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Il latte dei sogni
Il Leone d’Oro alla Carriera a Donna Haraway e al suo pensiero attorno al Pianeta in cui viviamo, con una particolare attenzione ai vasti temi inerenti il concetto di umanità e di convivenza, celebra un’architettura come opera aperta, capace di costruire ecologie ed elaborare intelligenze di sopravvivenza.
Tra i Leoni d’Oro alla carriera assegnati dalla Biennale Architettura a partire dal 1996, solo tre sono andati a donne: a Phyllis Lambert (nella Biennale di Rem Koolhaas del 2014), a Lina Bo Bardi (Leone d’Oro speciale alla memoria assegnato nel 2021 da Hashim Sarkis) e, per l’appunto, a Donna Haraway in questa edizione curata da Carlo Ratti. L’impatto del pensiero della filosofa statunitense sull’architettura contemporanea è stato – ed è – dirompente. Tutto ciò che Haraway ha scritto in questi decenni, da A Cyborg Manifesto (1985) a The Companion Species Manifesto (2003), fino a Staying with the Trouble (2016), attraversa il lavoro di architetti, designer e urbanisti in forme più o meno dirette, ma quasi sempre radicali. Haraway non ha mai offerto risposte ai progettisti: mentre l’architettura si affanna a trovare soluzioni per un Pianeta malato, elaborando strategie che partono da edifici, spazi pubblici, città e infrastrutture – come se l’ancestrale tentazione dell’uomo a farsi demiurgo del mondo non si placasse nemmeno di fronte al problema della sopravvivenza –, Haraway non indica solide e universali soluzioni, ma offre semmai una fragile e situata posizione. La posizione da assumere è quella di imparare a “stare con il problema” (staying with the trouble, appunto), diventando “compagni di vita” con chi abita il Pianeta (lei dice making kin, un’espressione che pochi osano tradurre in italiano). Un pianeta fatto di terra, di suolo, di quel grembo ctonio da cui veniamo e nel quale troviamo humus, piante, animali, esseri umani, ma anche tecnica, tecnologie, saperi, capitalismi. Per descrivere questa condizione Haraway ha coniato il termine Chthulucene, ovvero un’epoca della terra (khthôn), sì, ma da intendersi né in una chiave romantica, né tantomeno in una disposizione idilliaca. È la terra dell’oggi (kainós), quella malata e infetta, a cui siamo chiamati a rispondere.
Il Leone d’Oro a Donna Haraway è dunque tutto racchiuso nel suo pensiero: l’idea del Pianeta come suolo malato di cui essere responsabili qui e ora; la consapevolezza di essere specificamente situati, e dunque limitati; l’urgenza di doversi stringere in nuove forme di convivenza da immaginare e costruire. È un vero e proprio manifesto per l’architettura, che riposiziona le vecchie dicotomie tra vicino e lontano, città e campagna, centro e periferia, tecnica e natura, nel contesto di una visione più ampia, vale a dire nella direzione di un ecosistema unico e interconnesso. In Intelligens si sta insieme: non esistono separazioni, ma ecologie relazionali. L’architettura chiama a raccolta tutte e tutti, perché in gioco c’è la nostra sopravvivenza, un suolo da curare collettivamente, dove nessuna intelligenza è superflua e in cui ogni luogo può diventare una soluzione. Un pianeta malato non si guarda dallo spazio, cercando forme alternative di esistenza; non si scappa da un pianeta infetto: è questo, in fondo, anche il messaggio di Out, la sezione che conclude Intelligens all’Arsenale. Bisogna invece tornare dentro la terra, dentro l’ecologia della vita, imparando insieme un altro modo di abitarla. Questa è l’architettura di cui abbiamo urgente bisogno.