L’uomo che voleva essere una favola

Giovanni Montanaro ci racconta "Come una sirena"
di Elisabetta Gardin
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In “Come una sirena” (Feltrinelli) lo scrittore veneziano racconta le vicende avventurose della giovinezza di Hans Christian Andersen e in particolare la nascita de La Sirenetta, una delle favole più note dello scrittore e poeta danese. Ma il nuovo romanzo di Montanaro è anche una riflessione sul talento e sulla difficolta di amare.

Hans Christian Andersen è davvero forse il più grande outsider della storia della letteratura

Una storia sorprendente, che non ti aspetti. Una storia avvincente, unica, ambientata nell’Ottocento ma assolutamente contemporanea. È Come una sirena, il nuovo lavoro di Giovanni Montanaro edito da Feltrinelli, un libro caratterizzato da una scrittura pulita, oserei dire perfetta. Ancora una volta Montanaro sa raccontare le sue storie con la consueta chiarezza, frutto di un profondo lavoro, di una grande precisione, che infonde alla sua narrazione quell’apparente semplicità che solo i veri scrittori hanno in dote. Narra le vicende avventurose della giovinezza di Hans Christian Andersen e in particolare ci racconta la nascita de La Sirenetta, una delle favole più note dello scrittore e poeta danese, autore peraltro di altre indimenticabili fiabe come La principessa sul pisello, I vestiti nuovi dell’imperatore, Il soldatino di stagno, Il brutto anatroccolo, La regina delle nevi e La piccola fiammiferaia. Andersen nasce ad Odense, in una famiglia povera in cui non manca l’amore. Tuttavia la guerra porta la miseria e rende aridi i cuori, infrange i sogni del padre ciabattino, la madre diventa alcolizzata. Alla morte del padre, diventato pazzo, la madre si risposa e Hans appena adolescente se ne va di casa sognando il teatro, come quel giocattolo che da bambino il padre aveva costruito per lui, e finalmente arriva in una Copenaghen «furente e tenebrosa, enorme, rumorosa». Ha grandi aspettative, ma la sua carriera nel mondo dello spettacolo viene subito stroncata. Prende lezioni di canto, di danza, di recitazione senza alcun risultato significativo, ritrovandosi in una classe di bambini mentre è già un ragazzo. È povero, però frequenta i salotti buoni, gode del favore e dell’amicizia delle più illustri famiglie, entra persino nelle grazie del Re, finché comincia a scrivere – «se scriveva stava bene» – e diventa uno dei più grandi autori del suo tempo. Il romanzo ci offre un’acuta riflessione sull’idea, sul percorso quasi mai lineare del talento. Andersen arriva al successo, conquista la fama mondiale solo dopo aver sbattuto la testa contro tanti fallimenti e delusioni, conseguendolo alla fine grazie alla sua enorme determinazione. Lui, adolescente bullizzato, spesso sopra le righe, inopportuno, alto, sgraziato, con una voce femminile, piedi enormi, abiti sgargianti, eccentrici, ha la percezione di non essere come gli altri. Da ragazzo soffre enormemente di questa sua condizione “altra”, mentre da adulto «si compiaceva della propria stravaganza», pur non perdendo mai le speranze e quella sua determinazione indefessa, che oggi è sempre più merce rara in una società dominata dalla fretta, dal tutto e subito, senza sforzi e fatica. Da un lato, quindi, questo suo essere risoluto, ostinato nel voler raggiungere il successo, dall’altro un’esistenza segnata dall’indecisione, da una sorta di eterna adolescenza che lo porta all’incapacità di scegliere un’identità anche sessuale e che, con profondo dolore, lo farà fuggire tutta la vita da un vero legame, sentimentale e carnale. Andersen attraverso le favole riesce a comunicare ciò che nella vita reale non sarebbe riuscito a dire: la paura, le emozioni, gli amori mai vissuti per ragazzi e ragazze, soprattutto per Edvard Collin, il figlio del suo protettore. L’amore è dunque un’altra componente fondamentale del libro, le contraddizioni dell’amore, l’impossibilità di esternare i propri sentimenti, la paura, le limitazioni imposte dalla società. Andersen fa dire alla sirenetta: «non ci si può fidare dell’amore: l’amore acceca, inganna, ci induce in errore… e poi finisce». Andersen è dunque la sirenetta che prova disperatamente ad amare; la bruciante delusione d’amore che lei prova quando il principe si sposa è la stessa che spacca il cuore dello scrittore quando Edvard decide di prendere moglie.

Chi è per lei Hans Christian Andersen?
Fino a qualche anno fa era solo l’autore di alcune delle fiabe che leggevo da bambino e che già all’epoca mi sembravano diverse da tutte le altre. Più profonde, più speciali. Non c’è paragone tra la Sirenetta e Cappuccetto Rosso, per dire. Ma Andersen col tempo è diventato per me anche qualcosa d’altro. Un uomo, innanzitutto. Con un destino incredibile.

Cosa l’ha portata a scrivere questa storia? Come si è documentato e che ricerche ha dovuto fare?
La scintilla si è accesa leggendo un articolo di una rivista inglese in cui si raccontava come Andersen avesse cominciato a scrivere le fiabe per raccontare innanzitutto sé stesso. In particolare La Sirenetta era stato il suo modo di raccontare un amore non corrisposto, che non riusciva a vivere fino in fondo, che provava per un ragazzo come lui, molto diverso da lui. Da lì ho letto tutto quello che Andersen ha scritto, romanzi, diari, lettere, poesie. È stato un lavoro lungo, faticoso e avvincente, durato quasi otto anni. Finché a un certo punto è brillata una seconda scintilla, ossia la decisione di scriverlo alternando prima e terza persona.

In Come una sirena lei affronta temi profondi e senza tempo, quali la difficoltà di amare, di capire noi stessi, di decidere, di sentirsi diversi: quanto c’è di personale in tutto questo? Si è mai sentito una sirena?
Devo dire che ognuno di noi approccia Andersen sentendosi molto distante. È il classico irregolare. La mia vita mi sembra diversissima dalla sua: non ho mai pensato a me stesso, francamente, come a una sirena. Ma poi la verità è che ci sono alcune pulsioni umane che ti avvicinano inevitabilmente a un autore così complesso e travagliato. Penso magari ai brufoli dell’adolescenza, o al sentirsi rifiutati, al non sentirsi all’altezza insomma, o al fatto che una persona che ami scelga di stare con qualcun altro. Sono sentimenti che probabilmente tutti intercettiamo in qualche momento della vita.

Il suo romanzo è anche una riflessione sul talento. Lei come ha scoperto di esserne dotato, come l’ha coltivato e quali consigli può dare a riguardo ai giovani scrittori?
La vita di Andersen fa capire che è solo con la tenacia, con la consapevolezza, con la capacità di adattarsi, di cambiare, di inventarsi e reinventarsi che si ottiene quel che si desidera. Andersen ce l’ha fatta, contro ogni pronostico. È davvero forse il più grande outsider della storia della letteratura.

«Il re è nudo». Oggi l’immagine sembra più che mai attuale.
Quante cose ci ha detto Andersen… È anche il padre di Frozen, per dire. «Il re è nudo» è una frase molto forte, che dà il peso di quanto dobbiamo stare attenti al potere, alla falsità intrinseca del potere, ma anche alle fake news, ai cattivi consiglieri, alle illusioni. La vita ad Andersen ha consentito di conoscere tutto, in un arco di assoluti estremi che vanno dalla più fonda povertà alla frequentazione di una casa reale. Nelle sue fiabe c’è tutto e tutto profuma di autenticità, perché tutto è stato vissuto in prima persona. È per questo che è così credibile.

Da piccolo amava le favole? La sua preferita?
Senza dubbio Il brutto anatroccolo. Perché è quella che più ti interroga e perché finisce bene. E’ chiaro che ora, dopo questo lungo viaggio, sia molto legato anche alla Sirenetta.

Molti suoi colleghi hanno successo con i podcast, vedi, tra i tanti, Carlo Lucarelli ad esempio. Per certi versi può considerarsi un ritorno alla tradizione orale. Lei si è già cimentato con questo strumento? Ha qualche progetto in proposito?
Credo che raccontare sia un’avventura umana che si può fare in mille forme. Ho fatto podcast, sì, facevo per «Vogue» le vite dei grandi stilisti, perché mi piace raccontare. Ma nulla e nessuno mi può togliere il piacere di fissare una parola sulla carta o sullo schermo di un computer. È un movimento che ha a che fare con il fissarsi, il riconoscersi, il fare. Non c’è niente come la scrittura. Perché poi la ritrovi, la rileggi, è onnipotente, infinita.

Siamo in clima natalizio mentre infuriano due guerre cruentissime al cospetto delle quali la politica internazionale è davvero, e a dir poco, preoccupante nel suo sostanziale immobilismo. In questo panorama dolente e desolante cosa si augura per il Natale? Qual è il suo ricordo più bello legato a questa festa?
Il più bel ricordo sono i natali da bambino, in una famiglia molto grande. Nonni che non ci sono più, parenti, cugini. Ancora ci troviamo, ma col tempo è diverso. I primi natali sono sempre quelli che ti segnano. Cosa mi auguro per il futuro? Che gli uomini diventino meno imbecilli. Dalle guerre senza senso al modo in cui ancora certi uomini trattano le donne, sembra che siamo sempre fermi dentro la morsa della barbarie.

 

Immagine in evidenza: Giovanni Montanaro © Adolfo Frediani

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