Abbiamo incontrato Nuria Schönberg, figlia di Arnold e moglie di Luigi Nono, insieme alla figlia Serena Nono nella sede di quell’incredibile Archivio da lei tenacemente voluto e magistralmente realizzato…
100 anni di Luigi Nono. E dici poco. Ma anche 150 anni di Arnold Schönberg. E dici niente. Due giganti della contemporaneità in musica, una sorta di staffetta avanguardista nel cuore della dodecafonia, dei nuovi suoni del nostro lungo tempo, quel secolo breve che però breve pare essere per niente. In questa lunga traiettoria che è anche, eccome, un denso vissuto famigliare, Nuria Schönberg, figlia di Arnold e moglie di Luigi, o meglio, di Gigi come affettuosamente lo ha sempre chiamato, ha vissuto da par suo, ossia da donna libera e civilmente attiva, nel pieno di un’esperienza artistica famigliare, per l’appunto, che è stata innanzitutto vita pulsante, aperta allo scambio, consumata nel cuore vivo della società. Anche non conoscendola direttamente, anche non avendola mai frequentata, quando ci è capitato di incontrarla in svariate occasioni pubbliche ci ha sempre colpito per tre, perlomeno apparenti, sue attitudini: la distesa dolcezza, l’anglosassone sobrietà, l’inossidabile tenacia. Attitudini che in questa bella, libera conversazione, svoltasi nella sede di quell’incredibile Archivio Luigi Nono da lei tenacemente, per l’appunto, voluto e da lei stessa magistralmente realizzato, hanno trovato piena conferma. Parlando con questa straordinaria donna avverti il respiro rilassato di chi rifugge retorica e enfasi con una naturalezza che dice tutto, o molto, crediamo di una cultura, di una vita condotta e vissuta intensamente nel cuore della quotidianità, senza troppe sovrastrutture intellettualistiche. Sarà solo un’impressione questa, chissà, eppure è quanto abbiamo avvertito, sentito. Ad accompagnarla e ad arricchire questo libero dialogo la figlia Serena, che tutti conosciamo e riconosciamo da anni non solo per il suo impegno fondamentale nel tenere vivo Archivio e Festival dedicati al padre, ma anche per la sua versatile e sempre intrigante attività artistica.
Luigi Nono. Infiniti possibili, il documentario di Manuela Pellarin presentato lo scorso settembre alla Mostra del Cinema per le Giornate degli Autori e proiettato il 12 novembre scorso al Rossini nell’ambito del Festival Luigi Nono 2024, restituisce a nostro avviso in maniera convincente ed emozionante la complessità e l’originalità del grande musicista veneziano, indagando la sua identità da un punto di vista umano, poetico, sociale, politico. Quali sono state le sue impressioni dopo averlo rivisto? Crede che restituisca in pieno lo spirito di Luigi Nono?
NS_Sì, direi proprio di sì. È un ritratto attendibile, fedele a quelli che erano i suoi ideali. Non ho trovato alcuna stonatura, alcun travisamento o direzione sviante nella restituzione del suo poliedrico percorso artistico ed esistenziale in questo film che trovo riuscito ed emozionante, ma per nulla retorico, anzi! I tratti prevalenti della sua personalità, della sua identità artistica, ma direi più estesamente della sua cifra umana, vengono in questo lavoro di Manuela Pellarin restituiti in forma corale e con trasporto autentico da alcuni tra i suoi più importanti amici e collaboratori. Sottolinerei questo aspetto corale, di condivisione, perché è proprio una certa dimensione di comunità aperta che Luigi ha sempre cercato di perseguire e di realizzare in famiglia, nelle amicizie, nel lavoro, più estesamente nel mare aperto della società. Sì, sono davvero soddisfatta dell’esito di questo lavoro.
Il film attraversa innanzitutto il percorso artistico di Nono naturalmente, tracciando il quale però emergono giocoforza alcuni suoi tratti biografici, esistenziali, inconfondibili. Che sono esattamente quelli che ci piacerebbe un po’ di più indagare qui con lei, sua compagna di vita per quarant’anni. In particolare ci interessa entrare nel vostro mondo, nel vostro vissuto aperto, nel segno forte della libertà e dell’impegno civile. Come vi siete conosciuti innanzitutto, in quale occasione e dove?
NS_Gigi ed io ci siamo conosciuti ad Amburgo. Ero lì con mia madre che era arrivata da Los Angeles e incontrammo questo giovane, il quale desiderava conoscere la vedova di Schönberg. Era già all’epoca considerato un compositore molto talentuoso. Eravamo tutti lì per assistere alla messa in scena dell’opera di mio padre Mosè e Aronne. Poco tempo dopo ci siamo rivisti a Roma in occasione di un festival di musica contemporanea, dove erano previsti, tra gli altri, un concerto con sue musiche e un altro ancora con musiche di Schönberg. Successivamente, in uno di quegli stessi giorni, mi trovavo a pranzo con alcuni amici tedeschi che erano venuti anch’essi a Roma per questo Festival e parlavamo proprio di lui, di quanto fosse ben considerato all’interno di un universo musicale che vedeva nelle sue composizioni il futuro della musica contemporanea. A un certo punto ci raggiunge al nostro tavolo un cameriere dicendo che c’era una telefonata per me. Accosto la cornetta all’orecchio, dall’altro capo del filo la voce di Gigi, perentoria: «Se non esci con me oggi stesso ti rompo una sedia in testa!». E così è stato, ossia ho accettato il suo invito. Furono momenti bellissimi, con lui che voleva farmi conoscere la città usando probabilmente gli ultimi soldi che aveva per noleggiare un taxi con il quale raggiungere i luoghi più famosi ed iconici di una città meravigliosa, che si apriva ai miei occhi per la prima volta. Quando ho conosciuto Luigi lui già teneva diversi concerti in Italia e all’estero. Per questa sua febbrile attività era talvolta persino inviso, ostacolato da alcuni colleghi italiani in qualche modo invidiosi del suo talento. Non era visto di buon occhio che tenesse concerti in Germania, nonostante conoscesse bene la cultura e la lingua tedesche, cultura e contesto in cui aveva già ben dimostrato di potersi esprimere adeguatamente con il suo linguaggio musicale decisamente innovativo. Quando siamo venuti a Venezia tutti sapevano del buon riscontro che aveva avuto in Germania, così come tutte le ragazze che gli giravano intorno sapevano che adesso lui stava con me, il che non le rendeva propriamente felici… Erano tempi in cui le barriere geografico-culturali erano ancora belle spesse. Non è che i pregiudizi fossero pane solo per alcune circoscritte culture nazionali; esistevano un po’ ovunque. Nonostante la stima crescente che godeva in Germania, per dire, tutti i miei amici con cui ero a cena quando ricevetti la telefonata di cui parlavo prima mi sconsigliarono fortemente di frequentare Luigi. «Gli italiani sono terribili!» mi dicevano, pur stimandolo molto come musicista. Non li ho ascoltati per fortuna…
Qual era l’approccio che Nono aveva nei confronti di suo padre?
NS_Luigi è stato uno dei pochi a non subissarmi di domande su di lui, anche se lo ammirava molto. Era venuto ad Amburgo appositamente per assistere al suo Mosè e Aronne in prima mondiale.
Chi lo indirizzò verso Schönberg?
NS_Fu il grande critico musicale e compositore Hans Heinz Stuckenschmidt.
Come componeva suo padre?
NS_Quando vivevamo a Los Angeles mio padre lavorava tantissimo e in diversi ambiti, non solo in quello meramente compositivo. Oltre a scrivere moltissima musica, era impegnato nella stesura di diversi saggi e trattati. Insegnava all’Università della California e le sue classi erano composte per l’80% da giovani ragazze che si avvicinavano alla musica come fosse una materia “facile”, meno rigorosa rispetto a studi scientifici quali la chimica o la fisica. Alunne che rimanevano perciò sconvolte dal modo in cui mio padre insegnava loro la musica, dalla complessità dei concetti che elaborava nella sua attività didattica; concetti, temi che lui tuttavia si preoccupava di trasmettere nella maniera più immediata possibile. Ricordo ancora benissimo un aneddoto assai eloquente a riguardo. Mio padre rientrava quotidianamente a casa per pranzo dopo aver fatto lezione al mattino. Un giorno rincasò con un’aria particolarmente felice, con il volto davvero illuminato. Quando mia madre gli chiese il motivo di tanta felicità lui le spiegò che finalmente era riuscito a far capire un concetto basilare ad alcune alunne che di solito incontravano difficoltà. Questa cosa lo rendeva autenticamente felice. Spesso a casa si sforzava di preparare le lezioni per fare in modo che la spiegazione fosse comprensibile il più possibile a tutti. Tantissimi suoi alunni gli sono rimasti legati anche dopo aver terminato gli studi, a testimonianza di come il rapporto andasse ben oltre la mera, meccanica dispensazione di nozioni.
Com’era la vita in California? Suo padre fu tra i primi a lasciare la Germania nel 1933, appena Hitler salì al potere, comprendendo lucidamente, in presa diretta, che lì era finito il tempo di vivere liberamente. Lei ha vissuto praticamente da appena nata e per l’intera sua prima giovinezza negli Stati Uniti. Quale fu l’impatto che suo padre, e più estesamente la vostra famiglia, visse nell’inserirsi in un contesto culturale e sociale decisamente altro quale era quello americano degli anni ’30?
NS_Inizialmente mio padre aveva insegnato a Boston, per un semestre; venivano studenti anche da Harvard per assistere alle sue lezioni. Successivamente i suoi problemi di asma lo spinsero a cercare un posto dal clima migliore rispetto a quello della east coast; fu questa la ragione prima del trasferimento a Los Angeles, dove l’Università della California lo attendeva a braccia aperte. Vivere in California era stupendo. Stavamo in una casa meravigliosa con un grande giardino e un albero di avocado che ricordo ancora adesso; il clima era eccezionale. Avevo un bellissimo cane San Bernardo a cui volevo un bene dell’anima. Ricordo che quando mi capitava di litigare con i miei fratelli o con i miei genitori andavo da lui, nella sua cuccia, una casetta a misura di bambino, ad abbracciarlo, mi sentivo capita solo da lui. La casa era un viavai continuo di persone, a partire dagli studenti universitari che venivano a lezione anche la domenica mattina, con me e i miei fratelli che eravamo incaricati di sistemare le sedie nella sala dove questi giovani venivano accolti. La domenica capitava spesso che invitasse tutta la sua classe di studenti a casa, una ventina di ragazzi assieme ai quali stava bene; insegnare era una sua vera, grande passione. Lo studio dove componeva la sua musica è stato riprodotto in una mostra dell’Archivio Schönberg a Vienna, assieme ad uno strumento da lui inventato che serviva a tracciare i pentagrammi in pochissimo tempo, una specie di pettine con 5 pennini per tracciare con un unico gesto le 5 righe parallele su cui disporre le note. Gli intellettuali e gli artisti che frequentavano casa nostra erano moltissimi e di varia estrazione e provenienza. Da Charlie Chaplin a George Gershwin a svariati scrittori o musicisti, in particolare tedeschi, che avevano lasciato l’Europa per rifugiarsi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. Anche Thomas Mann frequentava allora mio padre, ma la loro amicizia subì un duro colpo quando il romanziere nel suo Doctor Faustus attribuì alle evocazioni del diabolico alcuni tratti che con chiara evidenza rimandavano alla cifra artistica di Schönberg, primi fra tutti quelli connessi alla dodecafonia. A mio padre era dispiaciuto moltissimo che Mann non avesse voluto prima confrontarsi con lui su queste suggestioni, che le avesse inserite nel libro senza prima parlarne con lui, insomma, preferendo farsi spiegare la musica dodecafonica da Adorno piuttosto da chi questa musica l’aveva inventata. Riuscì infine ad indurre Mann ad inserire alla fine del libro delle scuse nei suoi riguardi, ottenendo che gli venisse da lui riconosciuta la paternità intellettuale del sistema dodecafonico.
La vocazione autentica verso l’insegnamento, la didattica, ha rappresentato un tratto che ha in qualche modo accomunato i percorsi formativi e speculativi di suo padre e suo marito?
NS_No, direi di no. Luigi dava grande risalto al rapporto con le persone e all’aspetto divulgativo, ma non si è mai davvero appassionato all’insegnamento. Non aveva quel tipo di vocazione. Ci sono stati un paio di suoi studenti diventati poi compositori di successo che hanno mantenuto i rapporti con lui, ma posso dire che non vivesse l’insegnamento quale suo habitat prediletto, ecco. Mio padre invece aveva questa vocazione che viveva come una sorta di missione. Anche in presenza di bambini molto piccoli la sua passione di illustrare concetti con molta pazienza e chiarezza era instancabile. Con me e i miei fratelli non c’è stata però da parte sua la volontà di insegnarci i concetti chiave del suo intendere e fare musica. Quando gli ho chiesto di spiegarmi la dodecafonia mi ha ‘solo’ indirizzato ad un libro che secondo lui avrei dovuto studiare come base da cui partire per poter poi sviluppare ed approfondire eventualmente la materia. Da giovane cantavo e sapevo leggere la musica; suonavo poco o nulla però, mio padre non mi ha mai incoraggiata in tal senso. Credo di non aver mai voluto intraprendere davvero questo percorso; c’era un allievo di mio padre che voleva insegnarmi alcune cose, ma non è mai scattata dentro di me quella scintilla che ti spinge a fare di una disciplina la ragione prima della tua vita.
Ma ritorniamo alla sua prima Venezia, al suo arrivo qui con Luigi Nono. Che impatto ha avuto con la città? Quello più diretto e vivido, le impressioni più immediate.
NS_Arrivai a Venezia in treno con Gigi da Gravesano, in Svizzera, dove eravamo andati a trovare un direttore d’orchestra suo carissimo amico. Quando arrivammo in città trovammo una lettera in cui Malipiero si complimentava con Luigi per il grande successo riscontrato in Germania. Ma Malipiero, che negli anni ‘40 fino al ‘52 era stato direttore del Conservatorio, aveva già in precedenza parlato con suo padre, Mario Nono, dicendogli che a suo avviso Luigi non avrebbe avuto alcun futuro nel mondo della musica. Mario gli aveva creduto, vista la posizione che questo importante compositore ricopriva al Conservatorio. Luigi si era formato come allievo con Malipiero, anche se poi i loro rapporti si erano fatti praticamente inesistenti dopo gli studi. Se fosse stato per me, avrebbe dovuto presto tagliare i ponti con lui, ma Luigi lasciava invece sempre le porte aperte, spesso anche a persone con cui aveva avuto dissapori o contrasti. Non conosceva il rancore, superava presto le delusioni, sapeva lenire le ferite. Di Venezia, al mio arrivo, io non sapevo davvero nulla di nulla. Percepivo netta l’ostilità delle amiche di Luigi, come dicevo, mentre il rapporto con i miei suoceri fu splendido fin da subito. Mia suocera era una persona davvero eccezionale. Quando arrivammo a Venezia andammo a pranzo da loro e poco prima di mangiare suo padre Mario si alzò, andò al giradischi e fece partire Verklärte Nacht di mio padre, commuovendosi all’ascolto. Un ricordo che a distanza di anni fa commuovere ancora anche me. A Venezia tutti sapevano tutto di tutti. Comunicavo con chi sapeva l’inglese; le altre persone con cui mi incrociavo si limitavano a dire: «Carina». Quando siamo venuti a vivere alla Giudecca il mio proposito era assolutamente quello di impegnarmi a fare qualche cosa di utile da un punto di vista sociale. Ho quindi iniziato a lavorare in un Istituto per ragazze madri, giovani donne alle prese con gravidanze non pianificate. Mi sono trovata di fronte a ragazze che purtroppo non avevano davvero la minima idea della situazione in cui si trovassero, ignare anche di dove si trovasse il bambino durante la gravidanza. Giovanissime che con un pancione enorme mi guardavano e dicevano: «Ma io non ho fatto niente, non posso essere incinta». Andai un paio di volte in questo Istituto, ma alla terza occasione in cui mi recai lì le suore che lo gestivano mi impedirono di parlare con le ragazze perché consideravano ‘sconvenienti’ i disegni che facevo per spiegare loro come funzionava il corpo femminile, immagini del tutto prive di volgarità. Sono rimasta comunque molto attiva alla Giudecca, soprattutto a fianco della popolazione femminile, anche collaborando a lungo con il Partito Comunista. Negli anni ’70 abbiamo lavorato con loro per la sistemazione delle fogne a cielo aperto alle Zitelle e, in deciso anticipo sui tempi, abbiamo allestito e curato un doposcuola per i bambini, servizio che all’epoca non esisteva, insegnando la musica, il mimo e il teatro. Poi, a tempo perso, ritmi frenetici in cucina! Gigi era capace di chiamare a mezzogiorno e mezzo annunciando il suo arrivo imminente con 10-12 persone al seguito… Chiamavo allora direttamente a casa un amico macellaio per poter prendere il necessario anche nei suoi giorni di chiusura.
Piatti italiani o tedeschi a tavola?
NS_Cucina italiana, con dolci austriaci magari, che a Natale portavo anche in alcune botteghe della Giudecca, come la farmacia o la posta.
Una vera e propria “casa del popolo” la vostra insomma, con un brulicante, incessante viavai di volti e storie.
SN_Era davvero un porto di mare aperto, libero, casa nostra in quegli anni. Ero bambina, ma ricordo vivamente l’energia che connotava quella casa attraversata da persone provenienti da ogni dove, tutte accomunate comunque da un medesimo afflato civile, da un comune impegno politico. Ricordo benissimo, ad esempio, quando furono nostri ospiti gli Inti-Illimani, appena fuggiti dal Cile dalla persecuzione di Pinochet. Simpaticissimi! Per oltre un anno fu poi nostro ospite un guerrigliero fuggito dal Venezuela, che rimase nascosto da clandestino in casa nostra per sfuggire alle persecuzioni politiche di quegli anni.
A distanza di 31 anni dalla nascita della Fondazione Luigi Nono abbiamo la sensazione che l’Archivio non sia solo un luogo di conservazione e tutela dei materiali archivistici, ma anche uno strumento che sta cambiando la percezione critica della figura di Nono. Nel senso di un potente arricchimento ed approfondimento rispetto ai frequenti schematismi utilizzati nei suoi riguardi quando era ancora in vita. È un’idea, una percezione corretta questa?
SN_L’Archivio è sempre stato innanzitutto uno strumento di diffusione, non di mera ed esclusiva catalogazione. Questo grazie al rapporto che gli studenti interessati all’opera di mio padre hanno sempre avuto con il suo repertorio, studiandolo e rendendolo incessantemente vivo, dinamico. Mia madre stessa è andata molto spesso come ospite in diverse scuole per spiegare la figura di mio padre, i suoi pensieri in ambito musicale, civile, politico, trovando sempre un riscontro di interesse davvero emozionante. Mia madre ha raccolto il materiale secondo metodi che prima non si riscontravano negli altri archivi. Il suo lavoro iniziato quarant’anni fa era decisamente in anticipo sui tempi, proprio da un punto di vista metodologico. Basti pensare che tutti gli schizzi e tutte le partiture di mio padre sono stati certosinamente fotocopiati, così da essere liberamente e facilmente consultati oggi da chiunque senza dover sottostare a quei percorsi burocratici un po’ ammuffiti e legnosi dei classici archivi accademici. Audio, video, programmi di sala, epistolari sono stati duplicati e conservati da mia madre da trent’anni a questa parte, un lavoro incredibilmente capillare che ora permette alla Fondazione Luigi Nono di disporre di un Archivio come pochi altri ce ne sono al mondo, sia in termini di completezza che di consultabilità. Oggi magari risulta scontato che un archivio del genere possa essere disponibile online, ma trent’anni fa il lavoro, il metodo di catalogazione seriale di mia madre ha senza dubbio alcuno precorso i tempi, facendo sì che la razionale e agevole accessibilità ai documenti attirasse l’attenzione di tutti gli studiosi che da ogni parte del mondo erano, e sono, interessati al repertorio e alla figura di Luigi Nono. L’approccio tecnologico adottato da mia madre negli anni ’90 è stato quindi un elemento cruciale per rendere permanentemente vivo e attivo questo archivio. Lei è sempre stata molto attenta alle potenzialità dei nuovi mezzi di diffusione e duplicazione; attenzione che le deriva di sicuro dal magistero del padre e dal fatto di aver vissuto negli Stati Uniti, dove queste potenzialità sono assecondate ed esaltate nella ordinaria quotidianità. L’Archivio per questa ragione in primis è sempre stato frequentato da persone dagli interessi molto variegati, che mia madre invitava costantemente per dialogare in incontri aperti alle contaminazioni. Alla base di tutto c’è Nuria, insomma, capace con la sua lucida tenacia di costruire tutto questo da sola, dalle fondamenta. Aiutata certamente da altri cofondatori, tra cui Massimo Cacciari e Alvise Vidolin, ma è stata da sempre innanzitutto sua l’idea fissa di creare un luogo di ricerca e di aggregazione dinamico, aperto a tutti, come mio padre di certo avrebbe voluto. Tutto questo vive e resiste ancora oggi dopo tre decenni anche grazie alle fantastiche collaboratrici che abbiamo in Archivio, persone capaci di lavorare 12 ore al giorno, alcune delle quali appassionate stagiste, a cui possiamo offrire un’esperienza culturale unica pur con un budget molto ridotto da cui poter attingere. Una ragazza moldava che ha fatto recentemente lo stage da noi quando è arrivata sapeva poco o nulla di mio padre. Quando è andata via ci ha lasciato un dipinto realizzato da lei ispirato a La fabbrica illuminata, a testimonianza di come si fosse autenticamente appassionata alla figura di mio padre e al suo lavoro. Si parla spesso dei giovani in termini non molto lusinghieri, ma io non credo che la situazione sia grave come la si descrive, anzi! I giovani sanno sorprendere, eccome. Basta saperli rendere protagonisti di un lavoro, di un’attività nel segno della condivisione. Che è poi il miglior modo per responsabilizzarli anche.
Quale lo stato di salute del Festival, arrivato nell’anno corrente del Centenario alla sua settima edizione?
SN_Di sicuro il Festival negli ultimi anni ci ha aiutato molto ad incrementare il nostro pubblico di studiosi e di appassionati, ma anche di semplici curiosi, non necessariamente cultori e conoscitori di musica contemporanea. Credo, del resto, che fosse un po’ il principio base della vita e del lavoro di mio padre quello di aprirsi al più ampio pubblico possibile, anche e soprattutto a quello che a prima vista poteva non sembrare interessato a ciò che lui portava avanti in termini artistici non solo nella musica, ma anche nel teatro, nella poesia, nella letteratura. Era alla fine questo, innervato da un intenso impegno politico e sociale, il suo modo profondo e partecipato di costruire la relazione con l’altro. Altro aspetto che molto ci ha soddisfatti negli ultimi tempi è il rapporto che siamo riusciti a creare con le altre istituzioni veneziane. Oggi il Festival in particolare si svolge in diverse sedi di istituzioni protagoniste della cultura e delle arti contemporanee in città, a dimostrazione che persiste un grande interesse verso la musica di Nono quale elemento vitale ancora oggi del fare cultura contemporanea. Tutti soggetti che oltre a darci preziosa ospitalità, interagiscono sempre di più con noi al di là del dato meramente logistico. Si tratta di collaborazioni vitali per noi, senza le quali non riusciremmo in alcun modo a portare avanti e a far crescere di anno in anno questo Festival. Sì, perché purtroppo in Italia si fatica a comprendere che investire in cultura, sostenendo archivi, centri di ricerca, laboratori, significa costruire un futuro più ricco di stimoli per i giovani innanzitutto. È un discorso ormai annoso e direi noioso, alla luce del fatto che nulla pare muoversi di nuovo a riguardo. Per cui si continua a faticare senza praticamente sostegno economico alcuno. “Facciamo rete dal basso”, come si suol dire, non ci resta altro da fare. Siamo in due praticamente a seguire ogni cosa qui in Archivio e ad organizzare il Festival, aiutate come dicevo dalle istituzioni che mettono a disposizione i luoghi e da chi vi viene a suonare, quasi sempre artisti disposti a lavorare senza che venga riconosciuto loro alcun compenso, mettendo a disposizione il proprio talento, il proprio tempo solo per la passione che nutrono per la musica di mio padre. Si tratta di persone che vogliono fortemente far parte del nostro mondo, delle nostre occasioni di incontro musicali nel cuore del nostro festival. La cosa ci inorgoglisce e ci emoziona sempre, però sarebbe ora che potessimo essere messi nella condizione di riconoscere almeno un minimo a questi artisti che della loro musica vivono o vorrebbero vivere. Un Festival, ad ogni modo, che non è “solo Nono”: ogni anno, infatti, coinvolgiamo studenti e istituti musicali per realizzare dei progetti che possano poi camminare da sé ben oltre i confini temporali del Festival. Mio padre e la sua musica possono essere il punto di partenza per riflessioni e percorsi capaci di andare lontano nel tempo e nello spazio. Oggi è molto, molto difficile per i giovani compositori trovare un luogo dove far ascoltare la propria musica. Noi speriamo nel nostro piccolo di essere d’aiuto almeno in questa direzione
In questo 2024 del Centenario abbiamo assistito a due momenti davvero epocali dello straordinario percorso compositivo di Luigi Nono, con il Prometeo rimesso in scena a San Lorenzo a gennaio e il doppio spettacolo della Fenice con il dittico Erwartung-La fabbrica illuminata, a sublimare una sorta di lessico famigliare tra il grande compositore veneziano e Arnold Schönberg, vera e propria staffetta dell’avanguardia novecentesca. Come avete vissuto questi due straordinari momenti?
SN_Tornare a San Lorenzo è stato emozionante, ha confermato come quello sia proprio “il” luogo adatto al Prometeo. Lì il suono ha una dinamica e delle possibilità irripetibili in ogni altro luogo; credo che questa sensazione sia stata percepita da tutti. Marco Angius, direttore di quelle date alla testa dell’Orchestra di Padova e del Veneto, ha fornito un’interpretazione di livello davvero eccezionale, da profondo conoscitore della musica di Nono in ogni sua sfumatura quale è. Angius riesce a parlare della musica di mio padre con una cifra divulgativa che si sa fare profonda, cosa che abbiamo potuto apprezzare a San Lorenzo così come in un altro degli appuntamenti di questo ultimo Festival. Anche il doppio concerto della Fenice è stato interpretato da artisti davvero strepitosi, il livello è stato veramente altissimo.
Quali le iniziative future?
Tra tutte vorrei segnalare il 18 dicembre al Conservatorio il concerto Fortissimo nel mio cuore! con musiche di Schubert e Nono. Si tratta di una lezione-concerto in cui Sandro Cappelletto è la voce narrante che accompagna il pubblico da un brano all’altro. Abbiamo visto lo spettacolo a Lucca nel corso di un festival primaverile e ci è piaciuto davvero molto. Siamo perciò felici di essere riusciti a portarlo a Venezia come momento conclusivo dei festeggiamenti del Centenario.