The colour

Beatriz Milhazes e il nuovo immaginario culturale brasiliano
di Mariachiara Marzari
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Adriano Pedrosa chiama l’artista brasiliana per l’ottava edizione del Padiglione delle Arti Applicate, in collaborazione con il Victoria and Albert Museum di Londra.

Beatriz Milhazes (n. 1960), artista brasiliana nota per il suo lavoro che sovrappone l’immaginario culturale brasiliano e i riferimenti alla pittura modernista occidentale, presenta sette dipinti e altrettanti collage di grandi dimensioni all’interno del Padiglione delle Arti Applicate. Cresciuta sotto la dittatura militare brasiliana del 1964-‘85, Milhazes è salita alla ribalta negli anni ‘80 come parte di una nuova generazione di artisti che hanno preferito la pittura alle pratiche concettuali prevalenti nel decennio precedente. Molti di loro furono inclusi nella storica mostra del 1984 Como vai você, Geração 80? (Come stai, generazione ‘80?), che segnò un ritorno al colore e all’espressione pittorica. «Volevamo la libertà di poterci esprimere e di sviluppare il nostro linguaggio», dice l’artista. Questo non significa che fossero apolitici o privi di coscienza sociale: «Siamo stati criticati da persone che dicevano che il nostro lavoro era l’espressione di una “mente vuota”, ma in realtà era esattamente il contrario. Sono stata politica per tutta la vita, ma non sempre in modo evidente». Geração Oitenta (Generazione Ottanta), il termine generico spesso accostato a Milhazes e ai suoi coetanei, non era tanto un movimento quanto “un momento” che rifletteva l’ottimismo dell’epoca, mentre il regime militare iniziava a crollare e la democrazia brasiliana emergeva. L’artista era già stata a Venezia nel 2003, quando rappresentò il Brasile alla 50. Biennale Arte. Il progetto del Padiglione delle Arti Applicate, quest’anno a cura di Adriano Pedrosa, è arrivato alla sua ottava edizione ed è frutto della collaborazione tra La Biennale e il Victoria and Albert Museum (V&A) di Londra.

Generazione Ottanta: cosa ha significato per lei essere parte di quel ‘momento’ storico del Brasile e quanto ha influito nella sua arte?
Penso che la mia generazione abbia lasciato un’eredità importante al mondo dell’arte brasiliana. Io ho studiato comunicazione e giornalismo, poi nel 1980 mi sono iscritta alla Scuola di Arti Visive di Parque Lage per un corso estivo. Ho studiato lì fino al 1983, quando assieme ad altri giovani artisti ho aperto il mio primo studio. Questa nostra generazione è maturata negli anni della dittatura militare. Ai tempi la Scuola era un luogo quasi di resistenza. Insegnanti come Luiz Áquila, Charles Watson, Ronaldo Macedo, John Nicholson, Celeida Tostes erano tutti artisti e avevano fatto della scuola il loro studio, un punto d’incontro che dava a noi studenti la possibilità di scambiare idee e fare amicizia. Siamo amici ancora adesso. Charles Watson è stato il mio insegnante principale e nonostante fosse straniero, appena arrivato dalla Scozia, lui capì cosa volevo portare avanti, quale linguaggio volessi usare nella pittura. Come ricerca di materiale raccoglievo stoffe da costumi di carnevale e Watson mi ha aiutato a capire la possibilità plastica di quanto avevo davanti fin dagli inizi della costruzione del mio linguaggio artistico. Il programma, alla Scuola, era stato sviluppato da insegnanti artisti. Era un programma vivo e basato sulla pratica. Era molto importante, durante questo periodo buio e difficile della storia del Brasile, che l’arte e la cultura mantenessero viva la loro tensione. Non era una piattaforma organizzata la nostra, ma un modo di lasciare un segno: siamo qui e non ci fermiamo, continuiamo a credere nella cultura e nell’educazione artistica. Nel 1984, un anno prima che finisse la dittatura, una mostra dal titolo Como vai você, Geração 80 (lett. Come va, Generazione Ottanta?), con opere di 123 artisti da tutto il Brasile, venne prodotta a Parque Lage e quest’anno ne celebreremo il quarantesimo anniversario. Che evento! Una grande istanza di libertà: finalmente potevamo pensare, esprimerci e tornare alla normalità!

La mia grande ambizione è sempre stata aggiungere nuove domande al modo in cui pensiamo all’arte astratta. Unire arte e vita

Cortesy La Biennale di Venezia – Foto Andrea Avezzù

Le sue opere sono il frutto di un processo lento ma costante. Quale il ruolo e il significato che lei attribuisce al tempo?
La pittura è sempre stata al centro della mia crescita come artista. Questo mio processo è frutto di un’evoluzione continua. Mi sento di essere una scienziata che introduce nuovi elementi e nuove domande, oltre a quelle che già ci sono e che ci interrogano tutti ogni giorno, per provocare una reazione a catena in grado di creare una nuova plasticità, in un incessante moto di rinnovamento vitale, proprio come accade in natura. Il tempo è elemento cruciale della mia pratica. Sono un artista che fa accadere tutto nello studio. Bisogna ascoltare ciò che si crea, c’è sempre un dialogo tra artista e opera. Durante la pandemia ho cominciato a usare un nuovo metodo in studio, con bozze preparatorie per i dipinti. Questo mi ha permesso di pensare visivamente a tutte le possibilità compositive prima di lavorare su tela. È un processo che apre delle porte: disegnare è un po’ come scrivere, si sperimenta con diverse composizioni – composizioni di forme e colori. L’opera, non importa in quale tecnica venga realizzata, matura secondo tempi suoi e un buon risultato viene solo dopo una relazione rispettosa.

Cortesy La Biennale di Venezia – Foto Andrea Avezzù

Quali sono secondo lei i fondamentali del Modernismo?
Libertà di espressione e soggettività sono gli elementi che più mi attraggono del Modernismo. Il fatto che lasci porte aperte al pensiero e alla visione. Il Modernismo brasiliano e europeo hanno influenzato molto il mio lavoro, in particolare le figure di Tarsila do Amoral e Henri Matisse, ma anche di Piet Mondrian più tardi. Il concetto fondamentale del Modernismo brasiliano, parliamo degli anni ‘30, vale a dire di lasciarsi permeare dal proprio contesto e di pensare alla pittura, nonché la storia stessa dell’arte mi hanno motivato fin dall’inizio nel mio lavoro. Mia madre è stata insegnante di storia dell’arte alla Statale di Rio, quindi la storia è sempre stata parte della mia istruzione. La mia grande ambizione è sempre stata aggiungere nuove domande al modo in cui pensiamo all’arte astratta. Unire arte e vita. Rio de Janeiro, il mio studio al giardino botanico, la natura esuberante e sempre in trasformazione, gli eventi culturali come il Carnevale, i contrasti sociali e la bellezza eterna di questa città… Tutto ciò mi fa pensare in modo altro.

L’America Latina e l’Europa. Origini e mescolanza culturale sono un elemento fondamentale del Brasile e di conseguenza del suo linguaggio artistico. Come questo tratto è divenuto l’elemento fondante della sua arte e come al contempo la sua arte è stata capace di tradurlo in linguaggio estetico personale e unico, grazie anche ad uno sguardo allargato verso le arti applicate, il lavoro femminile e la cosiddetta “arte popolare”?
Sono un’artista e vengo dai tropici. Il contesto in cui sono cresciuta, in cui vivo e in cui lavoro, mi fanno pensare in modo diverso. Le mie fonti vanno dal Modernismo al barocco, dalla arte popular alla cultura pop, alla moda, alla gioielleria, alla storia dell’arte propriamente detta, e poi ancora natura, architettura, astrazione… Sono un’artista che rispetta il lavoro fatto a mano. Tutti i tipi diversi di arte che richiedono una lavorazione a mano mi motivano. Penso di aver introdotto qualcosa di nuovo nell’arte astratta internazionale sperimentando con la libertà di mescolare le cose in un ordine diverso. Ho usato strumenti geometrici per organizzare la mia immaginazione e ho creato un sistema di idee improntato al rigore, alla bellezza e al piacere. Un sogno matematico. Il mondo dell’arte mi ha sostenuto, ma ci è voluto tempo prima di essere riconosciuta come artista. Ho toccato argomenti molto scomodi; e poi sono una donna, per di più del Sudamerica. Ma non bisogna avere paura delle sfide e io credo fermamente nel potere dell’arte e nelle capacità umane.

Sono un’artista che rispetta il lavoro fatto a mano. Tutti i tipi diversi di arte che richiedono una lavorazione a mano mi motivano

Per bilanciare i suoi colori non utilizza la teoria del colore o formule speciali, ma si affida all’intuizione. Lei ha affermato: «Non temo il colore». Quale la sua ricerca in questo senso?
Le combinazioni di colori sono l’essenza del mio lavoro. Se non sento che la costruzione del colore è pronta per me il dipinto semplicemente non è finito. Le mie opere, poi, offrono uno spirito vivo, ritmico, un’armonia di movimento che dà una sensazione di vertigine. La combinazione di colori ne è responsabile: dipende da come si scelgono, da come si proporzionano tra di loro. Hai un colore, ne aggiungi un altro: c’è un conflitto. Mi interessa questo conflitto, è un conflitto sano. Non c’è un vincitore e un perdente, c’è un contrasto. In ciò che faccio le combinazioni di colori si sono evolute di pari passo con la mia lingua e a seconda della tecnica usata. Nei dipinti sono passata dalla melanconia degli anni ‘90 a forti contrasti pulsanti negli anni Duemila, con quel vibrante incrocio tra arte ottica e geometrie vive e con quel dialogo poetico tra pop art e storia dell’arte. Nell’ultimo decennio i colori hanno rivisitato passate configurazioni e aggiunto una presenza cosmica, spirituale. La pittura è una tecnica, ma il colore è potenza naturale, potenza infinita, potenza di vita.

Nel 2003 è stata selezionata per rappresentare il Brasile alla 50. Biennale Arte di Venezia. Cosa ha rappresentato per lei quell’esperienza e che significato assume oggi la sua presenza qui a distanza di più di vent’anni da quella partecipazione?
Rappresentare il Brasile è stato un punto di svolta nella mia carriera e direi anche nella mia pratica. C’erano opere di Rosángela Rennó nella prima galleria del Padiglione e le mie erano nella galleria principale. La stanza era dipinta di giallo per i miei otto dipinti. Il curatore era Alfons Hug. È tutto andato meglio di quanto potessi sperare: gente da tutto il mondo, insieme, nello stesso momento. Una cosa intensa e un bel riscontro per il mio lavoro. Mi ha dato una prospettiva nuova. Quest’anno direi che la mia partecipazione è un dono. La prima cosa è festeggiare Adriano Pedrosa come curatore della Biennale. È un momento storico, dal momento che Pedrosa è il primo curatore a non venire dall’Europa o dal Nordamerica. Essere stata scelta da lui mi rende ancora più entusiasta di partecipare. E poi l’aver sviluppato con lui un progetto speciale per il Padiglione delle Arti Applicate, una collaborazione tra La Biennale e il Victoria & Albert Museum, uno dei miei musei preferiti; le arti applicate sono state un’importante fonte di ispirazione e di ricerca per il mio lavoro.

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