Venezia è viva?

Incontro con Salvatore Settis
di Fabio Marzari
trasparente960

L’autorevolezza, la competenza e il profondo amore per Venezia del prof. Salvatore Settis non potevano che indurci a chiedergli la disponibilità per un’intervista da pubblicarsi in questo numero del magazine in gran parte dedicato alla Biennale Arte e alle moltissime mostre presenti in città.

Salvatore Settis, già ordinario di Storia dell’Arte e dell’Archeologia Classica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, nel 2003 è stato presidente delle due Giurie di Biennale Arte numero 50 diretta da Francesco Bonami. A proposito dell’arte contemporanea, in un’intervista del 2023 ebbe modo di osservare quanto segue: «Il sistema dell’arte contemporanea potrebbe porsi in modalità più misurata, non tanto rispetto a una certa retorica dell’ispirazione artistica, quanto a una diversa e più accorta funzione comunicativa e sociale, anche nei riguardi della memoria che necessita più che mai di essere tramandata».
Salvatore Settis ha diretto a Los Angeles il Getty Research Institute e la Scuola Normale Superiore di Pisa fino al 2010. E’ stato presidente del Consiglio dei Beni Culturali e membro fondatore di European Research Council, Warburg Professor ad Amburgo, ha tenuto a Oxford le Isaiah Berlin Lectures, a Washington le Mellon Lectures, a Madrid la Cátedra del Prado e a Mendrisio la Cattedra Borromini. Dal 2010 presiede il Consiglio Scientifico del Louvre. Accademico dei Lincei, è altresì membro anche delle Accademie di Francia, di Berlino, di Baviera e del Belgio, dell’American Philosophical Society di Philadelphia e dell’American Academy of Arts and Sciences. Tra le sue innumerevoli pubblicazioni a carattere scientifico e divulgativo, di cui molte di rilevante importanza anche sul piano della cittadinanza attiva, va segnalato Registro delle assenze. Profili e paesaggi, uscito lo scorso mese di febbraio per i tipi di Salani, volume attraverso il quale l’Autore ci offre un ‘registro’ di alcuni degli incontri più significativi della sua vita: studiosi, artisti, scrittori, maestri e amici, celebrità e figure appartate, alcune ormai dimenticate, che hanno saputo lasciare il segno nel loro campo e contribuito al progresso della società. Di ognuno, con vera e propria arte da ritrattista, forma un’immagine nitida e rigorosa, piena di ammirazione e di rispetto, fissandone lo sguardo intellettuale ed etico, e attraverso questo la perdurante forza ispiratrice. Settis compone un affresco di un’Italia migliore, che non separa gli specialismi del sapere e le raffinatezze della ricerca artistica dall’intento di rimediare ai grandi mali del presente.

Alla vigilia di Biennale Arte, con Venezia brulicante di iniziative culturali, vorrei iniziare con una domanda secca e diretta: lo stato dell’arte, ovvero come giudica in base alla sua esperienza e competenza la Venezia del contemporaneo? Un luogo diffuso di esposizioni varie o anche una fucina vitale di idee?
La Biennale è stata ed è forse il maggior tentativo di arginare o rallentare il lento, inesorabile decadere della centralità e vitalità di questa città incomparabile. Non meno importanti sono altre istituzioni culturali, a cominciare dalle università; ma a fine Ottocento la creazione della Biennale fu un progetto visionario e lungimirante, che infatti ha fatto scuola (di Biennali ora è pieno il mondo, dalla Turchia al Brasile). Ed è soprattutto con la Biennale che il contemporaneo ha fatto irruzione a Venezia, e Venezia è diventata una delle scene privilegiate del contemporaneo. Le recenti direzioni Baratta e Cicutto hanno rappresentato al meglio questa consapevolezza, traducendola in rinnovato assetto istituzionale e forza progettuale. Questo straordinario successo stagionale ha innescato altre circostanze e iniziative (cito solo la Fondazione Cini) che sono luoghi di elaborazione di idee nuove. Ed è in questa direzione, andando oltre la stagionalità della Biennale, che bisogna cercare una nuova progettualità che venga in soccorso ai problemi drammatici della Venezia di oggi, dicasi qui in particolare il calo della popolazione specialmente giovanile e la tendenziale riduzione della città a festoso e festivo theme park turistico, facendone, come è stata e come dovrebbe e potrebbe essere, una fucina di nuove creatività, una calamita per artisti ma anche per gli operatori delle nuove tecnologie e per ogni ricerca avanzata che sia per sua natura compatibile con il delicato ecosistema della Laguna, da cui possa anzi trarne ispirazione e alimento.

Ai veneziani, ma anche ai cittadini del mondo che hanno a cuore Venezia, spetta una grande responsabilità: mostrare e dimostrare che la diversità e la bellezza non sono una pesante eredità del passato, ma uno straordinario dono per vivere il presente e una dote per costruire e garantire il futuro…

Nel 2014 col suo libro Se Venezia muore lei ha descritto i tre modi in cui può morire una città: quando la distrugge un nemico spietato, quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, o quando perde la memoria di sé. In dieci anni la situazione in città è peggiorata. Venezia, meta ambita da un numero sempre crescente di persone che legittimamente coronano un loro desiderio, si è ulteriormente svuotata di residenti; il cognome più diffuso in città è Locazione Turistica, come si legge nei campanelli di ogni edificio. Turismo a parte, secondo lei il processo di perdita della memoria tra i suoi sparuti abitanti è irreversibile, oppure la passione, l’amore e la vitalità della comunità piccola, ma attiva, di abitanti stranieri potrà favorire un cambio di rotta e creare una positiva e proficua mescolanza?
Tutto dipende in ultima analisi dalla demografia della città: se non si arresterà il dissanguamento che la svuota e la offende, non resteranno che i turisti. Per arrestare questa terribile emorragia occorre una politica delle abitazioni: favorire la residenzialità di studenti e lavoratori, limitare drasticamente le seconde case, i B&B, le affittanze turistiche insomma; mettere a frutto la bellezza della città per attirarvi (anche mediante vantaggi fiscali) attività produttive e creative. Farne un laboratorio di idee, non il retrobottega delle agenzie turistiche. C’è chi risiede a Venezia ed è veneziano da generazioni e c’è chi si è fatto veneziano per scelta, anche se siciliano o inglese. Ma c’è soprattutto chi lo diverrebbe volentieri, portando in città tesori di conoscenza, di esperienze, di progetti, ma non può farlo perché la città lo respinge: preferisce un turbine di turisti di uno, due, tre giorni, che vanno e vengono piuttosto che offrirsi a chi invece abbia desiderio di impiantarvi attività creative anche se non dispone (all’inizio) di grossi capitali. Nulla facendo di tutto ciò, Venezia è infine diventata il luogo del grande lusso di chi compra un palazzo in Canal Grande per starci una settimana l’anno, o del mordi-e-fuggi di chi ci viene per farsi fotografare in piazza San Marco e via. Senza una politica di controllo e guida del mercato immobiliare non c’è speranza.

Perché in questi decenni in Italia non si è riusciti a creare un’alternativa allo svuotamento dei centri storici? La responsabilità è da ascriversi esclusivamente all’inefficienza della politica o anche alla pigrizia mentale di molti cittadini che hanno per l’appunto perso la memoria del vivere pienamente la città a favore di vantaggi in denaro da pura rendita di posizione?
All’una e all’altra cosa, in dimensioni però diverse di città in città. A Venezia questo fenomeno è particolarmente drammatico a causa della peculiare conformazione del luogo: la città storica è come una perla nel cuore di quella che è la sua preziosissima ostrica, la Laguna. Ma ormai chi resiste nella Venezia storica è una minoranza insignificante rispetto a coloro che abitano a Mestre o a Marghera: perciò nelle elezioni municipali o nei referendum le ragioni della città storica vengono sistematicamente calpestate da chi guarda alla città da un angolo visuale completamente diverso. Forse la cosa più urgente da fare è separare la Venezia lagunare da quella di terraferma: farne due Comuni autonomi, dato che le due aree sono ormai profondamente diversificate con un passato, interessi presenti e prospettive future non solo altre, ma opposte.

Il nostro Paese ha mantenuto miracolosamente vivi ancora moltissimi angoli di bellezza incontaminata e non è mai troppo scontato ricordare in primis a noi stessi che senza bellezza non c’è vita. Tuttavia sono in numero maggiore i luoghi degradati, a partire dall’ambiente climatico, con le polveri sottili che devastano le nostre vite e si depositano nelle preziose testimonianze delle generazioni che ci hanno preceduto. Perché in Italia a parole tutti ci vantiamo della bellezza di molti borghi e città e al contempo, in concreto, si fa davvero troppo poco per salvaguardarli?
L’oblio della storia e della bellezza non è una peculiarità italiana, anche se noi tendiamo a credere che sia così. Ma la decadenza della scuola, la marginalizzazione degli studi di storia e di storia dell’arte, un’insistenza stracciona sui rapidi guadagni contrastano in modo particolarmente vivo con il carico di memorie e di bellezza che molte nostre città (ma anche borghi e campagne) ancora tramandano, con una capillarità che ha pochi paralleli al mondo. Negli ultimi cinquant’anni il “capitale morale” della nostra storia e della nostra bellezza è sempre meno quel che dovrebbe essere, un serbatoio di energie per progettare un futuro migliore, e sempre più, invece, un gruzzolo di risparmi da dilapidare per coltivare impunemente i propri desideri o i propri vizi.

Il miglior modello che conosco è l’Italia di ieri. Quella che stiamo dimenticando.

Concretamente quale nazione, al netto dell’oggettiva difficoltà della salvaguardia e della valorizzazione di un patrimonio culturale quantitativamente e qualitativamente ineguagliabile quale è il nostro, può rappresentare un modello virtuoso a riguardo cui potersi riferire ed ispirare?
Il miglior modello che conosco è l’Italia di ieri. Quella che stiamo dimenticando.

Come ha vissuto, in rapporto alla sua formazione accademica e alla sua professione nel mondo dell’Arte, l’esperienza di curatore per Fondazione Prada in cui non vige alcun timore di mescolare il classico con il contemporaneo?
Come un’esperienza di libertà e di apertura. Nel rapporto con Miuccia Prada, col suo staff che ha un livello di preparazione e di impegno assolutamente fuori del comune, ma anche nel fitto dialogo con Rem Koolhaas, con cui abbiamo già fatto insieme tre mostre (due a Milano e una a Venezia) e non è detto che restino le sole. Nei lunghi momenti progettuali (anche con i miei collaboratori, specialmente Anna Anguissola e Davide Gasparotto) cerchiamo sempre di non perdere di vista l’obiettivo e di perseguirlo secondo strategie di ricerca flessibili e adeguate all’oggetto. Ma quale è il nostro obiettivo? Sono, quelle che ho curato io, mostre di arte antica. Ma per “oggetto” abbiamo sempre inteso non solo le statue greche e romane o simili, ma soprattutto il pubblico dei visitatori a cui intendiamo parlare: suggerendo, nello spirito di oggi e di domani, nessi, accostamenti, interrogazioni che suscitino emozione e curiosità.

Un’ultimissima domanda: quale il luogo del cuore del professor Settis?
Naturalmente Venezia.

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