The Stranger

Siamo tutti stranieri nel "Global South" di Adriano Pedrosa
di Marisa Santin, Lucio Salvatore
trasparente960

Sud globale, modernismo, diaspora, artisti migranti, indigeni, outsider e queer: sono alcuni dei temi fondanti di questa 60. Biennale Arte, affidata per la prima volta ad un curatore sudamericano. In questa intervista Pedrosa ci parla del percorso che lo ha portato a scegliere come titolo dell’Esposizione un’opera di Caire Fontaine mutuata a sua volta da un collettivo torinese e della sua idea di modernismo.

È forse il titolo più esplicitamente politico che una Biennale abbia mai avuto, ma ritengo che sia anche estremamente poetico. Di questi tempi siamo molto sensibili su tutto e c’è sempre la possibilità che un qualsiasi concetto venga strumentalizzato.

MS_L’opera Foreigners Everywhere del collettivo Claire Fontaine promuove l’idea di estraneità quale fattore positivo e stimolante per la cultura e per la società. Come è nata la vostra collaborazione?
Ho collaborato con Claire Fontaine in diverse occasioni, una delle quali ha interessato la prima esposizione che ha visto coinvolti artisti non brasiliani nell’ambito di Panorama da Arte Brasileira al Museo di Arte Moderna di San Paolo. Panorama è una rassegna dedicata all’arte brasiliana contemporanea, ma per quella particolare edizione del 2009 ho deciso di invitare esclusivamente artisti stranieri, giocando con l’ibrido confine tra ciò che è brasiliano e ciò che è straniero, tra ciò che vorrebbe definire e circoscrivere in sentieri stretti l’identità degli artisti brasiliani e ciò che caratterizza l’approccio espressivo di artisti che, pur non essendo nativi del Paese, creano opere ispirate alla cultura, alla lingua e all’arte brasiliane. Durante la sua permanenza a San Paolo, Claire Fontaine ha realizzato due opere d’arte al neon: una in Old Tupi, una lingua indigena brasiliana estinta che è servita come titolo della mostra, Mamõyguara Opá Mamõ Pupé, l’altra in portoghese, Estrangeiros em todo lugar, entrambe traducibili come Stranieri Ovunque. In seguito, nel 2010, abbiamo presentato un’installazione presso la Collezione Jumex a Città del Messico. La mostra, The Traveling Show, era centrata sul tema del viaggio. In quell’occasione le loro opere al neon sono state installate in varie aree della Fondazione. L’immagine che abbiamo scelto per la conferenza stampa di quest’anno viene proprio da lì e mostra la scritta Extranjeros en todo lugar, di nuovo Stranieri Ovunque, questa volta in spagnolo. Abbiamo inoltre collaborato successivamente in occasione della Biennale di Istanbul, era il 2011, anche se in questo caso Claire Fontaine partecipava con un lavoro diverso da quelli appena ricordati. Ci lega dunque una collaborazione di lunga data oltre ad un’affinità profonda proprio sul tema dello “straniero”. Entrambi crediamo che tra i vari significati che il titolo Foreigners Everywhere racchiude ce ne siano almeno due cruciali: il primo è che ovunque tu vada, ci sono stranieri ovunque, ma allo stesso modo, ovunque ti trovi, sei sempre uno straniero nel profondo. Sono queste le due dimensioni attorno a cui si articola concettualmente questo titolo.

© Claire Fontaine

Preferisco lavorare con titoli che siano più tangibili, precisi, ma comunque stratificati e poetici, che contengano una dimensione politica e una complessità semantica, incorporando eventualmente anche degli elementi linguistici.

MS_Quali elementi specifici hanno fatto sì che la loro riflessione diventasse il manifesto della sua Biennale? 
Nel 2011, appena dopo Istanbul, ho avuto modo di visitare la Biennale di Venezia con una certa calma dopo i concitati giorni delle vernici. Essere lì da solo e visitare la mostra per conto mio mi ha permesso di impegnarmi in una sorta di speculazione, di esercizio curatoriale. Ho riflettuto sulla sfida di immaginare per una mostra internazionale di così largo respiro un titolo che comunicasse efficacemente, mantenendo al tempo stesso una precisione contenutistica. Mi è capitato spesso di pensare che i titoli delle Biennali tendessero ad un’apertura che poteva indurre ad una certa vaghezza. Ogni curatore chiaramente è libero nella sua scelta, ma la maggior parte delle volte il titolo si ferma ad un’idea molto generale. Personalmente preferisco lavorare con titoli che siano più tangibili, precisi, ma comunque stratificati e poetici, che contengano una dimensione politica e una complessità semantica, incorporando eventualmente anche degli elementi linguistici. Così, mentre vagavo per la Biennale riflettendo su quale potesse essere un interessante titolo per un’esposizione di questo livello e profilo, mi è venuto in mente Stranieri Ovunque. In quel momento non potevo naturalmente immaginare che avrei curato davvero una delle future edizioni della Biennale di Venezia; semplicemente trovavo in sé e per sé divertente il gioco e assai affascinante questo ipotetico titolo. Innanzitutto perché avrebbe rappresentato una sorta di omaggio a un’artista italiana, o meglio, in parte italiana, Claire Fontaine, un’artista concettuale “creata” a Parigi da Fulvia Carnevale, italiana, e James Thornhill, irlandese, entrambi ora attivi e residenti a Palermo. Poi perché si riferiva al nome di un gruppo di attivisti politici nella Torino degli anni 2000 attivo nella lotta contro il razzismo e la xenofobia. Nella mia formulazione ipotetica il titolo non si sarebbe però limitato a restituire una mostra meramente incentrata sui temi specifici del razzismo e della xenofobia, aprendosi, in questo ricercando una dimensione poetica di più vasto respiro, più estesamente agli artisti stranieri o migranti, alle loro versatili condizioni esistenziali, ai loro percorsi formativi, alle loro molteplici modalità espressive. Ecco, quindi, come sono arrivato al titolo: lo avevo già in mente da tempo. Quando molti anni più tardi Roberto Cicutto mi ha prospettato la possibilità di curare la Biennale ho iniziato a elaborare e affinare il tema in modo più approfondito e circolare, allineandolo a ciò che in questo momento succede di più rilevante intorno a noi.

LS_Non siamo riusciti a trovare alcun riferimento all’opera originale del collettivo di Torino, nemmeno su Internet. Ha avuto contatti con loro? Esiste ancora il collettivo?
Ne parlavo proprio con Claire Fontaine: sembra che il collettivo non esista più. Non c’è mai stato un vero e proprio contatto con loro, salvo il ritrovamento di volantini ed altri materiali da loro prodotti. Per quanto ne sappiamo non sono più attivi. Tuttavia Fulvia Carnevale ha accennato a qualche tipo di informazione in più che sono riusciti a ricavare di recente. Per rispondere alla sua domanda, però, no, nessuno di loro ci ha contattato. Cercando “stranieri ovunque” su internet tutto ciò che si può trovare riguarda Claire Fontaine. E, ora, la Biennale di Venezia naturalmente!

MS_Date le implicazioni anche politiche del titolo, non ha mai pensato che potesse venire strumentalizzato?
È forse il titolo più esplicitamente politico che una Biennale abbia mai avuto, ma ritengo che sia anche estremamente poetico. Di questi tempi siamo molto sensibili su tutto e c’è sempre la possibilità che un qualsiasi concetto venga strumentalizzato. Fa parte dei rischi del ‘mestiere’, in particolare quando si ha a che fare con progetti di grande impatto come la Biennale di Venezia. Leggendo i giornali in questi giorni sono incappato in articoli che affermano che il titolo è troppo di sinistra, mentre altri sostengono che è troppo conservatore. Da quando è di dominio pubblico il titolo Foreigners Everywhere è stato inteso in vari modi, anche contrastanti. Tuttavia non credo sia nostro compito controllare il modo in cui viene interpretato; non è ciò che vogliamo. Nel caso di argomenti sensibili e quando ci si rivolge a un pubblico molto vasto capita spesso che le cose prendano delle direzioni imprevedibili e inaspettate. Tutte queste diverse voci sono comunque parte integrante di uno stesso processo e contribuiscono ad ampliare l’area della discussione.

MS_Sia Anna Maria Maiolino che Nil Yalter, i due Leoni d’Oro alla Carriera, si definiscono delle artiste autodidatte. Scorrendo la lista dei partecipanti, troviamo molti altri artisti che operano al di fuori dei circuiti tradizionali. Come Foreigners Everywhere si relaziona con l’idea di artista outsider?
Ciò che ho fatto con il concetto di “straniero”/”estraneo” è di allargarlo ai concetti di “queer”, “indigeno” e “outsider” – quei soggetti o artisti che esistono e operano al di fuori della norma e al di là dei circuiti artistici tradizionali o dell’accademia, alcuni dei quali possono essere autodidatti, come nel caso dei due Leoni d’Oro Anna Maria Maiolino e Nil Yalter. Un’idea connessa strettamente alla mia esperienza personale e lavorativa in Brasile e nel resto dell’America Latina, dove vi è una presenza significativa di artistas populares, artisti provenienti, per l’appunto, dal popolo. Nonostante la loro rilevanza, credo che spesso questi artisti siano stati emarginati e trascurati nel contesto della storia dell’arte del XX secolo e del Modernismo. Nonostante la loro rilevanza, credo che spesso questi artisti siano stati emarginati e trascurati nel contesto della storia dell’arte del XX secolo e del Modernismo. Anche se stanno ricevendo sempre più attenzione in anni recenti (al Museo di Arte Moderna di San Paolo, ad esempio, sono spesso presenti in vari programmi, progetti ed esposizioni), ho pensato che fosse importante mostrare le loro opere alla Biennale. Mentre ci sono numerosi artisti extra-europei che si sono trasferiti in città come Londra, Parigi, Roma, New York e Berlino, per quanto riguarda l’Europa non ci sono in realtà molti artisti nati o provenienti dal continente che potrebbero rientrare nella definizione di outsider. Fra questi ho voluto dare risalto a tre grandi artiste: Madge Gill, del Regno Unito, conosciuta all’interno dei circoli dell’Art Brut inglese, e la svizzera Aloïse. Nonostante le numerose mostre a loro dedicate, nessuna di loro aveva partecipato in precedenza alla Biennale. Il terzo nome è Anna Zemánková, dalla Repubblica Ceca, che invece era presente nella Biennale di Massimiliano Gioni. Queste tre donne sono tra le più iconiche artiste outsider in Europa e ho ritenuto che meritassero un posto di rilievo nella Mostra.

In qualità di direttore artistico del Museo d’Arte Moderna di San Paolo, un luogo in cui la presenza italiana è molto forte fin dal 1947, la scelta di includere Lina Bo Bardi nel cuore della mostra assume una valenza particolarmente significativa.

LS_Cosa l’ha indotto a includere Lina Bo Bardi e Anna Maria Maiolino nel quadro concettuale di Stranieri Ovunque, artiste magari non pienamente riconosciute internazionalmente ma che hanno avuto comunque un rilevante riconoscimento nei circuiti dell’arte, assieme ad altri, i più, che hanno vissuto e operato quasi sempre invece ai margini di questi stessi circuiti?
L’idea di essere uno “straniero” comprende diversi livelli di soggettività e di esperienze, che si riflettono fatalmente anche nella varietà degli artisti scelti per questa Biennale. Lina Bo Bardi e Anna Maria Maiolino sono due figure importanti della diaspora italiana in Brasile e ben testimoniano l’ampiezza delle nostre scelte curatoriali. Oltre ad artisti rilevanti nei loro Paesi, nel loro contesto geografico, ma che magari non hanno mai assunto una posizione predominante nel circuito dell’arte internazionale, sia nel Nucleo storico che altrove troviamo anche figure estremamente iconiche dell’arte novecentesca, vedi ad esempio Frida Kahlo, che molto si è spesa per il Modernismo e per il Sud del mondo e che tuttavia non ha mai avuto l’opportunità di esporre in Biennale. Come brasiliano in Italia è per me un privilegio avere l’opportunità di portare per la prima volta alla Biennale artisti come Anna Maria Maiolino, la quale, nello specifico, avrebbe meritato di essere qui già molto prima, questo è poco ma sicuro; la sua presenza quest’anno arricchisce senza dubbio alcuno la Mostra. Per quanto riguarda Lina Bo Bardi, è davvero significativo che sia stata così spesso sottovalutata come artista almeno fino al 2014, anno del centenario della sua nascita, quando le sue opere hanno iniziato ad avere finalmente maggiore visibilità. Al di là di questa tardiva sua valorizzazione, vi è però una ragione assai più specifica per cui ho scelto di includerla. L’arte della diaspora è uno dei quattro punti focali del Nucleo contemporaneo, oltre alle sezioni Queer, Outsider e Indigenous. Essendo solo il secondo curatore d’arte proveniente dal Sud globale nella lunga storia della Biennale (seguendo le orme del compianto Okwui Enwezor nel 2015), e il primo a vivere e lavorare effettivamente nel Sud globale, è essenziale per me considerare qui a Venezia anche la scena artistica italiana. Non ho origini italiane, ma provengo comunque dal Paese che ha accolto la maggior parte della diaspora italiana. In qualità di direttore artistico del Museo d’Arte Moderna di San Paolo, un luogo in cui la presenza italiana è molto forte fin dal 1947, la scelta di includere Lina Bo Bardi nel cuore della mostra assume quindi una valenza particolarmente significativa. Il nostro direttore e fondatore, Pietro Maria Bardi, era un critico d’arte e mercante italiano trasferitosi in Brasile. Solo un anno dopo il suo arrivo fonda il Museo con Assis Chateaubriand, facendo molte acquisizioni italiane. Lina Bo Bardi progetterà l’edificio e molti allestimenti delle mostre, compresi gli iconici cavalletti di vetro, i glass easles. Ho pertanto pensato che, se stiamo parlando di diaspore, se stiamo parlando di stranieri e considerato il Paese da cui provengo, fosse più che opportuno includere nel Nucleo storico una sezione denominata Italiani Ovunque che considerasse viaggi, spostamenti, migrazioni e immersioni nelle storie locali di persone provenienti dal vostro Paese. In questa sezione vi sono quaranta artisti della diaspora italiana le cui opere sono esposte nel bellissimo allestimento che riprende l’originale progetto di Lina Bo Bardi. Nonostante sia nota soprattutto come architetto, designer, produttrice e scenografa, in seguito ho pensato che fosse opportuno dedicarle anche un posto in quanto artista. Lina Bo Bardi ha realizzato anche dei bellissimi disegni che raramente il pubblico ha avuto modo di vedere.

[Il Modernismo è] una lente attraverso la quale possiamo osservare l’arte, particolarmente efficace se ci apprestiamo ad analizzare la crisi della rappresentazione nelle arti visive.

LS_A sentirla parlare di Modernismo ci è venuta in mente la teoria di Bruno Latour secondo cui jamais fomos modernos (“non siamo mai stati moderni”). Sembra che lei sostenga invece l’opposto, suggerendo che saremo sempre moderni in quanto la modernità resta un paradigma fondamentale nella storia dell’arte. Come dobbiamo interpretare la sua volontà di ridare importanza ad artisti modernisti dimenticati o trascurati?
Come affermo in un’intervista pubblicata nel catalogo della Biennale, il Modernismo funge da strumento concettuale per esaminare alcune produzioni artistiche. Nello stesso testo faccio riferimento all’“antropofagia”, un contributo, un approccio distintamente brasiliano innervato da un’idea di appropriazione e di cannibalizzazione di riferimenti culturali altri. È stato, questo, il focus principale della Biennale di San Paolo del 1998, di cui ho fatto parte come curatore aggiunto. Credo sia un concetto molto importante e lo considero ancora un mezzo rilevante attraverso il quale analizzare le produzioni artistiche nel Sud globale. Tuttavia, dopo aver studiato il Modernismo molto approfonditamente e per lungo tempo, non sono più sicuro che esso rappresenti lo strumento più efficace in assoluto per affrontare le molteplicità espressive del fare arte. È uno strumento fra i tanti, non l’unico: una lente attraverso la quale possiamo osservare l’arte, particolarmente efficace se ci apprestiamo ad analizzare la crisi della rappresentazione nelle arti visive. Molti artisti, in particolare provenienti dal Sud globale, si sono confrontati con il Modernismo; hanno visitato Parigi, Roma, Berlino, Londra e New York cercando un’esposizione alle sue influenze artistiche. È interessante notare come alcuni di loro, come ad esempio la brasiliana Tarsila do Amaral e l’indiana Amrita Sher-Gil, si siano trasferiti a Parigi e proprio lì in seguito abbiano riscoperto le proprie radici, i propri riferimenti nativi e indigeni – immagini, personaggi, segni e narrazioni che poi hanno trasferito nella loro arte. Questo è un aspetto che richiama propriamente il concetto di “antropofagia”. Nel corso del XX secolo numerosi artisti si sono appropriati dei linguaggi modernisti per digerirli e trasformarli in qualcosa di proprio. Il Modernismo mantiene un carattere chiaramente europeo dal momento che è nato e si è sviluppato prevalentemente nel Vecchio Continente, ma dal mio punto di vista il modo in cui è stato cannibalizzato e fatto proprio in molte parti del mondo lo rende ancora più interessante. Le sue molteplici varianti osservate in regioni come l’Africa, l’America Latina, il Medio Oriente e il Sud-est asiatico risultano estremamente interessanti e potenti e mi sembrano, oggi, ancora più affascinanti e dinamiche. Sono delle rielaborazioni contemporanee più vibranti e vitali del Modernismo delle origini, così come era nato in Europa. Fra gli storici dell’arte ci sono alcuni puristi che ritengono che questi contributi non siano essenziali per la nostra comprensione del Modernismo o, più in generale, dell’arte del XX secolo. Sono al contrario convinto che di questa varietà e pluralità ci sia un grande bisogno per arrivare ad una comprensione più diversificata e arricchente della produzione artistica globale. Ed è precisamente questo rinnovato processo di analisi che ho cercato di stimolare attraverso la sezione Nucleo storico. Naturalmente la mia proposta non ha pretesa alcuna di essere definitiva, enciclopedica, omnicomprensiva. Un’impresa del genere, quando anche fosse possibile, richiederebbe almeno altri cinque anni di approfondito lavoro! La Biennale offre un’opportunità unica per elaborare un ampio progetto in un lasso di tempo relativamente breve. Foreigners Everywhere, tuttavia, non è il frutto di un solo anno di sforzi, ma di oltre un decennio di viaggi e di ricerche svolti in diverse parti del mondo. Si fonda, inoltre, anche sui preziosi consigli e sulle altrettanto incisive raccomandazioni fornitimi da curatori, studiosi, critici di diversa estrazione e provenienza, il cui contributo si è rivelato assolutamente fondamentale per la costruzione identitaria di questo entusiasmante progetto espositivo.

 

Immagine in evidenza: Photo Andrea Avezzù – Courtesy of La Biennale di Venezia

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