L’artista olandese Micky Hoogendijk in mostra a Venezia, ai Giardini della Marinaressa nell’ambito di Personal Structures 2024 – Beyond Boundariers, racconta la sua nuova opera, The Ones I – XXL version, è una scultura monumentale in bronzo alta quattro metri che testimonia l’armonia tra vulnerabilità e forza, individualità e gruppo.
Micky Hoogendijk è cresciuta ad Amsterdam tra artisti, galleristi – suo nonno era Dirk Albert Hoogendijk, importante mercante d’arte –, teatranti, attori e ballerini. Entra quindi subito a far parte della scena artistica aprendosi a diverse esperienze creative, una costante ricerca che si andrà via via definendo tra cinema e arte fino al 2012, quando la macchina fotografica che sua madre Gine le regala poco prima della sua morte, nel 2009, si rivelerà un dono che le cambierà la vita. Micky Hoogendijk impara a fotografare da sola mentre vive a San Francisco, a Los Angeles e ad Austin, concentrandosi sul ritratto casuale e street. Nel 2015 la sua prima mostra personale, The Other Side of Fear Is Freedom, viene ospitata alla Eduard Planting Gallery di Amsterdam. La sua prima retrospettiva museale, Through the Eyes of Others I See Me, si tiene al Museo Jan van der Togt di Amstelveen nel 2017. Nel 2018 Hoogendijk torna nei Paesi Bassi, prima a Hoogeloon e infine ad Amsterdam, dove attualmente vive e lavora presso Huize Zonnewijzer, un edificio storico che ospita anche la galleria The Ones at Home, un progetto di collaborazione tra l’artista e il designer di giardini Erwin Stam. Qui Micky Hoogendijk crea le sue sculture in bronzo, una delle quali ora è in mostra a Venezia, ai Giardini della Marinaressa nella mostra Personal Structures 2024 – Beyond Boundariers, organizzata da ECC in occasione di Biennale Arte 2024. La sua nuova opera, The Ones I – XXL version, è una scultura monumentale in bronzo alta quattro metri che testimonia l’armonia tra vulnerabilità e forza, individualità e gruppo. Figure stilizzate che al contempo esaltano la forza individuale e sottolineano la necessaria solidità che si sviluppa nella dinamica invisibile dell’insieme: una sorta di tributo agli esseri umani in cerca di connessione. L’artista li ha chiamati “Gli Uno”, perché sono figure umane connesse che si sostengono a vicenda per diventare più forti.
In una Biennale che mostra la diversità dell’individuo come valore assoluto, lei affronta lo stesso tema in modo poetico con la scultura The Ones. Qual è il significato dell’unione e come si collega al tema Stranieri ovunque?
È curioso, ho cominciato a lavorare a quest’opera prima ancora che annunciassero il tema della Biennale. Come esseri umani singoli abbiamo qualcosa che ci accomuna, in ciò che pensiamo, nel modo in cui vediamo e percepiamo le cose che accadono nel mondo. Come artista, questo è quanto voglio esprimere. La mia esperienza nasce da una situazione familiare complicata: ho perso due bambini. Durante la pandemia sono rimasta sola nel mio studio in mezzo alla natura. In tv i politici non facevano che ripetere quanta solidarietà ci volesse e come bisognasse essere forti e uniti per sopravvivere in un periodo così insolitamente duro. Io me ne stavo lì da sola a pensare. Per andare avanti mi sono letteralmente buttata nell’arte. Non ho fatto bozzetti, schizzi, progetti; ho cominciato a lavorare sulle figure, che in qualche modo infine sono apparse. Tutti noi proveniamo da una singola fonte, da una madre e da un padre, e tutti abbiamo una qualche famiglia nelle nostre vite. Ciò che la scultura The Ones vuole mostrare non è una specifica, singola famiglia, ma l’insieme di tutti noi che condividiamo il presente di questo mondo. Questa è la mia visione, la mia storia personale. Forse è la storia di quanto mi mancava, forse è la storia di cosa le persone vedono in sé stesse. Io cerco di spingermi sull’universale per poter creare una connessione con i miei simili.
Le figure sono a loro volta collegate…
Sì, questa è la parte più importante. Il titolo dell’opera è The Ones, perché tutti noi siamo uno, vogliamo sentirci individui e indipendenti. Tuttavia la verità è che non possiamo andare avanti senza gli altri. Attraverso la mia arte voglio celebrare questa idea.
La scultura appare anche come un insieme di radici di uno stesso albero che crescono intrecciandosi.
Nel mio discorso inaugurale mi sono fatta accompagnare da cinquanta amici e collezionisti da tutto il mondo. Sono le mie persone, le “persone radice”, come le chiamo io, le più importanti della mia vita. E sotto di loro che c’è? Cosa consolida questo rapporto? Cemento, fondazioni, bulloni. C’è grande resistenza, ma anche vulnerabilità. Siamo tutti vulnerabili.
Quali le peculiarità del suo percorso creativo?
Prima di tutto sono un’attrice. Vengo da una famiglia di artisti: tutti nella mia famiglia sono artisti o collezionisti. Respiriamo arte da sempre. Sono anche stata sposata con un artista famoso. Pensavo che avrei fatto l’attrice, che la mia carriera artistica fosse quella, tuttavia mia madre, poco prima di morire nel 2009, mi donò una macchina fotografica e questo ha cambiato tutto. Mi sono trasferita negli Stati Uniti, sentivo che lei era con me, dentro la macchina fotografica. Sono andata in giro per le strade e ho fotografato di tutto. Dopo due anni, le mie fotografie già avevano molto successo, così ho continuato a viaggiare e a fotografare per dieci anni. Non è stato facile, ma è stato bellissimo! Tuttavia volevo continuare a progredire, ad articolare sempre di più il mio percorso artistico, portando la mia ricerca oltre l’immagine, oltre la bidimensionalità. In quel mentre è arrivata la pandemia e ho avuto così il tempo di pensare, di provare, di sperimentare nuove forme espressive. Il mio percorso è stato questo.
Quali sono le sue fonti di ispirazione?
Sono cresciuta tra capolavori del XVII secolo grazie al lavoro di mio nonno, mercante d’arte. Casa nostra era colma di opere. Sentivo la storia dentro di me tanto era onnipresente. Ciononostante l’arte che realizzo viene diretta dal cuore, è come un bambino che disegna figure nel cielo… È amore.
Tutti noi siamo uno, vogliamo sentirci individui e indipendenti. Tuttavia la verità è che non possiamo andare avanti senza gli altri
Su quali altri progetti sta lavorando?
Non riesco a resistere, voglio fare sculture sempre più grandi e più alte. Al momento sto lavorando su questo progetto di due sculture alte dieci metri, due figure che sembrano camminare verso di te. Tutto comincia come in un sogno… Ci vogliono mesi per realizzare un progetto così grande, c’è tanto da imparare. Ho lavorato con una squadra di artigiani che mi ha aiutato moltissimo; grazie a loro i miei sogni possono ora diventare realtà. Ho cinquantatré anni, quindi il problema, ora, è avere tempo! Ottimizzarlo. Adoro quanto faccio, le mie opere sono le mie figlie: viaggeranno, impareranno lingue diverse e io viaggerò per il mondo con loro.
Quali sono i soggetti che predilige nelle sue fotografie?
Persone, persone e ancora persone. Io adoro le persone, in particolare quelle che si mostrano in difficoltà senza nascondersi. Il mio libro fotografico Vulnerability and Strength spiega questa mia disposizione mentale: la vulnerabilità è la qualità più forte e potente che abbiamo quando la mostriamo. Tutti fingiamo di essere qualcosa che non siamo. È normale, lo facciamo per sopravvivere, ma nel momento in cui mostriamo davvero ciò che siamo, quello è il momento in cui mi innamoro.
La sua prima presenza ufficiale in una mostra a Venezia, qui ai Giardini della Marinaressa, è parte del progetto espositivo collettivo Personal Structures promosso dall’European Cultural Centre. Che significato assume questa partecipazione, questa esperienza nel suo percorso artistico?
Sono molto onorata di essere qui, davvero. Onorata per il luogo in cui posso esporre le mie opere, in questo bel giardino affacciato sull’acqua in cui tutti possono liberamente entrare a vedere la mostra, toccarla, interagirci. Quando crei arte, questa scorre da te in modo naturale, ma dopo che succede? Adoro vedere come le persone ritrovano le proprie storie nelle mie opere, mi sento come se avessi fatto loro un regalo. C’è così tanto altro da scoprire: interpretazioni, storie…, ognuno ha la sua. Io davvero mi sono sforzata di entrare in questo progetto, in questo percorso collettivo in modo gentile, come l’acqua che scorre fluida nell’alveo di un fiume. Ho pubblicato un video di dieci minuti sul mio sito per spiegare questa mia esperienza: il video è la forma ideale per questo e funziona meglio delle semplici parole.