Sesta edizione del Festival Luigi Nono, intellettuale a tutto tondo che la figlia Serena ci racconta. Dal 7 al 30 novembre in vari luoghi della città spazio a concerti, proiezioni e dibattiti per celebrare l’attualità di un genio musicale.
Intervistando Serena Nono si finisce quasi inevitabilmente col parlare della sua incredibile famiglia, tralasciando la sua importante opera di artista. Di questo faccio ammenda. Figlia di Luigi Nono, uno dei più importanti compositori del Novecento, nato a Venezia il 29 gennaio 1924 e morto nel 1990, e di Nuria Schoenberg Nono, figlia del compositore Arnold Schoenberg, con la sorella Silvia e la madre sono infaticabili nella loro opera continua volta a tener vivo il lascito culturale e ideale del compositore attraverso l’Archivio Luigi Nono, che festeggia ora i suoi trent’anni. Il Festival Luigi Nono, giunto quest’anno alla sua sesta edizione e che si svolgerà durante il mese di novembre in vari luoghi di Venezia, presenta importanti appuntamenti, non sono musicali, tra cui va segnalato quello del 23 novembre al Teatrino di Palazzo Grassi in cui vengono presentati I film di famiglia, un documentario prodotto da Serena Nono in collaborazione con Fondazione Archivio Luigi Nono, che racconta con film 8mm e super8 gli anni dal 1959 al 1974 della famiglia del compositore. Ci sono i viaggi, gli incontri con personalità artistiche e politiche, la casa della Giudecca, la famiglia, gli amici come Massimo Mila, Giuliano Scabia, Luigi Pestalozza, Yevgeny Yevtushenko, alcuni membri del The Living Theatre, Yuri Lyubimov, Sviatoslav Richter, gli Inti-Illimani… Insomma, una vera e propria galleria d’arte e d’intelletto del Novecento. Di questo e di molto altro ancora abbiamo avuto il piacere di parlare con Serena Nono.
Come si prospetta l’edizione 2023 del Festival Luigi Nono?
Si tratta di un’edizione che si delinea come molto densa, nel solco di una manifestazione che è nata nel 2017 e che di anno in anno ha incrementato i propri appuntamenti, diversificandone la natura. Basti dire che quando abbiamo iniziato, il festival durava solo quattro o cinque giorni. Ora siamo riusciti, coinvolgendo diverse sedi cittadine e differenti soggetti culturali, ad ampliarne il programma per tutto il mese di novembre. L’edizione di quest’anno coincide con i trent’anni della Fondazione dedicata a mio padre, nata nel 1993 su iniziativa di Nuria Schoenberg Nono allo scopo di raccogliere, conservare e promuovere il suo lascito e conservarlo nella sua Venezia. Nel corso di questi tre decenni si è arricchito di nuovi documenti grazie alle donazioni di artisti, amici, colleghi e collaboratori, svolgendo un importante lavoro di diffusione musicale e culturale di cui siamo pienamente soddisfatti, ottenendo sempre ottime risposte da parte del pubblico. Il titolo dell’edizione di quest’anno del Festival è Ascolta, parolachiave in riferimento alla vita e al lavoro di mio padre, al suo pensiero, che ricorre molto spesso nelle sue composizioni, tra le altre in Prometeo ad esempio. Anche quest’anno non seguiamo un tema preciso; abbiamo infatti scelto un percorso trasversale che toccherà vari argomenti attraverso eventi che scandiranno gli anni di attività della Fondazione. Si tratta di un festival piccolo, che finanziamo in prima persona e senza sponsorizzazioni – che in ogni caso non rifiuteremmo, se congrue e coerenti col nostro percorso –, che attraverso concerti con repertori di compositori contemporanei, non solo quindi di mio padre, presentazioni di libri o proiezioni di film si sforza di portare avanti tutti quei valori in cui Luigi Nono credeva e che voleva diffondere attraverso i suoi lavori. Ed è quanto anche noi oggi intendiamo pervicacemente portare avanti attraverso le attività dell’Archivio e della Fondazione.
Il suo pensiero musicale e politico andavano di pari passo
Vostro padre non era solo un musicista, ma un intellettuale a tutto tondo. L’opportunità di questa intervista non può non spingermi a chiedere che tipo di genitore fosse il Maestro Nono…
Sono cresciuta con stimoli legati a diversi tipi di arte e con uno sguardo sempre molto attento a tutto quello che accadeva nel mondo, all’impegno politico caratterizzato da una profondità di pensiero e di sentimento che mio padre ha sempre fatto propria e che ha sempre cercato di trasmetterci. La sua personalità è sempre stata umanamente molto intensa; era coinvolto in prima persona in diverse cause che lo portavano in contatto con diverse persone delle più varie estrazioni sociali. La nostra casa è stata per molto tempo un porto di mare in cui transitavano scrittori, filosofi, pittori e molte altre persone provenienti da ogni dove, dall’America Latina come dai Paesi dell’Est. Sono cresciuta in un’atmosfera molto vivace, con episodi anche particolarmente singolari, vedi quello, ad esempio, del passaggio da noi alla Giudecca degli Inti-Illimani, i quali avevano da poco lasciato il Cile dopo il golpe del 1973. Ricordo in casa da noi persone accampate sui divani, sui materassi, un po’ ovunque. Mio padre come nella musica sperimentava nuove soluzioni e nuovi modi di esprimersi, così nella società sperava, come tanti in quel periodo, di contribuire a creare un nuovo ordine sociale. Il suo pensiero musicale e politico andavano di pari passo.
In che modo eravate coinvolte, da piccole, nel tempo passato da vostro padre sulle partiture, nei concerti, nelle rappresentazioni teatrali?
Egli componeva a casa e poi passava lunghi periodi negli studi di Fonologia, a Milano o in Germania, a Friburgo, dove si dedicava alla pratica di sperimentazione con i musicisti. Quando lavorava a casa aveva bisogno invece di chiudersi da solo nel suo studio, spesso ci chiedeva di fare silenzio, oppure si aggirava per le stanze assorto nei suoi pensieri. Eravamo assai partecipi del suo processo di composizione; sentivamo curiosamente tutti i suoni che uscivano dallo studio e frequentavamo tutte le persone, attori o musicisti, che venivano coinvolte nei suoi lavori. Grazie ai nostri genitori, mia sorella Silvia ed io abbiamo sempre assistito alle prove o alle prime dei lavori di mio padre; ci è stata offerta la possibilità di vivere ambienti dagli stimoli unici, con spettacoli e concerti che hanno animato la nostra infanzia. Un coinvolgimento consapevole e totale da parte dei miei genitori, dunque. Anche se magari non direttamente coinvolte per ovvi motivi nelle discussioni pre e post-concerti, ne siamo state testimoni attente, capaci di percepirne tutti gli stimoli artistici e sociali. Abbiamo vissuto appieno il lavoro e la testimonianza di vita di nostro padre, sì.
Di tutte queste persone, passate da casa vostra o incontrate nei luoghi di lavoro di vostro padre, chi vi è rimasto più impresso?
Difficile fare uno, o solo pochi nomi. Sono state davvero numerose le persone che abbiamo conosciuto e con le quali si sono instaurati rapporti di amicizia protrattisi nel tempo. Abbado, per esempio, è stato un collaboratore prezioso ma anche un amico fraterno, con cui abbiamo poi mantenuto un rapporto di amicizia che comprendeva anche il trascorrere assieme le vacanze. Penso poi a Maurizio Pollini, o ancora alla forte amicizia che abbiamo condiviso con Julia Dobrovolskaja, traduttrice quando mio padre cominciò a collaborare con il regista russo Jurij Ljubimov, a testimonianza di come riuscisse a legare anche con persone non direttamente coinvolte nel processo musicale. Abbiamo ospitato in casa nostra per un intero anno un guerrillero venezuelano che interagiva con noi bambine facendoci disegnare o raccontandoci storie, una figura rimasta decisamente impressa nella memoria mia e di mia sorella. Abbiamo potuto frequentare molti esponenti di spicco del Partito Comunista Italiano, non ultimo l’appena scomparso Giorgio Napolitano, amico di mio padre che, pur non frequentandolo magari spesso come Abbado, ha fatto sentire forte la sua presenza, ma anche Achille Occhetto e Pietro Ingrao. Se dovessi fare un nome su tutti direi Massimo Cacciari, che ha frequentato casa nostra da quando era un ragazzo di 18 anni ed è stato, e lo è a tutt’oggi, presenza costante e parte integrante della famiglia, anche e soprattutto dopo la scomparsa di mio padre, dimostrandosi aiuto preziosissimo nell’organizzazione stessa del festival a lui dedicato.
Che eredità culturale ha lasciato Luigi Nono? Quale il tratto più significativo della sua contemporaneità?
Di lui credo spicchino in maniera significativa la grandissima attenzione verso l’etica e verso la ricerca. Aveva molto a cuore la ricerca nel linguaggio che doveva farsi strumento per raccontare la contemporaneità. Mio padre non era ossessionato o interessato particolarmente al successo su larga scala; per lui essenziale era il dialogo attraverso il quale poter spiegare al meglio il suo lavoro, anche frequentando contesti tradizionalmente lontani dal suo mondo, come ad esempio le fabbriche, in cui non si pensava che la cultura di alto livello avesse diritto di cittadinanza. Credeva fermamente in un rapporto culturale diretto con ogni tipo di interlocutore e puntava alla formazione di un linguaggio che fosse comprensibile a tutti, per sfatare il mito che vedeva quella musica considerata colta come materiale ad uso esclusivo delle élites sociali. Ponendo l’attenzione sull’ascolto, sul dialogo e sull’apertura mentale secondo lui si sarebbero eliminati tutti i pregiudizi che le diverse classi sociali alimentavano al proprio interno, a volte anche in maniera involontaria, ma socialmente imposta e convenzionalmente accettata. È importante evidenziare come lui non “scendesse dal trono” per fare la lezione al volgo, quanto fosse nelle proprie azioni guidato dal desiderio profondo di comprendere le diverse realtà verso cui si poneva, ad esse aprendosi senza barriere di sorta, sperando che facessero lo stesso con lui, così da poter instaurare un dialogo biunivoco, profondo ed autentico, non retorico o accondiscendente. Da tutte le relazioni intrecciate con entità sociali territoriali o con soggettività provenienti da altri mondi da lui incontrate e frequentate negli anni era in grado di trarre materiale fondamentale per i propri lavori, sia in chiave tecnologica che come bagaglio umano, personale.
Credeva fermamente in un rapporto culturale diretto con ogni tipo di interlocutore e puntava alla formazione di un linguaggio che fosse comprensibile a tutti
Il suo rapporto con Venezia e la vostra Venezia.
Il rapporto di mio padre con Venezia racconta di un legame fortissimo con la città e con la sua storia, anch’essa connotata, non solo a livello musicale, da sperimentazioni, innovazioni e ibridazioni che l’hanno resa crocevia di eccellenze culturali e fucina inesauribile di idee. A volte di Venezia soffriva la provincialità, parliamo degli anni ‘70-‘80, e per questo motivo aveva bisogno di allontanarsi per alcuni periodi, frequentando studi di Fonologia in cui trovava possibilità di sperimentazione che Venezia all’epoca non offriva. Ha collaborato parecchio con la Fenice; non aveva un rapporto particolarmente stretto con altre istituzioni cittadine, ma piuttosto con singole persone, penso a Mario Messinis, importante critico e musicologo con cui portò avanti delle interessanti iniziative. Per tornare all’ascolto, aveva un rapporto viscerale con i suoni della città e con i suoi silenzi, una realtà unica al mondo in cui è forte il suono delle campane e inimitabile quello dell’acqua, elemento simbiotico. Cosa penso io di Venezia? Quello che credo sia un pensiero molto diffuso: un luogo che avrebbe possibilità infinite e che ne sfrutta assai poche. Una città che corre veloce verso il denaro, che non mi sento nemmeno di definire “città-museo”, nel senso che esistono al mondo musei ben più capaci di sfruttare le proprie potenzialità. Venezia in questi anni ha visto una riduzione drammatica del proprio artigianato e della produzione locale. La città sembra aver imboccato una via che da veneziana mi sembra incomprensibile, incompatibile con la sua natura di centro di produzione culturale, non di mera distribuzione: troppo spesso si fa vendita pura e semplice. Penso ad esempio al tessuto delle gallerie d’arte cittadine, oggi completamente smantellato.