Nel Bianco

Un reportage di Nico Zaramella, fotografo naturalista wild
di Redazione VeNews

Come tradizione vuole, il nostro regalo sotto l’albero è un racconto di Natale molto speciale, con le parole e le bellissime immagini di Nico Zaramella, fotografo naturalista “wild” che ci invita a riflettere portandoci nel suo mondo cristallino e bianco, popolato da uno straordinario e silenzioso esercito di bianchi e fantasmatici esseri…

La fine dell’anno e l’inizio di quello nuovo rappresentano il momento del rendiconto e delle congetture. Il rendiconto sembra una faccenda semplice, essendo una visione realistica di una condizione passata e quindi cristallizzata, non suscettibile di interpretazione. In altri termini si fonda sull’analisi dei dati di fatto e quindi non è opinabile, a meno che i sistemi di misurazione o la catena di trasferimento (di informazione) e comunicazione non siano viziati. I conti si fanno sulla verità; si potrà poi discutere sulle cause ingeneranti i fatti accaduti, ma non sui fatti stessi. Diversamente ho usato il termine “congetture” e non “previsioni” per tutte le poste future, quindi non ancora reali, fatti ancora da registrare e quindi da verificare, sconosciuti, indipendenti dalla semplice volontà pragmatica o astratta, se non totalmente indipendenti dall’intervento umano.
Il nostro oggi è un rendiconto gravoso, oneroso, fatto di pandemia, guerra, crisi economica e climatica: in altri termini i quattro cavalieri dell’apocalisse (novellati, ma comunque emuli biblici) che cavalcano ancor oggi insieme in una direzione che nessuno può prevedere ma che potevano essere previsti senza improbabili congetture e dannosi complottismi. Perché, in effetti, se in relazione al futuro si possono formulare solo mere congetture, è altrettanto vero che la corretta lettura del presente e del passato ci consente di ritenere gli eventi che accadranno probabili o improbabili e quindi, talora, prevedibili.

ph. Nico Zaramella © worldwide reserved

Ebbene, conoscevamo benissimo, e per nome, i quattro cavalieri dell’apocalisse; per piena consapevolezza, per intuizione, perché “se ne parlava”: si parlava di storia ed eziologia di ciò che sarebbe accaduto. Forse non potevamo prevedere la rapida e cataclismatica convergenza di questa impetuosa cavalcata, ma sapevamo perfettamente che il sovrapporsi dell’ecosistema uomo a ecosistemi autonomi e diversi avrebbe indotto una irrefrenabile intrusione e una cascata di eventi difficili da controllare, poiché sarebbe stato impossibile prevedere non tanto l’evidente e spregiudicato intervento umano, quanto gli effetti “boomerang” di ogni sconsideratezza. Era ben noto che l’umanità avesse vissuto pochi e miseri giorni di pace, condizione quasi astratta definibile solo in senso negativo come “assenza di guerra”, giacché non mi sembra possibile darne una definizione autonoma positiva o esoterica. L’ultimo secolo è stato letteralmente scandito da continue guerre: mondiali, tribali, dall’estremo al medio Oriente, passando attraverso l’Europa balcanica, l’Africa centrale e del nord.

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La destrutturazione degli imperialismi, l’avvento delle dittature, o dei monoteismi politici, e delle oligarchie altro non consentiva di prevedere ciò che gli osservatori già prevedevano da una decina d’anni per effetto della crisi del Donbass. Era forse prevedibile che la più europea e occidentale delle ex repubbliche sovietiche, dopo la crisi transcaucasica, avrebbe costituito il più ambito desiderio del neoimperialismo russo, ma, forse, era difficile prevedere che si sarebbe trattato della possibile culla della terza guerra mondiale evidentemente combattuta per sfere di influenza e interposta persona. Non era certo ignoto che il vero e proprio saccheggio delle fonti energetiche non rinnovabili avrebbe presto o tardi raggiunto il suo redde rationem, che il fulcro dell’esaurimento avrebbe attenzionato il pianeta per l’elevato rischio di inquinamento e sarebbe stata una delle armi più deflagranti di una ipotetica economia di guerra e che l’assoluta dipendenza avrebbe portato a una corsa affannosa agli approvvigionamenti, che rischia di rasentare il disastro ambientale ed economico. I cambiamenti climatici del pianeta sono notoriamente in atto dalla fine del XIX – inizio del XX secolo. Il trend negativo, con ripercussioni sull’assetto dei ‘condizionatori’ del pianeta – i ghiacci artici e antartici e i più vicini e diffusi ghiacciai –, sulle correnti oceaniche e sui cambiamenti meteorologici, è l’osservato speciale di tutte le organizzazioni internazionali da troppo tempo per sperare in una lieta novella, ovvero l’irrazionale ipotesi che sia tutto uno scherzo. L’incalzare dell’incremento della temperatura del pianeta è direttamente proporzionale allo scriteriato e metodico intervento umano e, purtroppo, le prove a riguardo non sono nemmeno più necessarie. L’ipotesi di un provvedimento di controllo, verso la cui attuazione vede numerosi paesi emergenti e industriali totalmente noncuranti e resistenti, avvicina il drammatico giorno del punto di non ritorno. Purtroppo il comune denominatore del disastro planetario è e rimane, quindi, l’uomo, l’occupazione predatoria del pianeta, l’assenza di un controllo sulla moltiplicazione della popolazione.

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Una popolazione di otto miliardi di uomini e donne (in continua ascesa) ha invaso la Terra, ne ha sfruttato ogni risorsa per interesse privato o per necessità derivanti dalla sovrappopolazione, ha ucciso, consumato, lordato il mondo ed è inevitabile riconoscere mestamente che ciò è stato malamente giustificato da atteggiamenti fideistici, mistificazioni, cercando in tal modo di edulcorare goffamente il più grave delitto della storia che oggi osserviamo increduli come tanti pagliacci di Nietzsche. Ci perseguiterà la piena consapevolezza di avere distrutto la nostra casa e quella di mille e mille altri esseri viventi che hanno la medesima dignità e diritto di esistenza, ma che hanno saputo vivere adattandosi al pianeta. L’uomo è stato condizionato sin dagli albori da una presunzione di eternità che ha giustificato il florilegio di religioni e filosofie che attengono alla nostra vita tanto quanto la nostra incapacità di giustificare sofferenza e morte in quanto semplici animali. Fragilità e insicurezza umane hanno giustificato la presunzione di un inconsistente primato universale che si rivela oggi nostra prematura fine, logico epilogo di una obesità intellettuale autoreferenziale.

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Così viaggio attraverso i luoghi intoccati (o quasi) di questo miracolo universale ma il pensiero e le riflessioni rimangono dentro di me: spettatore consapevole di una imminente, cosmica tragedia e al contempo confidando che, se sarà fine, non lo sia anche per il Pianeta che ha saputo, nelle ere che si misurano solo attraverso la geologia, rigenerare più e più volte la vita. Mi rasserena il fatto di essere anche uno spettatore privilegiato, nel palco di prima fila, che gode, giorno dopo giorno, non solo della consapevolezza di cosa sia l’inestimabile ricchezza della Natura mai così a rischio come oggi, che cerco per quanto possibile di trasmettere a tutti coloro che ne hanno interesse, ma anche della egoistica gratificazione della bellezza, della incredibile avventura di una vita, della scoperta ogni giorno di qualcosa da cui lasciarmi sorprendere, dalla possibilità di scrivere nella mia mente, nel mio sentire e con le mie parole ciò che è negato alla stragrande maggioranza delle persone. Sono uno dei reporter della bellezza del pianeta e dei suoi abitanti innocenti e al tempo stesso il frammento di un archivio storico, per quanto evanescente, di qualcosa che sta per scomparire. Nel mio “qui ed ora” sono contornato da esseri uguali a me stesso, troppo vicini, a volte invadenti.

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Ma anche “nell’altrove” ho scoperto che la solitudine è una astrazione perché qualcuno mi ha sempre accompagnato, visto e non visto, visibile e invisibile, e mi è stato vicino con occhi furtivi nascondendosi al tempo stesso tra i rami e le distese bianche, ma anche nella mia fantasia, nella mia percezione. Sono sempre stato un ospite osservato e accettato. Non c‘erano soltanto Frank, Ole, John, Brad e tanti altri di volta in volta. In realtà c’erano coloro che di diritto mi stavano silenziosamente accanto, coloro che mi osservavano, perché abitanti dei luoghi in cui io mi sono avventurato e in cui continuerò ad avventurarmi finché ciò sarà possibile o sarà nelle mie possibilità. Sono ospiti, nel vero e autentico senso di coloro che danno ospitalità, ora capaci di osservare silenziosamente, caute e invisibili presenze, ora immanenti, palesi e importanti, forse rischiosi in queste meravigliose città ora di alberi ora di ghiaccio. Non nego di avere avuto mille timori all’inizio della mia avventura, ma ho certamente imparato almeno tre cose: osservare, sentire, essere resiliente. Ho imparato a fare un passo indietro ogniqualvolta ciò si rendeva necessario per non disturbare o per non causare il rischio di un inutile scontro.

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Ho capito che molte volte avrei potuto fare un passo in avanti per cercare una relazione, un contatto, una conoscenza reciproca, ma che allora avrei dovuto farlo con una disposizione estremamente umile: non pensare mai a loro se non come “altro mio pari”. Mille e più volte mi sono seduto sotto la neve, la pioggia o in condizioni infernali aspettando. Altre mi sono disteso, ho abbassato gli occhi, ho evitato di pensare se non all’altro cercando di intuire ogni più piccolo movimento delle vibrisse, degli occhi, delle orecchie. Così, un po’ alla volta, ho imparato una lingua straniera e non umana. Ho comunicato, ne sono certo, con piccoli movimenti o astenendomi da ogni movimento, con piccoli suoni, con lo sguardo, ma soprattutto ho imparato che un suono, uno sbadiglio, il movimento di una zampa è un segno e non è mai un caso. Io, come voi, io come loro assumiamo espressioni più o meno consapevoli, trasmettiamo segni di disagio o di felicità, di interesse, ansia, aggressività. Ma se questo appare quanto meno logico in un essere umano, la barriera che l’uomo erge con il mondo animale “non domestico” ha fondamenta deteriori radicate nella nostra presunzione: non esiste comunicazione che non sia verbale, non esiste il discorrere che non sia fatto con le nostre parole, né tanto meno intelligenza che non sia quella umana. Basterebbe avere il coraggio della controfattualità per correggere il pensiero e trovare risonanze della sapienza tutte nuove.

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Perché pensare ai grandi poeti e alla loro lirica espressione quale massima filologia e filosofia della vita quando ignoriamo le centinaia di migliaia di differenti suoni con cui i cetacei comunicano in continuazione? Qualche mese fa al largo della baia di Hudson, alla ricerca della balena bianca, “il beluga”, con un piccolo trasduttore sonoro (un microfono profondamente immerso nell’acqua e amplificato) a bordo di una scialuppa ho ascoltato incantato per ore una incessante comunicazione tra delfini, balene, beluga, orche e chissà quali altri mammiferi marini. Ho capito mai così bene come allora la loro propensione al gioco per puro piacere, quale espressione di felicità e consapevolezza, la loro necessità di comunicare e conoscere, quindi la loro capacità di essere senzienti almeno quanto lo siamo noi. Non potremo mai affermare una graduatoria della autorevolezza intellettuale finché non faremo nostra l’idea che se l’uomo è il più intelligente nella sua umanità, il lupo è il più intelligente nella sua “lupità”, come l’orso è il più intelligente nella sua “orsità”. Gli indiani dicono che se un ago di pino cade nella foresta l’aquila lo vede per prima, il lupo lo sente per primo e l’orso ne sente l’odore per primo. Gli uomini dalla pelle rossa, nella loro innata empatia per l’ambiente, avevano già da molto tempo sancito il rispetto di una diversità che vede ogni essere senziente prevalere e primeggiare nelle sue inimitabili specificità.

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Nel mio mondo fatto di un incredibile parlamento di piccoli e grandi esseri di ogni colore, di città fatte di alberi o di ghiaccio, senza alcun negozio, la diversità è un valore incredibile e insostituibile, una attestazione di complementarietà irrinunciabile in un ecosistema perfetto. Il primato della diversità di tutti gli organismi, di tutte le entità che popolano questo meraviglioso pianeta determina la costruzione, con regole e leggi chiare, di una inimitabile democrazia. I nostri fratelli vivono in equilibrio perfetto con il pianeta, con le sue stagioni e la sua meteorologia in un processo evolutivo di adattamento che li ha resi interpreti eletti del loro essere integrati e non dannatamente dissociati e belligeranti. Ed è seguendo questo atavico equilibrio che ho imparato a interpretare non solo i segni della loro presenza, ma anche a tentare di trovare e rappresentare le loro relazioni con l’ambiente: una sorta di animalscape cercando di integrare “l’interprete” nel suo più appropriato “proscenio”, che a ben vedere è quella delicata, naturale integrazione che la nostra scarsa avvedutezza ha interrotto perché ogni essere vivente privato del suo pabulum naturale inevitabilmente si estingue. Non è un mistero, per coloro che mi conoscono, che il mio non facile regno è perso tra i ghiacci.

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Un mondo che non abbandonerò sino a che tutti noi non saremo abbandonati. In questo mondo cristallino e bianco vive uno straordinario e silenzioso esercito di bianchi e fantasmatici esseri perfettamente adattati alla massima espressione di inospitalità del pianeta. Colori che rendono perfetto il mimetismo con la concessione di pochi tratti di china cinese che ne abbelliscono infinitamente i connotati, foltissime pellicce, la capacità di resistere a temperature che spesso rasentano i 65-70 gradi al di sotto dello zero. A sud un mondo fatto di pinguini, il regno degli uccelli che non volano. A nord una folla di strani abitanti protagonisti di un romanzo mai letto di Tolkien o di un film mai visto di Chris Weitz. Tenui figure nel bianco, anch’esse candide, ora furtive ora evidenti presenze, fuggevoli o imponenti. Per molto tempo mi sono sentito intruso e curioso, ma oggi, dopo molti anni di incursioni in questi straordinari spazi bianchi, il mio “male polare” mi attira tra loro.

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Mi percepisco parte di quel mondo e in armonia con quei bianchi fratelli nel bianco. Ho imparato a camminare con passo leggero. Ora so guardare e non solo vedere; ho imparato che l’immobilità e l’osservazione valgono più di ogni scatto fotografico. Ho appreso che essere ora un po’ orso, ora un po’ volpe, o un po’ lupo è veramente il più grande regalo che ho avuto dalla vita. Il mio più grande cruccio è e sarà quello di non poter trasmettere mai appieno la profondità di queste emozioni e sensazioni, la consapevolezza di che cosa davvero è dato vivere in simili contesti. Ma soprattutto, e ancor più grande, il senso di impotenza rispetto al futuro che verrà. Non rimpiangerò mai i giorni passati e quelli a venire nel mondo di ghiaccio, dove non solo l’acqua, ma anche il tempo si cristallizza in attesa di un futuro che spero sia solo figlio di “congetture” ed errate previsioni. Mi fermo ora in questa bellezza naturale e spero di non vedere, domani, l’orso polare giacere impotente e triste su uno scoglio in mezzo al mare che fu città di ghiaccio.