. Pensa. Non agisce. Il non agire corrisponde nel mondo delle sensazioni al silenzio nel mondo dell’ascolto. Il silenzio del movimento. Il Bodhisattva che Pensa, solo con la sua postura, ci dice la cosa più importante di tutte, credo…