Uno sguardo dal cielo

Emilia Kabakov racconta l'arte del marito Ilya, in mostra alla Querini Stampalia
di Mariachiara Marzari
trasparente960

Chiara Bertola e Fondazione Querini Stampalia rendono omaggio a Ilya Kabakov a un anno dalla sua scomparsa, maestro dell’arte concettuale, geniale sperimentatore della poesia e delle potenzialità espressive dei materiali nello spazio espositivo, celebrato come il più importante artista nato in URSS, in seguito naturalizzato statunitense, del XX secolo.

Chiara Bertola e Fondazione Querini Stampalia rendono omaggio a Ilya Kabakov a un anno dalla sua scomparsa, maestro dell’arte concettuale, geniale sperimentatore della poesia e delle potenzialità espressive dei materiali nello spazio espositivo, celebrato come il più importante artista nato in URSS, in seguito naturalizzato statunitense, del XX secolo. E lo fanno con l’aiuto di Emilia Kabakov, l’altra metà del mondo d’arte e di vita di Ilya, unione indissolubile che ha caratterizzato l’intero loro percorso artistico. «In tutto questo tempo – raccontano Ilya ed Emilia Kabakov – abbiamo lavorato con le idee, intorno all’immaginazione e all’utopia. Crediamo davvero che l’arte, che ha un posto importante nella nostra cultura, possa cambiare il modo in cui pensiamo, sogniamo, agiamo e riflettiamo. Può trasformare il nostro modo di vivere». La mostra Between Heaven and Earth. A tribute to Ilya Kabakov offre un viaggio poetico tra alcune installazioni storiche dei due artisti in dialogo con gli ambienti antichi e le collezioni d’arte del Museo della Fondazione Querini Stampalia, diventando opere site-specific che svelano agli spettatori mondi inaspettati. Da traghettatori, Ilya e Emilia svelano fratture, inventano connessioni, mostrano qualcosa che rischiava di andare perduto o di non essere più visto. La mostra chiude il 14 luglio, ma la forza dell’arte di Ilya e delle parole di Emilia rimangono indelebili, sospese in un tempo dove la bellezza rende immortali. Grazie Emilia per averci concesso il privilegio di questa bellissima chiacchierata.

Ilya e Emilia Kabakov, The fallen chandelier, 1997 – Photo Michele Sereni

Un omaggio che vuole essere una rinnovata scoperta di un artista fondamentale per l’arte contemporanea e di un sodalizio creativo – Ilya + Emilia – senza eguali. «Il nostro lavoro è la nostra vita» affermate. Quale significato assume per lei la memoria e come questo progetto espositivo rende universale il concetto di sintesi artistica?
Io e Ilya avevamo un rapporto unico, eravamo compagni in tutto: arte, scrittura, decisioni da prendere ogni giorno… Quando Ilya arrivò ad Ovest affermò che il mondo dell’arte occidentale era “un paradiso” e fu per questo pesantemente criticato dai giornalisti. Non avevano considerato un dettaglio importante della sua vita: veniva da una società totalitaria in cui il cittadino comune era trattato come se fosse nulla, in cui le persone non avevano alcun diritto. Lì ogni persona era proprietà dello stato e non c’era diritto individuale di pensiero, scrittura, parola. Non ebbe mai la possibilità di esporre, non poteva mostrare le opere che creava nel suo studio se non a pochi amici fidati. Naturalmente, quando gli venne data questa incredibile opportunità di creare e mostrare arte e di dire quello che voleva per lui è stato come entrare in un sogno. All’epoca io vivevo già in Occidente da quattordici anni e sapevo che molti artisti non avevano qui vita facile, ma la differenza stava tutta nel fatto che in questa parte di mondo era concessa loro la libertà di fare, dipingere e dire ciò che liberamente desideravano. Quando si è nati nel mondo libero, ci vorrebbe un’esperienza personale di vita sotto un regime totalitario per riuscire a comprendere lo stato d’animo di una persona che improvvisamente riceve qualcosa che gli è stato negato per tutta la vita. La nostra vita è stata magica per trentacinque anni ed era quanto desideravamo entrambi. Non era questione di soldi, bei vestiti, auto o case, ma il semplice ed enorme fatto di poter sognare e poter trasformare i sogni in realtà. Siamo stati fortunati nel realizzare molti dei nostri progetti, soprattutto perché l’abbiamo fatto insieme. D’un tratto Ilya se n’è andato. Mi ha fatto paura la sua scomparsa improvvisa. È stato per me difficile da credere e impossibile da accettare. Ho provato a tenerlo con me attraverso queste mostre, accompagnando il passato dentro il presente e la sua anima con me per mezzo della sua arte.

In dialogo con il Museo della Fondazione Querini Stampalia la mostra Between Heaven and Earth. A tribute to Ilya Kabakov traccia le linee fondamentali della vostra arte. Perché queste installazioni rendono emblematico il vostro DNA comune di artista?
È molto difficile creare un dialogo tra i vecchi maestri e l’arte moderna. Non puoi semplicemente “intervenire”. Questo spazio appartiene a loro, è il loro territorio, la loro arte vive qui. Quello che possiamo fare è creare un interesse specifico, un rapporto di curiosità in cui dimostrare rispetto per lo spazio stesso, per la sua atmosfera, la sua anima. E funziona, o almeno spero abbia funzionato con questa mostra. Io e Chiara Bertola abbiamo disposto le opere in modo che non stridessero con l’ambiente, di modo che lo spettatore avesse l’opportunità di apprezzare l’armonia, la pacifica coesistenza tra passato e presente. Dopotutto il DNA dell’arte moderna trova le sue radici nel passato, non è nato dal nulla cosmico. Si è sviluppato, è cresciuto, è maturato in un ambiente culturale fantastico creato da artisti, architetti, artigiani e mecenati del passato.

Ilya e Emilia Kabakov, Concert for a fly, 1986 – Photo Michele Sereni

Molte installazioni rendono evidente un filo diretto con il divino, con l’Altro. Qual è il suo rapporto con la religione, il sacro, la spiritualità?
È una domanda difficile. Quante persone, oggi, dichiarano di credere in Dio e negli angeli? Non molte. Siamo troppo pratici, troppo orientati sulle situazioni quotidiane, problemi, piaceri… Io e Ilya, però, crediamo fortemente nell’importanza della cultura. In un certo modo la cultura e i musei hanno assunto su di sé il ruolo che la chiesa ha avuto per secoli: elevare le persone ad un piano superiore di esistenza e dar loro la possibilità di capire che ci sono cose e obiettivi più importanti nella nostra vita terrena. La religione ci dà delle regole morali per vivere e sopravvivere come società. Alimenta le nostre anime. L’arte e la cultura, la musica e la poesia ci mostrano il bello della vita e ci permettono di esprimere i nostri sentimenti, di usare la creatività, di usare i sei sensi. Questo è quanto ci rende e ci mantiene umani. Io credo anche nelle fate… e nelle loro fiabe.

La Complessità contemporanea è dominata da parametri che hanno modificato e condizionato il concetto di tempo. Concetto che emerge in modo evidente in molte installazioni in mostra: tempo vissuto, tempo percepito, tempo rappresentato. Quale misura del tempo assume ora la vostra arte? Quale per lei il concetto di immortalità nell’arte?
Ottima domanda a cui penso non sia affatto facile rispondere. Cos’è davvero l’immortalità? Guardiamo al passato: l’arte, i libri e la musica che hanno superato la prova del tempo sono immortali, così come lo sono, ovviamente, i loro autori. Penso che il criterio principale sia stato e sarà sempre questo: la complessità può sembrare ingannevolmente semplice, ma quando lasciamo il museo o la sala concerto o il teatro ci rendiamo conto che abbiamo mille domande cui rispondere. L’arte rimane con te, ti altera in senso buono, ti stimola a pensare. E questo io definirei immortalità. Dio ha creato il mondo, la prima installazione totale. Poi gli uomini hanno creato le chiese, un’altra installazione totale.La gente viene qui per riflettere sul bene e sul male, sulle proprie vite, per chiedere aiuto, chiedere perdono, chiedere un miracolo. Penso che ci siano posti speciali sulla Terra in cui un qualche canale può collegarci a un potere superiore e gli architetti che hanno scelto questi posti per costruire chiese e monasteri di qualunque religione in qualche modo li conoscevano o li riconoscevano. Installazione totale significa elevare un luogo dell’arte al massimo livello di coscienza umana. Ma questo è un discorso molto più grande…

Ilya e Emilia Kabakov, I will return on April 12…, 1990 – Photo Michele Sereni

Che rapporto sussiste tra Ilya/Emilia e Venezia? Quanto è stata importante questa città per le vostre creazioni?
Venezia è una città magica a tutti i livelli. C’è qualcosa qui che stimola la creatività sempre; la tua connessione col passato e il presente è più fragile, ma è forse uno dei pochi luoghi della Terra in cui l’aria è piena di mistero, un posto dove camminare la notte e aspettarsi di incrociare qualche figura del passato. Il passato qui non è morto, vive ancora. Pensiamo forse che così tanti artisti, musicisti, poeti e scrittori siano venuti per puro caso a Venezia per vivere e infine morirci? Tornando alla sua domanda sull’immortalità, è forse Venezia il posto in cui le anime continuano a vivere e continuano a creare? È il luogo in cui le persone di talento sentono questo richiamo di eternità? Io e Ilya abbiamo vissuto e lavorato a Venezia per mesi sui nostri progetti alla Querini Stampalia e alla Biennale, non di rado quando c’erano pochissimi turisti in città. Io la magia di questa città l’ho vista. Alcuni dei nostri più bei progetti, come Where Is Our Place? (domanda eterna per ciascuno di noi…), li abbiamo realizzati qui, in questa magica città.

Ilya and Emilia Kabakov Art Foundation nel custodire il vostro lavoro si pone come promotore e finanziatore di artisti, eventi educativi e mostre per la comprensione e lo scambio culturali. Quale secondo lei il ruolo e la forza dell’arte per un presente più consapevole e per un futuro più alto e vivibile della nostra società?
Un’altra domanda cui è davvero difficile rispondere. Penso che la cultura sia ciò che ci rende diversi, ciò che ci rende umani, che ci dà il diritto di chiamarci umani. Se distruggiamo il nostro passato distruggiamo noi stessi. Penso che qualsiasi distruzione, anche una apparentemente inoffensiva dissacrazione di una qualche opera, che siano sculture, quadri, oggetti storici, debba essere punita per legge come distruzione di patrimonio culturale, che è per definizione una proprietà comune. Non ci sono “giuste cause” che rendano legittimi questi atti. Il dialogo culturale può, in molti casi, aiutare a mantenere intatti i rapporti umani, consolidandoli. L’arte cambia il mondo? Non credo, ma certamente può cambiare le persone, i loro atteggiamenti. E queste stesse persone possono a loro volta cambiare il mondo e creare un futuro migliore per la prossima generazione di artisti.

Immagine in evidenza: Ilya e Emilia Kabakov © Luis Sevillano

VeNewsletter

Ogni settimana

il meglio della programmazione culturale
di Venezia