Secondo cassetto dall’alto

Luca Massimo Barbero e Biennale, un archivio vivo e in espansione
di Mariachiara Marzari, Fabio Marzari
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La mostra “Un Diavolo Amico” in corso a Ca’ Giustinian sigla una nuova collaborazione: l’acquisizione da parte dell’ASAC dell’archivio di Luca Massimo Barbero, un archivio vivo e in continua espansione, che si arricchirà progressivamente e che lui stesso continuerà a utilizzare.

In questo momento storico di abbreviazione della memoria, consegnare alla Biennale materiali ancorati al presente e mettere a disposizione degli studiosi documenti che possono essere consultati nella loro versione originale assume una dimensione vitale.

Personalità positivamente complessa, estremamente vitale e polimorfa negli interessi e nella formazione, Luca Massimo Barbero è un autorevole storico dell’arte, curatore di arte moderna e contemporanea e fotografo. Una mostra, in corso a Ca’ Giustinian dal titolo Un Diavolo Amico, celebra un’importante, nuova e fondamentale collaborazione: l’acquisizione da parte dell’ASAC dell’archivio di Luca Massimo Barbero, un archivio vivo e in continua espansione, che si arricchirà progressivamente e che lui stesso continuerà a utilizzare. La Biennale conferma così l’indirizzo e il programma dell’Archivio Storico/Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee: ospitare archivi e fondi, anche di terzi, che affrontano e si misurano con i temi legati alle arti contemporanee e al contempo ampliare la sua missione come luogo sempre più aperto, vitale e generativo, volto ad attivare nuove opportunità di ricerca per giovani studenti e appassionati ricercatori. «Per definire la scelta di Luca Massimo Barbero – ha dichiarato Roberto Cicutto, Presidente della Biennale di Venezia –  utilizzo la parola “gesto” nella sua accezione semantica più ampia (movimento, espressione di un sentimento, atto motivato da ragioni profonde) perché sconfigge in maniera chiara la concezione di un archivio a cui si lascia qualcosa perché venga solo conservata. In questo caso si lascia qualcosa affinché aumenti la sua capacità respiratoria e cresca in un contesto che può valorizzarla rendendola fruibile dal più largo pubblico possibile».

La mostra presenta una prima tranche di materiali dall’archivio di Luca Massimo Barbero, che saranno esposti a rotazione nei mesi successivi, in una sorta di carotaggio volto a rivelare i numerosi aspetti della sua personalità e del suo metodo di studio e curatela. Disegni, fotografie, appunti estratti dai quaderni di bozzetti, storyboard, cataloghi, oggetti, tutti materiali che testimoniano la quarantennale pratica curatoriale che contraddistingue internazionalmente il suo percorso professionale. «Luca Massimo Barbero – afferma Nicolas Ballario, che firma il testo introduttivo della mostra – è il più artista tra i curatori, che con migliaia di bozzetti e di appunti più che progetti ha costruito un diario, che, come questo archivio, continuerà a evolversi e cambiare e cancellare se stesso».

Photo Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Iniziamo proprio dal significato di archivio. Perché, a differenza delle donazioni che prevedono per così dire “materiale morto”, il tuo è un archivio vivant, un archivio in fieri, in divenire, qualcosa che c’è e continua a muoversi?
Lo chiamiamo per comodità archivio, anche se in realtà quello che emerge in mostra è proprio una sorta di luogo e metodo, un vero opificio del curatore. Sono tutti gli strumenti, io li chiamo così, della mia ricerca, del mio lavoro, siano essi le corrispondenze, i vecchi fax, i libri, i cataloghi antichi, la fototeca, piuttosto considerevole, le collezioni di fotografia, le mie fotografie, i blocchi di appunti; sono tutti i materiali che concorrono a formare quello che chiamo “il mio immaginario”. Il cacciatore d’immagini articola, orchestra, come si dice sul terreno registico, restituisce e condivide con il pubblico la sua personale visione. Così nascono le mostre, nascono le pubblicazioni, nascono i libri di fotografia. È questa forma di vitalità del pensiero che in fondo emerge chiara anche nella mostra Un Diavolo Amico. Tutto questo “magma” ha trovato curiosamente l’interesse della Biennale, che in questo momento sta imprimendo all’ASAC una direzione di vitalità, una nuova fruibilità attiva e complice di un grandissimo giacimento di idee. È stato un incontro straordinario; sono veramente onorato, il tutto riporta ad una comunanza strettissima di visioni. In sintesi nel mio archivio non c’è il passato, c’è il pensiero vivo, immanente, in continua evoluzione, e tutto ciò che c’è nell’archivio concorre a costituire quello che sto facendo anche ora, in questo momento. È la mia stessa identità.

Il la di questo caleidoscopico archivio: quando e come nasce l’idea di iniziare a conservare tutto?
Il tutto ha preso il via ritagliando le immagini di De Chirico, ricercando e trovando un luogo per raccoglierle, per poi cominciare a descriverle, studiarle, comporle. C’è sempre stata questa forma di raccolta dati che potremmo definire “analogica”. Sono sempre stato un grande lettore, accompagnato da quest’idea di dare vitalità alle parole e alle immagini. Per costruire la mostra a Ca’ Giustinian ho riscoperto, riaprendo alcuni bloc notes, che le idee, gli appunti, gli schizzi rimangono vitali; c’è tutto lì dentro, l’alto e il basso, c’è un pensiero, c’è una poesia di Sandro Penna piuttosto che di Emil Cioran, ma ci sono anche i pugili, i numeri di telefono, gli appunti sugli amici, le conversazioni sugli artisti, insomma, c’è tutto il mio lavoro, il mio personale mondo. Un caos controllato che spero la mostra riesca a restituire compiutamente.

Photo Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Un archivio è quanto di più personale ci possa essere di un individuo. Tuttavia la mostra non è in nessun modo un’autocelebrazione, quanto piuttosto materiale vivo di riflessione, illuminante per gli addetti ai lavori perché trasmette un metodo che se nell’archivio appare non definito, acquista chiarezza e lucidità nel risultato finale di una mostra o di un catalogo. Un Diavolo Amico è una mostra romantica e personalissima, nel senso che è chiaro che è tuo quell’archivio, non può essere di nessun altro, ma al contempo fa emergere il dato tecnico di un metodo di ricerca rigoroso.
La mostra non vuole assolutamente essere autocelebrativa, ma certamente è molto personale. Per esempio ho voluto utilizzare nelle pareti del Portego il doppio colore, giallo e blu, che sono due elementi cromatici che mi caratterizzano assai. Il primo, il giallo, è il colore della sala da pranzo della mia prima casa a Venezia, mentre il secondo, il blu, che ho utilizzato normalmente per le mie mostre, è stato definito dal «Corriere della Sera» il “Blu Barbero”. Tutto ciò per affermare ancora una volta come l’immaginario sia fondamentale: il privato entra nel pubblico e si mescola, tuttavia per me è tutto privato, tutto è molto personale. La sorpresa della mostra sta proprio nello scoprire da un lato il Barbero ordinato, maniacale, pignolo, lo storico, lo studioso, che fa forse il lavoro più lungo e certosino redigendo cataloghi ragionati di artisti come Consagra, sette anni e mezzo di lavoro, o Fontana, cinque anno il primo e sei anni e mezzo il secondo, lavori metodici, costitutivi; dall’altro il Barbero che sembra in fondo non lavorare mai, che viaggia, che fotografa, che prende appunti e disegna, che scherza. Conciliare in Italia l’immagine dello studioso con una persona “fuori dagli schemi” è molto difficile. Per questo vedo il mio immaginario come “il diavolo amico”, che alimenta la mia passione profonda per le immagini, che mi spinge a “cacciarle”, a rimetterle in circolazione potendole osservare utilizzando una diversa lente.

È il metodo Barbero che esce, o meglio il metodo Barbero con la persona Luca Massimo che lavora, gioca, si intrattiene e mette insieme vari elementi per produrre poi determinati lavori. Facendo un lavoro immateriale, come tutti a diverso livello svolgono nella variopinta galassia della cultura, alla fine la produzione che ne esce è apparentemente intangibile perché fatta di idee. Troviamo interessante in questo tuo progetto in particolare la possibilità di mettersi a nudo per poter raccontare come nasce il lavoro di curatore, svolto ad un livello altissimo.
Gli artisti, soprattutto quando disegnano, mostrano il loro lato più intimo. Io ho inventato un modo di dire: «Il tempo che passa dalla testa alla mano», cioè avere un’idea e portarla direttamente sulla carta, fissarla attraverso un disegno, uno schizzo, per darne sviluppo compiuto, visualizzarla. In mostra troviamo per esempio i disegni abbozzati dell’allestimento della mostra sullo Spazialismo o quelli che fissano i pensieri su come avrei voluto impostare il catalogo di Peter Greenaway, o ancora le mie lezioni alla Scuola Holden di Torino. Ho bisogno in diretta di passare dal cervello alla mano ed è per questo che – cosa che ha sorpreso molti – disegno, faccio degli schizzi. Mi piace perciò l’idea che in mostra ci sia un assaggio di tutto questo; ovviamente l’archivio è molto altro e di più, qui ho voluto esporre esemplificazioni pratiche, visive, dirette, una parte del tutto. Ad ogni modo forse sì, è il metodo Barbero, chiamiamolo pure così: una specie di ossessione felice e la compagnia intrigante di questo “diavolo amico”, che ho voluto come titolo della mostra e che deriva da un disegno di Tancredi, in pratica una dedica speciale a uno dei miei grandi amori. I termini “archivio”, “artista”, “regista” ritengo restituiscano a pieno tutto quello che ho fatto. Desideravo che queste mie curiosità, approfondimenti, studi fossero condivisi con il pubblico, fossero condivisi con e attraverso il mio lavoro. Adesso non c’è niente di più bello che condividere anche questo pezzo di me. Utilizzo sempre questa parola: “condividere”, che non significa in questo caso studiare me o il mio metodo, bensì comprendere questa vitalità per farci, come dico sempre, “inciampare”, magari inducendoci a studiare artisti meno noti, ad individuare relazioni meno evidenti tra artisti nazionali e internazionali, a cogliere le varie pieghe di un percorso non lineare. Un percorso sicuramente meno canonico rispetto a quello di uno storico dell’arte, pur essendo io uno storico dell’arte molto precisino!

Photo Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

La decisione e la scelta di condividere questo tuo percorso con La Biennale: come è nata questa relazione attorno a questo sorprendente, intrigante progetto?
Si potrebbe dire che il tutto sia nato da una “provocazione” del Presidente Cicutto il quale, nell’evoluzione impressa all’ASAC per portare ulteriore vitalità a questo settore fondamentale della Biennale e trasformarlo in un archivio in evoluzione e movimento, mi ha invitato a condividere il mio archivio ancora magmatico e in continuo divenire. Ciò ha acceso un desidero di condivisione che ha scatenato una reazione. Da lì, la realtà ha superato l’immaginazione. Si è trattato, quindi, di una straordinaria coincidenza culturale, più che astrale. Una volta accesa la scintilla, il Presidente è poi venuto nel mio studio e così più volte Debora Rossi, Direttore dell’Archivio Storico; da questa frequentazione è nata l’idea e la collaborazione. Era da tempo che peraltro mi chiedevo cosa fare delle bellissime fotografie storiche di Cameraphoto, che rappresentano episodi straordinari della Biennale di Venezia dal 1948 al 1981. Le cose si sono poi dipanate naturalmente, al punto che oggi  ritengo sia quasi un’evoluzione inevitabile essere qui, ora, con una mostra e con il mio archivio parte integrante dell’ASAC. L’Archivio Storico e le Biennali stesse sono state nella mia formazione di storico dell’arte un nutrimento; il mio punto di partenza, il viaggio senza spostarsi, e Venezia, grazie alla Biennale ha un’antenna sintonizzata sulla contemporaneità mondiale.

Com’è cambiata la tua curiosità nel corso degli anni?
La mia curiosità è diffusa, è sempre in movimento grazie alle nuove connessioni che ci permettono di raccogliere informazioni e allargare i confini relazionali anche con persone non necessariamente addette ai lavori. Questi nuovi orizzonti espansi hanno conseguentemente determinato un’accesa crescita della mia produzione. Ad esempio le prossime mostre, una sarà a Seul e un’altra ancora ad Hong Kong, mi spingono ad allargare sempre più i confini della mia curiosità, mantenendo però sempre vive e salde le radici del mio indagare l’arte contemporanea, continuando a tal fine a frequentare gli studi dei giovanissimi – vedi il progetto Venice Time Case, nato su Instagram (@lucamassimobarbero e @venicetimecase) – o dei grandi artisti con cui collaboro da tempo. È  un’idea alternativa alle puntate ufficiali del mondo dell’arte, una mia alterità rispetto alla figura globe-trotter del curatore.

Come continuerà, dopo la mostra, questa avventura con l’ASAC?
La cosa è interessante perché il mio archivio adesso verrà inventariato, ovviamente studiato; ci sarà un gruppo di persone che ci lavoreranno, ma soprattutto continuerà a ricevere materiali, paradossalmente in tempo reale, cioè verranno inventariati, catalogati, studiati e implementati anche tutti gli appunti prodotti per questa mostra. Nel futuro verrà istituito un Fondo Luca Massimo Barbero dove sarà possibile avere tutte le mie pubblicazioni e accedere a documenti, materiali, scoperte, approfondimenti, immagini e altro ancora. Tra l’altro comprenderà anche la mia produzione fotografica, i miei scatti della serie Candidi Come Colombe Astuti Come Serpenti, oltre cento stampe originali. Entrerà quindi all’ASAC anche una parte più personalmente artistica. E con le mie fotografie verrà depositata anche tutta la progettualità editoriale, compresi i menabò dei libri della ginnastica e soprattutto della lotta libera, comprese due copie di «Venezia News» n. 127 del Luglio-Agosto 2008, primo magazine ad aver pubblicato una mia foto ufficiale in copertina: ho due copie intonse, non le ho neanche aperte, nel secondo cassetto dall’alto, parte destra della cassettiera, zona centrale. Quindi anche tutti i miei notes, i blocchi di viaggio, i pensieri, tantissimi autoritratti, gli appunti, i libri, le cose disegnate da me. Nell’archivio ci sarà proprio tutto.

Si direbbe quasi che la ritrosia sabauda è stata messa proprio da parte a favore dello sfarzo serenissimo, in questo caso uno sfarzo intellettuale, uno sfarzo che viene messo a disposizione di tutti.
È una parte della responsabilità che sento oggi di avere, ossia quella di trasmettere un vissuto e un lavoro di decenni all’esterno, agli altri. Di condividerlo, come dicevo. Che senso avrebbe tenere tutto questo deposito solo per sé? Sono molto soddisfatto di metterlo a disposizione qui ora, perché l’ASAC sta funzionando molto bene negli ultimi anni, ritrovando nuova linfa e valore. Un posto vitale che mi restituirà vitalità. Io sarò lì e tra l’altro non solo idealmente, ma anche fisicamente, perché sarò a disposizione per rispondere a domande o per discutere di idee: questo è il dato davvero interessante di tutta questa operazione.

Ci sono persone all’interno di una città che sanno veramente utilizzare la città stessa come volano verso l’universo mondo. Tu indubbiamente sei uno di quelli, perché non hai utilizzato Venezia, ma Venezia è stata per te semplicemente un medium. Ti riconosci in questa immagine?
Io ho due grandissimi amori: le immagini e Venezia. Di entrambe sono al servizio, sono uno strumento. Non c’è luogo in cui non cerchi di portare Venezia. La concepisco ancora come un porto, non è un caso che il mio studio sia a Porto Marghera e non in un palazzo del Settecento. E la Biennale è il grande porto internazionale dove Venezia come un tempo può essere un punto unico di riferimento, perché ci sono mille Biennali in giro per il mondo, ma la Biennale di Venezia è La Biennale, l’unica. A un’amica che mi ha detto: «Guarda, basta con questa cosa che non sei nato qui, tu sei più internazionale dei veneziani», ho risposto: «Guarda, ogni veneziano dovrebbe essere internazionale per vocazione». Venezia appartiene a chi la ama: si è veneziani se ci si sacrifica, se a lei ci si dedica con passione e dedizione, e io credo di farlo.

 

Immagine in evidenza: Luca Massimo Barbero – Ph. Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia