Vigne maestre

Radici da coltivare, per raccontare un'eccellenza e il suo territorio
di Massimo Bran

A tu per tu con Elvira Maria Bortolomiol per parlare di Prosecco, imprenditrice che prosegue con la sua cantina nel solco tracciato dal padre Giuliano, vero patriarca fondativo della versione più innovativa di questo vino, il brut.

Il Prosecco è un mondo. In continua ebollizione e crescita che, talvolta, porta ad alcune contraddizioni. In questo è davvero figlio della sua regione, il Veneto, e più estesamente della sua macroregione, il Nordest. Sullo sviluppo dirompente di questi territori si è detto tutto quello che si poteva dire da tempo oramai. Dopo tanta crescita ora la sfida è salvaguardare e valorizzare l’energia vitale di questo mondo in perpetuo movimento. Per rimanere nel sentiero stretto e però infinito del vino con le bolle ormai per antonomasia, c’è una teoria di esperienze altamente vitali nel composito mondo produttivo del Prosecco di qualità non solo da salvaguardare, ma da valorizzare e promuovere quali virtuosi, programmatici esempi di che cosa significhi produrre vino ad alta intensità qualitativa oggi. Tra tutte, la più storica e significativa, perché espressione di un sistema che funziona e non solo di una singola cantina virtuosa, è sicuramente quella del Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco DOCG. Lunghi anni di lavoro serio e rispettoso dell’ambiente, di attenzione ai rigidi disciplinari che ogni vino che si rispetti deve pretendere, ha permesso grazie al lavoro di questo Consorzio al meraviglioso territorio di Conegliano Valdobbiadene di ottenere tre anni fa il massimo riconoscimento internazionale possibile, vale a dire l’iscrizione nella Lista del Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale dell’Unesco. Per parlare di questo lungo, virtuoso percorso abbiamo incontrato colei la quale presiede tale Consorzio, quella Elvira Bortolomiol che, con la madre e le tre sorelle, sta portando verso il futuro con una compagine tutta al femminile una lunga avventura aziendale famigliare avviata nel lontano secondo dopoguerra dal padre Giuliano.

I 100 anni del fondatore, Giuliano Bortolomiol. Radici familiari profonde, nuove visioni: gli ingredienti del successo di un’evoluzione storica del vino spumante italiano per antonomasia. Cosa è rimasto vivo in voi di queste due componenti costitutive della vostra famiglia-azienda?
Il solco lasciato da mio padre riveste ancora oggi un’importanza fondamentale, tanto nel guidare la nostra azione che nel permeare la nostra mentalità. Mio padre è stato un pioniere, che all’interno del territorio di Valdobbiadene ha saputo sollecitare e stimolare soggetti che ancora oggi risultano tra gli artefici più significativi delle fortune di questi paesaggi nel mondo intero. Fondamentale è stato il crocevia che dopo la Seconda Guerra Mondiale ha fatto in modo che i viticoltori non abbandonassero queste terre, ma che invece vi riversassero il proprio impegno con ancora maggiore dedizione e forza, ricostruendo e creando, come ha detto Luigi Veronelli, “attraverso la terra, un territorio”.
Una missione che io, mia madre Ottavia e le mie tre sorelle Giuliana, Luisa e Maria Elena sentiamo di avere impressa nel nostro DNA e che ogni giorno ci sforziamo di trasmettere all’azienda, in una tensione mentale che non si limita specificamente a permeare il nostro solo lavoro, connotando più estesamente la nostra stessa vita. Molto di quello che mio padre sognava, sperava, si è concretizzato o viaggia sulla strada della realizzazione. Tutto questo proprio grazie, ripeto, alla mentalità che lui ogni giorno si è sforzato di trasmetterci.

Agli inizi del 2000 ci siamo ritrovate ad essere un’azienda storica guidata da sole donne, in un mondo, come quello dell’enologia in Italia, a forte caratterizzazione maschile. Di sicuro un contesto non semplice nel quale lavorare. Siamo ripartite con una parola d’ordine ben scolpita nella mente: sostenibilità. Una sostenibilità portata avanti guardando alla Natura e alle sue leggi, su cui basare il rapporto quotidiano con tutti i nostri viticoltori. Una visione senza ombra di dubbio fulcro di ogni nostro progetto, di ogni nostro pensiero. Lavoriamo con circa una sessantina di produttori con i quali abbiamo studiato un modo diverso di operare in agricoltura, informato da un impegno assoluto nella cura del territorio che ci permette di elevare ulteriormente la qualità delle uve che riceviamo. Di nostra proprietà abbiamo solamente cinque ettari improntati al biologico, di cui uno è quello ospitato al Parco della Filandetta, il nostro progetto di recupero di archeologia industriale nel cuore di Valdobbiadene, ma anche contenitore dove arte e cultura si incontrano per dare vita ad una vera e propria Art & Wine Farm. Le colline del nostro territorio hanno la particolarità di raccogliere una gran quantità di produttori con terreni di proprietà dalle dimensioni medie piuttosto ridotte, circa 1 ettaro, 1 ettaro e mezzo. Da mio padre ho ereditato questo bagaglio di rapporti personali con questi viticoltori, che ad oggi sono ancora tutti con noi e condividono un progetto che investe ogni momento della nostra attività lavorativa, basato su una forte identità di vedute e sullo stesso modo di intendere un’agricoltura in equilibrio tra innovazione e rispetto della tradizione. Una sostenibilità che si riflette nella coltivazione dei terreni, nell’organizzazione della nostra cantina e, non ultima, nella certificazione EPD, Environmental Product Declaration, importantissimo riconoscimento da noi ottenuto grazie a un’attenzione sempre più marcata verso le emissioni di CO2, che in questo momento riusciamo a compensare grazie all’aiuto di un bosco di famiglia di oltre 3 ettari sul Monte Cesen, proprio sopra Valdobbiadene.
Stiamo lavorando per ottenere la certificazione di tutta la filiera dell’azienda e speriamo nel 2023 di poter raggiungere anche questo risultato. Siamo molto fiduciosi a riguardo.

Ci parli un po’ di questo intrigante progetto del Parco della Filandetta.
Il Parco della Filandetta è di sicuro il segno tangibile di quanto l’azienda creda nel settore turistico e dell’incoming, ovviamente senza mai voltare le spalle al mondo dell’enologia. In questo complesso troviamo infatti la cantina della vinificazione e della vendemmia; qui arrivano tutti i viticoltori a portare il raccolto e sempre da qui parte il vino per passare in un’altra cantina per diventare poi spumante.

Alcuni spazi di questo Parco erano adibiti a magazzini per una cartiera, mentre altri erano appunto appartenenti ad una filanda che agli inizi del Novecento faceva parte del distretto di produzione della seta, che all’interno del territorio di Valdobbiadene contava altre quattro sedi. I volumi sono stati ovviamente tenuti com’erano, siamo in centro storico e quindi è giusto che tutto rimanga il più possibile inalterato, ma questo non ci ha impedito di creare uno spazio ispirato appunto ad un’Art & Wine Farm capace di dialogare con l’arte in chiave enologica e con l’arte in senso assoluto. Abbiamo iniziato esponendo alcune opere di Giovanni Casellato, Il gomitolo, Campo di Vento, Aerei di Francesca e Il tavolo, mentre il successivo rapporto avviato con l’artista tedesca Susken Rosenthal, di cui abbiamo qui ora l’opera Cocoon, è se possibile ancora più profondo, parte di un progetto dedicato alla land art che ha visto il coinvolgimento di 300 artiste donne.

Dopo due anni in cui ovviamente la pandemia ha rallentato le nostre attività ma non fiaccato il nostro spirito d’iniziativa, abbiamo lanciato una seconda call for artists e invitato Inês Coelho da Silva, artista portoghese che ha realizzato un’opera ospitata in un altro punto del Parco, un lavoro ispirato alla seta e all’utilizzo del filo. Il Parco della Filandetta si configura come parte creativamente vitale di un luogo strategico che sta diventando punto di riferimento per il turismo italiano e internazionale, oltre che splendido biglietto da visita per gli oltre 50 Paesi in cui esportiamo, che anche attraverso queste iniziative riescono a conoscere ed apprezzare la nostra attività.

La grande attenzione al rapporto personale e commerciale con i viticoltori vi caratterizza a livello nazionale e non solo. Come si sviluppano concretamente queste collaborazioni?
Coltivare questi rapporti è alla base della nostra concezione del lavoro; così ci ha insegnato da sempre nostro padre e sempre sarà la stella polare del nostro agire. Rinforzare i link, per dirla con il linguaggio di oggi, che lui aveva già creato con diversi produttori è stato il punto di partenza dal quale abbiamo sviluppato ogni progetto. Il presupposto di ogni nostro pensiero sta nella fidelizzazione radicale tra noi e i produttori.
Nel nostro territorio, per tradizione, non è possibile stipulare dei veri e propri contratti a legittimare il rapporto tra noi e i viticoltori; al momento della vendemmia dobbiamo quindi essere in qualche maniera sicuri che il viticoltore porterà da noi il frutto del proprio lavoro. In tutti questi anni non abbiamo mai sperimentato delusioni da questo punto di vista. Una stretta di mano e il profondo rispetto dei rispettivi ruoli ha sempre caratterizzato il rapporto viscerale che abbiamo con queste terre e con chi le lavora giorno dopo giorno, rendendo possibile tutto questo.

Quali le tappe che hanno portato all’intuizione del brut, vera rivoluzione prodotta da vostro padre?
Giuliano era uno sperimentatore tenace, che alla base della propria visione aveva competenze acquisite alla Scuola Enologica di Conegliano, una delle più importanti in Italia. Le sue sperimentazioni sul metodo Charmat – Martinotti (un procedimento atto a produrre vino spumante, mediante la rifermentazione in un grande recipiente chiuso chiamato autoclave n.d.r.) sono legate quindi all’ambiente universitario, alle sue dinamiche interne e non. La sua convinzione più forte era che da questa uva, che oggi porta il nome di Glera ma allora era chiamata Prosecco, si potesse ricavare un grande vino: da qui il via ad una sperimentazione, ispirata dall’osservazione su come i grandi Champagne fossero appunto figli di un metodo brut, che lo spinse a cercare il meglio dalle uve di un territorio come il nostro dove la tradizione portava esclusivamente ad un esito extra dry, caratterizzato da un maggiore residuo zuccherino.
Per produrre un brut bisogna essere piuttosto abili in fase di lavorazione; l’esito, quindi, era tutt’altro che scontato. Pioniere nell’intuire le potenzialità della spumantizzazione della Glera, mio padre capì che la strada era quella giusta quando nel 1967 il Prosecco Brut Bortolomiol vinse la Medaglia d’Oro al Concours International de dégustation Montpellier, legittimazione di tanti sforzi e premio alla visionarietà di chi, come lui, aveva sempre creduto nelle potenzialità di quell’uva.

Come si è creato il rapporto con Roberto Cipresso, vostro enologo e autentico poeta del vino?
In un momento particolare della nostra storia ci siamo trovati ad affrontare dei problemi interni alla cantina, visto che il nostro enologo storico aveva deciso di intraprendere un’altra avventura professionale. Conoscendo Roberto abbiamo deciso di investirlo di questa responsabilità non da poco, visto che si trattava di riorganizzare un po’ tutta la cantina. Lavorando con lui e con Emanuele Serafin, suo braccio destro che poi è diventato a sua volta nostro enologo, abbiamo riorganizzato tutti i protocolli, in sostanza ripartendo da zero dal punto di vista programmatico.
Grazie a Roberto abbiamo avuto modo di realizzare anche un grande sogno di mio padre, ossia quello di riuscire produrre un vino toscano, un grande rosso, passione che potevamo già peraltro intuire sin da piccole visto che l’unica vacanza che durante l’infanzia potevamo fare con lui era proprio in Toscana. Roberto ha spinto convintamente per fare in modo che questo sogno di papà potesse diventare realtà; da wine maker espertissimo di vini rossi storici ha insieme a noi cercato un vigneto in Toscana che potesse avere caratteristiche adatte alla produzione del vino che volevamo, trovandolo a San Giovanni d’Asso, in un vigneto di Montalcino nella zona di confine con il Brunello, proprio nelle immediate vicinanze della sua cantina.
Questo vino è stato chiamato “Il segreto di Giuliano”, un Sangiovese di razza affinato per un anno in barriques di rovere francese, omaggio alla figura di nostro padre, ai suoi sogni e alla sua instancabile curiosità. Di questo progetto possiamo oggi realizzare delle verticali, vale a dire un vino di diverse annate firmato da un unico produttore, nel nostro caso mettendo assieme 7 diverse annate.

Il suo impegno nel Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco DOCG, di cui è stata nominata Presidente nel luglio 2021. Quali le linee programmatiche per il presente e per il futuro?
La Denominazione gode di ottima salute, anche in periodi difficili ha saputo essere performante sia sul mercato nazionale che internazionale, chiudendo il 2021 con un bilancio di 104 milioni di bottiglie e un fatturato di oltre 600 milioni di euro.
La cosa più importante è però la differenza tra la crescita del numero di bottiglie e la crescita di fatturato, rispettivamente al 13 e al 18%. Era da anni che lavoravamo per questo risultato, diretta conseguenza di una comunicazione efficace della nostra Denominazione come testimonia il riconoscimento Unesco ottenuto nel luglio 2019, praticamente a ridosso dello scoppio della pandemia.
Un riconoscimento internazionale, questo, che per il suo indiscutibile prestigio ovviamente investe la produzione stessa del vino, frutto del nostro lavoro, ma che è rivolto in primis al lavoro fatto dall’uomo per fare in modo che la conformazione di queste colline si potesse sposare al meglio con la presenza dei filari, con la creazione e la manutenzione dei ciglioni, terrazze erbose che rendono la conformazione del territorio ottimale per la coltivazione.
Il nostro obbiettivo futuro non è di sicuro quello di aumentare il numero delle bottiglie prodotte, quanto piuttosto il loro valore: la qualità deve sempre vincere sulla quantità. Lavoriamo seguendo delle linee guida a cui ispirarci: la sostenibilità è un concetto mai abbastanza ribadito e che attraverso il protocollo diffuso dal Consorzio impartisce regole molto rigide che tutti dobbiamo impegnarci ad osservare, a partire dai principi di pulizia rurale che i 15 Comuni che fanno parte della Denominazione hanno fatto propri.
Il risultato a cui approderemo, se sapremo coniugare al meglio queste direttive, sarà un turismo enogastronomico consapevole nel più alto e pieno senso della parola. Il Consorzio sta facendo inoltre grandi passi avanti anche nel settore dell’accoglienza, diversificando la propria offerta grazie a strutture che si stanno sviluppando con tempistiche ovviamente non immediate, ma che possono trarre vantaggio da un ‘fare-sistema’ che si percepisce sempre di più. Non solo tra giugno e luglio, anche in mesi tradizionalmente corrispondenti alla ‘bassa stagione’ registriamo il ‘tutto esaurito’ nel comparto alberghiero. Credo sia un risultato di cui andare decisamente orgogliosi, soprattutto perché ci rendiamo conto che è sul piano della mentalità che si stanno facendo i progressi più significativi, in una terra, va ricordato, non esattamente vocata all’accoglienza, o almeno non nei termini turistici tradizionali, trattandosi di colline caratterizzate da una conformazione inerpicante, non dolce e subito accessibile. Essere riusciti, per esempio, a portare in questi territori la classica ciclistica Nuova Eroica, sull’impronta di quella originale ospitata da sempre nei territori del Chianti, è stato un traguardo davvero eccezionale, impensabile fino a solo pochi anni fa. Stiamo poi lavorando all’istituzione di un Cammino di circa 50 chilometri che attraverserà tutta la Denominazione e che sul modello di quello di Compostela potrà ospitare anche persone portatrici di disabilità, così come, viceversa, chi può ed intende affrontare un percorso dall’approccio più sportivo, agonistico.

In questa sua doppia veste, istituzionale e privata, come ha affrontato l’italianissimo tema del campanilismo nell’ottica di un’intelligente e proficua convivenza tra le differenti realtà che fanno parte del Consorzio? Come si articola il lavoro di relazione tra i soggetti in campo?
Ovviamente le relazioni sono fondamentali, costituiscono il presupposto su cui basare ogni azione presente e soprattutto futura. Dal primo giorno in cui ho assunto la presidenza del Consorzio abbiamo subito pensato a creare input che potessero portare ad una forte coesione delle diverse realtà del territorio, incontrando devo dire la piena disponibilità di tutti i soggetti in campo. Mi riferisco in primo luogo proprio alla partnership con l’Associazione per il Patrimonio delle Colline di Conegliano Valdobbiadene Unesco, soggetto che si relazionava per la prima volta con il nostro territorio sforzandosi di capirne le specificità, le criticità e le potenzialità. Tutti hanno capito che sarà questa la nostra principale, strategica collaborazione per un futuro sempre più virtuoso di questo territorio.

Altro capitolo fondamentale è il rapporto irrinunciabile con la Strada del Vino e con progetti che possono riguardare il turismo, o ancora con la Confraternita, associazione nata prima del Consorzio a cui è stato dato l’incarico di riunire i coltivatori e di accompagnarli nello svolgimento della loro attività. A questo si aggiunge il GAL, Gruppo di Azione Locale dell’Alta Marca Trevigiana, che si è costituito in forma societaria nel 2008 su iniziativa della Provincia di Treviso e della Camera di Commercio di Treviso, coinvolgendo nel partenariato tutti i più rappresentativi soggetti pubblici e privati con l’obiettivo di affrontare e dare delle risposte risolutive alle problematiche di sviluppo rurale dell’area.
Il dialogo con le diverse Associazioni di categoria deve essere costante in particolare in un tempo come il nostro sempre più caratterizzato da preoccupanti cambiamenti climatici, vedi le difficoltà riscontrate nell’ultima vendemmia relativamente alla mancanza di acqua, diretta conseguenza di queste alterazioni meteorologiche. Segnatamente a questa criticità, con i Comuni e le associazioni stiamo lavorando alla ricostruzione, in alcuni casi totale, di quei bacini che garantiranno il giusto approvvigionamento idrico alle colline.

La cultura, l’arte, per i brand di oggi, non solo quelli vinicoli, sono spesso degli abiti indossati per cercare di avere un valore aggiunto in termini di comunicazione. Si invitano personaggi, ci si lega ad una mostra, ad un festival perché così vanno le cose oggi. Le vostre residenze d’artista al Parco della Filandetta profumano invece di autenticità, restituendo una disposizione verso l’arte niente affatto scontata. Come nasce questo progetto e come va via via sviluppandosi?
Si tratta di un argomento e un mondo che ci interessa moltissimo, perché ci permette di far conoscere il nostro territorio attraverso il linguaggio universale dell’arte, sia esso collegato specificamente al mondo del vino, che inteso in una dimensione assoluta, universale. Queste attività, questi progetti artistici in residenza, ci hanno permesso non solo di valorizzare la nostra identità aziendale e territoriale, ma ci hanno anche offerto l’opportunità di investire concretamente in contesti geograficamente lontani dal nostro, dando sostegno a progetti in Africa e in Nepal, vedi quello in Mozambico per le donne malate di AIDS grazie alla collaborazione che abbiamo istituito con la Comunità di Sant’Egidio. Probabilmente legarci a progetti di questo respiro attraverso lo sviluppo di una progettualità artistica fa parte della nostra sensibilità, di un bisogno che sentiamo e viviamo intensamente e attraverso il quale completiamo la nostra attività.

Sin dalla sua prima giovinezza ha girato il mondo lavorando sul fronte ambientale grazie alla sua formazione universitaria. Ci parli un po’ di queste sue prime esperienze, di quanto l’hanno formata e segnata, e di come è poi ritornato a bussare alle sue porte il richiamo delle radici.
È vero, fino a quando ho concluso gli studi universitari alla Facoltà di Agraria e Scienze forestali la mia ambizione era di poter fare un’esperienza lontano da qui, cosa che non corrispondeva assolutamente al sogno di mio padre, che era invece quello di coinvolgermi nelle attività della cantina. Quando, praticamente con una scusa, me ne sono andata, il mio tragitto ha toccato prima Roma e poi, grazie al Banco Interamericano di Sviluppo di Washington, la Bolivia, dove ho avuto l’importante opportunità di collaborare con il governo boliviano, precisamente con il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, entrando in contatto con problematiche legate al monitoraggio delle foreste amazzoniche, attività che ho potuto proseguire poi successivamente anche in Argentina e in Guyana.
Quando mio padre mi ha chiesto di tornare a casa e occuparmi della cantina assieme alle mie sorelle ho riscoperto il legame che avevo con il territorio. Quello che mi è venuto naturale una volta rientrata qui è stato tradurre in pratica tutte le cose che avevo studiato e tutte le esperienze che avevo accumulato in giro per il mondo. Proprio l’altro giorno mi hanno contattato per un monitoraggio attraverso immagini via satellite, pratica che affrontavo quotidianamente quando mi trovavo all’estero.

Saprebbe in conclusione indicare l’ingrediente segreto che ha sancito il successo di questo vino nel mondo?
Ci sono stati studi di Sociologia dell’Università Bocconi che si sono occupati di questo tema, interessante non solo a livello enologico, ma anche sociale per l’appunto. Credo che, oltre all’innegabile lavoro portato avanti per fare in modo che la qualità fosse sempre ai massimi livelli, sia stato il ruolo della comunità a fare in modo che questo vino fosse conosciuto ed apprezzato in tutti i Paesi in cui viene oggi regolarmente esportato nel mondo, dalla Gran Bretagna alla Francia, dagli Stati Uniti ad Hong Kong, ed anche in realtà internazionali ancora non toccate da questo prodotto. La comunità e la sua capacità di fare fronte comune alle difficoltà affrontate in questi anni, come i cambiamenti climatici che sono alla base della vita quotidiana di produttori e consumatori.
Esiste un genius loci che questa comunità ha evocato, a volte inconsciamente, a volte con più consapevolezza, ma che pervade sempre ogni nostro progetto e che dovremo sforzarci di esaltare al massimo, a tutti i livelli, come siamo ad esempio riusciti a fare con il Rive 70th Anniversary Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG, uno spumante in edizione limitata, prodotto in sole 8000 bottiglie premiato con i Tre Bicchieri del Gambero Rosso.

Ph. Mattia Mionetto