La musica che gira intorno

Venetikorebetiko, il nuovo album di Giovanni Dell'Olivo
di Massimo Bran
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Veneziano di origini levantine, compositore, cantautore, interprete di musica popolare e polistrumentista di strumenti cordofoni, Giovanni Dell’Olivo da oltre vent’anni è impegnato in progetti di contaminazione musicale, attingendo alle varie culture musicali del Mediterraneo.

Venetikorebetiko, questo il titolo dell’intrigante e vitale ultimo lavoro pubblicato da Giovanni dell’Olivo con i suoi “rebetes” del Collettivo di Lagunaria. Un titolo che parla eloquentemente da solo e che nella sua circolarità ritmica ci immerge immediatamente nelle radici profonde di uno dei linguaggi musicali popolari del Mediterraneo tra i più affascinanti e al contempo, forse, tra i meno frequentati e conosciuti dai più al di fuori del perimetro ellenico. Il cosiddetto “blues greco”, definizione quanto mai appropriata della musica rebetika, è connotato da una straordinaria ricchezza di elementi eterogenei, tipica di quelle culture popolari nate e cresciute nei ghetti dei porti del Mare Nostrum, dove la contaminazione era la vera radice connettiva tra chi lì viveva e si esprimeva proveniente da ogni dove. Dell’Olivo, veneziano di origini levantine, compositore, cantautore, interprete di musica popolare e polistrumentista di strumenti cordofoni, da oltre vent’anni impegnato in progetti di contaminazione musicale attingendo alle varie culture musicali del Mediterraneo, in questo album propone un’antologia di brani rebetici tradotti e ricontestualizzati di maestri del calibro di Markos Vanvakaris, Antonis Delias, Vassilis Tsitsanis, Vassilis Perpiniadis, Marika Papaghika. A completare il tutto, allargando l’orizzonte aperto sul Mare Nostrum, una miscellanea di canzoni originali di Dell’Olivo stesso connotate da un unico tema conduttore legato al mare, alle città d’acqua e al rapporto fra Venezia e le culture del Mediterraneo. Per entrare più a fondo nelle viscere popolari di questo mare in musica l’abbiamo incontrato.

Venetikorebetiko è dunque un viaggio fatto di parole e musica che ci riporta idealmente alle tratte delle Mude da Mar, percorse sin dal medioevo dai mercanti veneziani.

Come si inserisce questo ultimo lavoro nel lungo, composito percorso della tua ultradecennale ricerca attorno alle radici vive e vitali della musica popolare?
Si tratta in realtà di un ritorno alle origini, in particolare al mio primo lavoro discografico del 2006 che si intitolava Lagunaria, “cose della Laguna” nel quale la musica del Canzoniere Popolare Veneto è stata per la prima volta oggetto di contaminazione con le sonorità mediterranee, greche e turche in particolare, attraverso l’utilizzo di strumenti come il bouzouki, l’oud, il saz. L’idea che il percorso musicale del Collettivo di Lagunaria si traducesse metaforicamente in un viaggio per le rotte del Mediterraneo è sempre stata la migliore sintesi per esprimere il nostro lavoro. Venetikorebetiko è dunque un viaggio fatto di parole e musica che ci riporta idealmente alle tratte delle Mude da Mar, percorse sin dal medioevo dai mercanti veneziani. In questo racconto musicale il Mare Nostrum, “Η Μεσόγειος Θάλασσα” come lo chiamano i greci, o “Akdeniz” come lo chiamano i turchi, si trasforma in un crocevia di beni materiali, di culture, di idiomi, di esperienze. In una parola, di Civiltà. Una civiltà che parla una propria lingua meticcia, il Sabir, o lingua franca del Mediterraneo dove l’idioma veneziano si è depositato copiosamente nei secoli, insieme al greco, al turco, e a molte altre lingue ancora. Venetikorebetiko nasce in particolare dal lavoro di traduzione e rielaborazione di alcuni brani di quel peculiare movimento musicale greco, sorto agli inizi del ventesimo secolo, denominato per l’appunto Rebetiko, il “blues greco”, la musica maledetta.

Il Mediterraneo che guarda a Oriente, Venezia, le contaminazioni con le varie culture e linguaggi levantini. Quale l’essenza identitaria peculiare del Rebetiko e quali invece le sue più rilevanti assonanze con le altre musiche, le altre culture popolari del Mare Nostrum?
Il rebetiko si caratterizza per assenza di un’identità precisa; è frutto del meticciato culturale di mondi attigui, a volte conflittuali ma in stato di continua permeabilità. Il linguaggio musicale che ne deriva e che ne incarna l’essenza è quindi inevitabilmente liquido, osmotico, plasmabile, come lo è il mare con le forme delle coste che lo conterminano. Musicalmente si sviluppa per scale modali (maqam) di forte impronta ottomana, ma nasce nei Cafè Chantant di Smirne e Costantinopoli da musicisti appartenenti alla comunità greca. Al suo interno, fra le altre, è riconoscibile inoltre un’anima chiaramente sefardita, lascito culturale di una presenza ebraica fortissima in tutta l’Asia Minore fino a Salonicco, ed anche qualche elemento di musica più occidentale. Non è certo da dove derivi il termine. Chi dice dal turco ‘ribat’ (prigione), chi dall’arabo ‘rabith’ (fuorilegge), chi addirittura dal veneto ‘rebelo’ (o rebelòt, ribellione).

Il rebetiko si afferma come la musica dei bassifondi e i temi cari ai rebetes e alle rebetisse sono riflesso di quel mondo con tratti fortemente libertini e bohemien che sembrano precorrere i tempi dei figli dei fiori americani, con 50 anni di anticipo.

Una storia a dir poco intrigante ed affascinante caratterizza questo linguaggio musicale, espressione vivida di una cultura suburbana, da ghetti portuali. Una musica che affonda le sue radici nel dolore della migrazione forzata, a suo modo sovversiva, pericolosa politicamente e socialmente, ribelle e quindi osteggiata dal potere. Come si è risolta e si risolve questa sua natura insieme profondamente identitaria e al contempo marginale?
Storicamente il rebetiko nasce come cifra musicale identitaria dei profughi greci di Smirne che si riversarono nei sobborghi del Pireo ad Atene e di Salonicco dopo la cosiddetta “Catastrofe” del 1922, quando Grecia e Turchia, al culmine della crisi che coinvolgeva i due Paesi, fecero uno scambio di popolazioni dai territori limitrofi. I profughi greci di Turchia furono un milione e duecentomila fra Smirne e Costantinopoli. Il Rebetiko è appunto la musica di quegli emarginati, in prevalenza colti ma privi di mezzi, che si riversano per le strade di un Paese, la Grecia, povero, impreparato socialmente e culturalmente a prestare accoglienza a questa ondata migratoria senza precedenti. Il Rebetiko si afferma come la musica dei bassifondi e i temi cari ai rebetes e alle rebetisse sono riflesso di quel mondo con tratti fortemente libertini e bohemien che sembrano precorrere i tempi dei figli dei fiori americani, con 50 anni di anticipo. Le canzoni parlano di amori burrascosi, di prigione, sesso, droga. Non stupisce, quindi, che la dittatura di Metaxas del 1936 abbia messo fuori legge la musica rebetika, considerata va da sé immorale nei contenuti ed oltretutto etnicamente impura, perseguitandone gli interpreti. L’occupazione nazista del 1942 e il regime dei colonnelli del 1967 daranno successivamente il definitivo colpo di grazia al movimento. Il recupero nei successivi anni ‘70 fino ai giorni nostri di questa tradizione è avvenuto attraverso una sorta di assimilazione simbolica in chiave politica di questa musica alle idee libertarie contro le dittature. Oggi è patrimonio culturale immateriale della Grecia.

Tra i grandi interpreti del Rebetiko, qual è stata la figura chiave, al netto anche della qualità intrinseca della propria cifra artistica, che ha segnato in maniera decisiva e profonda l’affermarsi di questa straordinaria espressione della musica popolare?
Il panorama dei rebetes (e delle rebetisse, perché in questa musica si raggiunse sin dall’inizio una vera e propria parità di genere) è molto variegato. Il musicista considerato tuttavia il capostipite di genere da pubblico e critica fu Markos Vanvakaris, classe 1905, nato nell’isola di Siros, capoluogo delle Cicladi. Ideatore del cosiddetto Rebetiko maturo o pireotiko, fondò nei primi anni ‘20 il celebre quartetto del Pireo con Anestis Delias, Ghiorgos Batis e Stratos Pagiumtzis. Le sue canzoni in nove ottavi, diabolicamente in bilico fra la tonalità maggiore e minore dell’accordo dominante (come il blues di Robert Johnson per intendersi), riempiono ancora oggi le taverne greche con le loro note avvolgenti. Nel nostro disco due brani sono traduzioni da Vanvakaris, ma abbiamo anche Anestis Delias, Vanghelis Perpiniadis, Vassilis Tsitsanis ed altri ancora.

La cifra contemporanea di questa musica e più in generale di tutta la musica popolare, in particolare mediterranea. Quanto ha contribuito la definizione, l’etichetta di world music, con il decisivo apporto di figure quali Peter Gabriel, nel consolidare la frequentazione sempre più larga di queste espressioni culturali radicate nel cuore più quotidiano della nostra società?
Sicuramente moltissimo, perché ha filtrato l’etnomusicologia e pop con una potenza mediatica inedita. Accanto a Peter Gabriel, rimanendo sempre nel pop più colto, devono essere ricordati però anche altri giganti, tra tutti, almeno Paul Simon per la musica africana e sudamericana, George Harrison per quella indiana, e la fadista contemporanea Mariza. Nel mondo della world music un ruolo imprescindibile lo ha svolto sicuramente anche Paco De Lucia, capace come nessuno prima di trasformare definitivamente il flamenco contemporaneo attraverso la contaminazione con la musica araba ed il jazz. Ma non dimentichiamo che tutto questo interesse per la musica popolare viene da lontano, dal movimento del folk revival che Alan Lomax accese negli anni ‘40 negli Stati Uniti e che portò nei successivi anni ‘50 e ‘60 anche in Italia, incontrando fortuitamente e poi collaborando con il grande antropologo Ernesto De Martino. Senza il loro lavoro e quello dei pionieri di questo movimento nel resto d’Europa non sarebbe mai potuto germogliare tutto questo interesse diffuso attorno alla musica popolare e, di conseguenza, per la cosiddetta world music.

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