Germano Celant sembra un personaggio senza tempo, immediatamente riconoscibile per il suo modo di essere e di apparire, forte ma non abbastanza per combattere questo inesorabile virus. È mancato all’età di 80 anni a Milano il 29 aprile scorso.
Molto è stato scritto in sua memoria nei giornali nelle scorse settimane, molto si continuerà a scrivere nei libri, molto anzi moltissimo rimane vivo delle sue mostre il più delle volte epocali, come le ultime di Celant che hanno avuto Venezia come protagonista, diretta o indiretta: nel 2019 la grande retrospettiva alla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina dedicata a Jannis Kounellis e la personale di Emilio Isgrò alla Fondazione Cini a San Giorgio, a febbraio 2020 la mostra su Emilio Vedova nella sala delle Cariatidi a Palazzo Reale a Milano.
Abiti total black e anelli d’argento con grandi pietre azzurre, aria severa, autorevole. Ricorda Alfredo Bianchini, presidente della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, di cui Celant era stato curatore artistico e scientifico: «Se c’era una dote di Germano Celant che sembrava essere finora troppo a lungo sfuggita, era forse la sua capacità di entusiasmarsi, quella sua passionalità ammantata di gelo, come la definisce Isgrò. Un uomo che sapeva studiare, vedere, girare il mondo e proprio per questo riusciva a sentire sempre il polso dell’arte».
“Critico” era una definizione che gli stava stretta, così come quella di inventore dell’Arte povera, di cui tuttavia va considerato il padre. È stato teorico, talent scout, curatore tra i pochi in grado di diffondere il made in Italy nel mondo. Fondamentale in questo senso è stata la mostra The Italian Metamorphosis 1943-1968 al Solomon R. Guggenheim di New York nel 1994 (con Vittorio Gregotti che curava la sezione “Architettura”). Ma l’elenco delle esposizioni firmate è lunghissimo e tocca gli spazi museali più importanti del Pianeta: dallo stesso Guggenheim, di cui è stato senior curator, al Centre Pompidou di Parigi, passando per la Biennale d’Arte di Venezia, di cui fu direttore nel 1997, e negli ultimi anni curando i progetti di Fondazione Prada a Milano e Venezia. Nel 2013 si era concesso il lusso di un remake spregiudicato: a Ca’ Corner della Regina aveva riallestito When Attitudes Become Form, una mostra di Harald Szeemann del 1969, che aveva segnato un prima e un dopo nel panorama del secondo Novecento.
In una intervista in occasione dell’ultima mostra milanese di Emilio Vedova, Celant così raccontava il suo modo di procedere nella proposizione al pubblico del suo percorso espositivo: «Tutte le mostre hanno una teatralità e gli attori sono le opere. Quindi serve mettere insieme tre momenti: lo spazio, le opere come attori e gli attori visitatori per farli convivere al fine di creare un elemento emotivamente forte. Emilio Vedova scaricava la sua energia nelle opere e come si può riportare questo al pubblico? Ecco questo è il tentativo della mostra […]».
Certo Celant incuteva rispetto e, forse in modo del tutto involontario, una certa soggezione, forse era colpa di quella sua capacità – ormai universalmente riconosciuta – di grande anticipatore che sarà, almeno per ora, difficile da colmare, o forse per la consapevolezza che un suo giudizio poteva decretare l’ascesa o meno di un nuovo artista.
«Al di là della sua erudizione – ricorda Larry Gagosian –, aveva una rara sensibilità. Era capace di rendere vivo il lavoro di un artista, svelando le sue intenzioni, rinnovandolo, facendocelo vedere con occhi nuovi».