Mara Rumiz, figura di spicco nell’ambito della vita istituzionale cittadina per molti anni e ora responsabile dei progetti speciali di EMERGENCY Venezia, ci offre una prospettiva approfondita su questa stimolante impresa emergenziale, a partire dalla mostra in corso nella sede della Giudecca fino al 31 gennaio 2024, dedicata al tema attualissimo delle migrazioni climatiche.
I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi
Gino Strada
Sono trascorsi poco meno di dieci anni dall’apertura della sede veneziana di EMERGENCY alla Giudecca e poco più di due anni dalla scomparsa del fondatore di questa straordinaria Onlus, Gino Strada. Un tempo che parla di radici ben piantate, il primo, un tempo che profuma di irrealtà, il secondo. Radici ben piantate, sì, perché ormai EMERGENCY è in città un centro che irradia costantemente progettualità attraversando i più svariati linguaggi espressivi delle arti, sempre necessariamente qui declinati nella ragione prima di esistere di questa straordinaria, concretissima esperienza di medicina nelle regioni più complicate del mondo, ossia la radicalità della difesa dell’esistenza dalle offese fisiche e psicologiche delle armi e non solo. Irrealtà, perché la scomparsa di Gino Strada parla di una sua presenza quasi immanente nella vita, nella quotidianità di chi è sempre stato al suo fianco fisicamente, ma anche di chi lo è stato anche ‘solo’ idealmente, centinaia di migliaia di individui. La sua radicalità, la sua militanza senza concessioni a difesa della vita, di ogni vita, aveva un qualcosa di quasi francescano pur essendo lui laicissimo, perché stare dalla parte degli ultimi per lui significava stare razionalmente dalla parte di chi concretamente, febbrilmente costruisce contenuti basilari per rendere questo mondo un posto decente, dignitoso per tutti. Un uomo mosso da una irriducibile carica utopistica informata però da una verticale, totalizzante cultura del fare. Ideali profondissimi, pragmatismo assoluto. Una disposizione molto meneghina, diciamocelo, nella sua versione più alta e aperta. Trait d’union tra il suo magistero quotidiano e questa sfida veneziana, in una città che lui adorava e in cui ha pure vissuto per lunghi periodi negli ultimi suoi anni di vita, Mara Rumiz. Una donna che per anni è stata protagonista della vita istituzionale della città con cariche importanti, a partire da quella di Assessora alle Politiche Abitative della seconda Giunta Cacciari. Una donna delle istituzioni, però, che proprio non ha nulla di quella patina paludata che informa troppi protagonisti della cosa pubblica, animata com’è da un lucido entusiasmo e da una fervida passione nel mettersi a disposizione di progetti aperti verso il futuro, verso un futuro di vita vera in questa città sempre più chiusa in sé. Una donna con questa attitudine, con questa disposizione viva e febbrile verso la comunità rispondeva perfettamente all’identikit dei compagni di avventura di Gino Strada, che conoscendola, e poi frequentandola in amicizia, perentoriamente in un amen è stato capace di coinvolgerla in questa grande sfida emergenziale sul fronte dei valori e della cultura. L’abbiamo finalmente incontrata Mara Rumiz, perché ci raccontasse circolarmente il senso e il sapore di questa esperienza.
Le mostre, o meglio certe mostre, sono veicoli fortissimi di riflessione e di diffusione di idee. Sono quindi uno strumento straordinario di approfondimento e conoscenza, ne è un esempio la mostra in corso nei vostri spazi della Giudecca dal titolo emblematico Dove stiamo andando? Clima e persone, che affronta il tema scottante delle migrazioni climatiche. Quale il grido di allarme che la mostra lancia?
La mostra si sofferma sulle conseguenze che il cambiamento climatico ha nella vita delle persone, determinando migrazioni, conflitti, povertà. La desertificazione, la siccità e le conseguenti carestie, le inondazioni provocate dall’innalzamento del livello del mare e l’aumento delle temperature rendono la vita impossibile per migliaia di persone che si ritrovano senza casa e in condizioni di povertà assoluta. Il cambiamento climatico, unito al consumo del suolo e allo sfruttamento delle risorse naturali, aggrava le diseguaglianze e impoverisce persone già di per sé vulnerabili e in difficoltà. L’insieme di questi fattori costringe le persone ad abbandonare la propria terra ed è causa di nuovi conflitti. La mostra visualizza, attraverso fotografie, mappe, infografiche e un’installazione, i cambiamenti climatici e gli effetti che essi producono sugli spostamenti delle persone prendendo in esame quindici Paesi, tra cui l’Italia. Paesi dove EMERGENCY opera, dalla maggior parte dei quali molte persone si muovono per raggiungere l’Europa. A causa del progressivo innalzamento delle temperature e del dilatarsi di altri fenomeni ambientali estremi, tutti in continua evoluzione, la situazione che abbiamo fotografato in mostra sta già cambiando. Nei mesi scorsi, per esempio, le provenienze dei flussi migratori si sono già modificate; ora stanno arrivando moltissime persone dalla Costa d’Avorio, paese prima non coinvolto in maniera significativa nelle migrazioni, dimostrando come il fenomeno “clima e persone” coinvolga tutti i paesi, ponendosi come principale elemento di criticità a livello globale.
Evoluzioni drammaticamente veloci che interessano direttamente anche l’Italia…
Infatti, quando ormai avevamo finito la ricerca e stavamo iniziando a montare la mostra si è consumata la drammatica alluvione in Romagna, per cui abbiamo deciso di inserire in mostra un corner a riguardo che abbiamo realizzato grazie anche alla collaborazione della Coldiretti, che ci ha fornito fotografie e materiale su questo disastro ambientale.
Come avete declinato tutto questo in un percorso espositivo coinvolgente?
Il progetto espositivo è stato ideato da EMERGENCY con la collaborazione del fotoreporter e ambasciatore del clima Simone Padovani. Il percorso narrativo, l’allestimento, il progetto grafico e l’installazione Viviamo tutti sotto lo stesso sole sono dell’architetto Paola Fortuna e del team dello studio + fortuna. Le citazioni letterarie all’interno del percorso espositivo sono, in buona parte, il frutto di una ricerca di studentesse e studenti del corso di laurea magistrale in Environmental Humanities dell’Università Ca’ Foscari, coordinata dal docente Shaul Bassi. Nella mostra sono esposte le fotografie di Getty Images, dell’archivio Coldiretti Veneto, che ha contribuito in maniera significativa al focus sull’Italia, e dell’archivio EMERGENCY. Sono state inserite due fotografie per ogni Paese preso in esame, con schede sintetiche che informano sulla situazione politica, economica, sanitaria, climatica di ognuno di essi. Naturalmente, parlando di clima e di ambiente, non potevamo allestire una mostra di questo tenore utilizzando materiali tradizionali, per cui tutti i supporti sono stati stampati da ADB Digital Print in materiale ecologico, soprattutto cartone alveolare o tela elastica al posto del pvc per le grafiche più grandi. Si è trattato di una scelta precisa, in coerenza con i contenuti del progetto espositivo e tesa a sottolineare che, per dare una chance al Pianeta, c’è bisogno di politiche efficaci e, anche, di responsabilità soggettive.
Facciamo un passo indietro: quando nasce il centro EMERGENCY di Venezia?
Gino Strada, nato a Sesto San Giovanni, continuamente in movimento tra l’Afghanistan, l’Africa e ovunque ci fosse bisogno di cure, amava in modo viscerale Venezia. È stato Gino a voler aprire la sede alla Giudecca. Era il 2014 e lui in quel periodo abitava proprio a Venezia. Da tempo voleva trasferire qui la sede di EMERGENCY, che era storicamente a Milano; pensava che Venezia fosse il posto ideale per il suo progetto. Ha fatto richiesta al Comune, allora c’era la Giunta Orsoni, di uno spazio dove poter portare avanti le sue attività già ampiamente sviluppate e consolidate. Grazie alla sua ostinazione gli è stato presto concesso. Allora io non avevo un ruolo attivo nell’organizzazione, ero ‘solo’ una volontaria, come lo sono anche ora peraltro, e in quanto tale ero già stata a lavorare in alcuni centri EMERGENCY in Africa ed Afghanistan. Gino era determinatissimo, si era convinto di poter spostare tutta l’intera sede dell’organizzazione qui, ma la cosa non era così semplice: spostare da Milano a Venezia cento persone con casa, famiglia, figli risultava a dir poco complicato. Questo progetto totalizzante, per così dire, non è infatti andato in porto. Eppure dei primi passi si sono comunque mossi in questa sede, a partire dai corsi di formazione per il personale di EMERGENCY in partenza per le missioni. Per un non lungo periodo, poi, è stata anche il centro del coordinamento medico dell’organizzazione. Tuttavia, nonostante queste vitali attività, la sede di fatto risultava sottoutilizzata. Fra l’altro, nel primo periodo, EMERGENCY condivideva lo spazio con l’Incubatore del Comune di Venezia, successivamente spostato sempre alla Giudecca nell’ex-Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, lasciando tutto l’immobile con canone di concessione ricognitorio a noi. Nel frattempo l’Amministrazione comunale di Milano aveva offerto a EMERGENCY una bellissima sede vicino alla Darsena, alla chiesa di Sant’Eustorgio. Ero presente all’inaugurazione di Milano e ricordo chiaramente di aver detto a Strada: «Gino, diventa un boomerang la situazione. Sono contenta che voi abbiate a Milano questa sede così bella, quindi è meglio restituire la sede di Venezia, perché tremila metri quadri per farci poco…». Secca e sicura la sua risposta, come sempre: «Siccome con i lavori che abbiamo fatto e con i soldi che abbiamo speso ce la siamo meritata sicuramente per un bel po’ dei prossimi anni, in attesa di sviluppare un progetto compiuto inventati tu qualcosa. Cosa vuoi che sia organizzare una rassegna cinematografica, una mostra, una serie di incontri…». Così ho iniziato e da allora sono sempre qui.
Sono passati quasi dieci anni dal vostro primo insediamento qui in Giudecca: quale il lavoro portato avanti in questo non breve tempo e quali gli obiettivi presenti e a venire di EMERGENCY Venezia?
In questa sede portiamo avanti il secondo fine statutario di EMERGENCY, ossia la promozione di una cultura di pace e di rispetto dei diritti umani, e lo facciamo utilizzando tutti i linguaggi culturali. Rassegne cinematografiche, azioni teatrali, piccoli concerti, mostre, incontri, workshop, veri e propri corsi universitari. In particolare abbiamo sviluppato una speciale collaborazione tra EMERGENCY e IUAV, che vede coinvolti gli studenti che partecipano al Laboratorio di Design della Comunicazione 3 del Corso di Laurea Magistrale in Design della Comunicazione, condotto da Paola Fortuna e da Luciano Perondi. Gli studenti hanno lavorato alternandosi tra le aule dell’Università e la sede di EMERGENCY, consultando documenti, facendo ricerche, leggendo libri, interrogando gli operatori sul tema delle migrazioni, il tutto al fine di raccontare le storie di chi scappa dalla guerra, dalla siccità, dalla povertà. Il primo Laboratorio, tenutosi tra ottobre 2019 e febbraio 2020, ha perseguito l’obiettivo di elaborare l’Atlante Storico di EMERGENCY, scaricabile ora sul sito. La sfida per gli studenti era quella di rappresentare graficamente, in formato cartaceo, digitale e passando anche per i giochi da tavolo, le attività che EMERGENCY ha portato avanti dalla sua nascita ai giorni nostri. Riuscire a cogliere ed esprimere l’essenza di 25 anni ricchi di diversità e di complessità attraverso infografiche ed elaborazioni visive di dati non era un compito affatto facile, ma l’interesse e l’entusiasmo che gli studenti hanno messo in questo progetto hanno prodotto un risultato sorprendente. Il sottotitolo dell’Atlante, dueminuti, si riferisce all’impegno nella cura offerto da EMERGENCY; ora con orgoglio e soddisfazione possiamo cambiarlo, perché “curiamo una persona ogni minuto”. L’ultimo laboratorio, nella primavera 2023, ha analizzato il ruolo concreto di EMERGENCY in giro per il mondo, trasformando la ricerca in giochi didattici da tavolo concepiti con lo scopo di raccontare le diverse esperienze sul campo. I giochi descrivono i contesti in cui EMERGENCY opera e l’idea di cura e di uguaglianza che promuove e applica. Dal progetto è nata una mostra il cui titolo è The Game, nome con cui in gergo viene indicato il tentativo dei migranti di superare i confini evitando i respingimenti. Una coincidenza semantica troppo significativa per non rimarcarla. Voglio anche ricordare che alcuni di questi giochi sono stati iscritti al Premio Archimede, uno dei quali è riuscito addirittura ad ottenere l’undicesima posizione tra i 234 giochi di professionisti partecipanti! Una grandissima soddisfazione e una conferma dell’impegno profuso da tutti in questi progetti.
Accanto a queste iniziative, vi è da parte vostra una particolare attenzione anche al territorio in cui operate. In che modo dispiegate questo vostro impegno in città?
Assolutamente. EMERGENCY, con le sue attività, innanzitutto vuole contribuire a salvaguardare il tessuto socio-ambientale della Giudecca producendo cultura, collaborando con le numerose associazioni, fondazioni, istituti, comitati che promuovono progetti in Isola e a Venezia. Viviamo quindi un radicato e fortissimo legame con la città vera. Concorriamo in svariate modalità alla produzione culturale. Attorno alle mostre e alle principali altre iniziative che portiamo avanti costruiamo un programma di approfondimenti a 360 gradi, una serie di incontri, di rassegne, che coinvolgono attori e pubblico del territorio al fine di interessare i cittadini a un dibattito aperto attorno ai temi caldi da noi proposti, cercando in tal modo di rivitalizzare una sana abitudine ad affrontare le complessità. Ospitiamo anche iniziative locali, come proprio in questi giorni (dal 7 al 20 dicembre) la mostra L’Isola che c’è, una raccolta di 19 ritratti pittorici di Nicola Golea dedicati agli abitanti di oggi dell’isola della Giudecca, ognuno accompagnato da un testo scritto da Andrea Barina. L’arte diventa uno strumento di coesione e dialogo tra gli abitanti. A Gino Strada è dedicato uno di questi ritratti quale riconoscimento della sua appartenenza imperitura alla Giudecca e a Venezia.
In che relazione si pone la sede di Venezia con quella di Milano?
Naturalmente lavoriamo in stretta collaborazione, anche se su piani operativi diversi. Insieme stiamo portando avanti il nuovo progetto, che dovrebbe avviarsi fra poco, fortemente voluto da Gino Strada: fare della sede di Venezia un centro contro la guerra, offrendo anche un’esperienza immersiva, non con visori però, bensì attraverso immagini, suoni, esperienze tattili, luci, facendo vivere a chi entra in questo percorso quasi tangibilmente l’esperienza terribile della guerra. Sembra assurdo parlarne di questi tempi in cui stiamo assistendo a ben due gravissime guerre, ma quando Gino aveva pensato al progetto non vi erano in atto conflitti a noi così prossimi. Tuttavia il progetto sta andando avanti coinvolgendo tutti e tre i piani della nostra sede; una sfida sostanziale, fortissima, che dovremmo iniziare a lanciare concretamente già nel 2024. Una cosa è certa, ossia che intendiamo fermamente scongiurare la percezione della guerra in una chiave di spettacolarizzazione. Grazie a questo per noi importantissimo progetto l’idea è di prevedere qui meno iniziative temporanee, anche se continueremo a farle mantenendo le nostre fondamentali collaborazioni, concentrando la nostra attenzione prioritaria, il nostro lavoro sul centro di documentazione sui temi della guerra e delle migrazioni che andiamo costituendo passo dopo passo. Un’azione forte per l’abolizione della guerra, di tutte le guerre. Gino Strada diceva: «È un’utopia, ma anche l’abolizione della schiavitù poteva sembrare un’utopia. E fare la guerra è anche un alibi per non portare fino in fondo la negoziazione diplomatica. Una volta c’erano i reggimenti che si fronteggiavano, adesso oltre il 90% delle vittime sono civili, bambini, donne, anziani».
La vocazione primaria di EMERGENCY è quella dell’assistenza medica. In mostra abbiamo visto le immagini dei vostri ospedali: qual’è la situazione operativa attuale?
Crediamo che essere curati sia un diritto umano fondamentale e che, in quanto tale, debba essere riconosciuto a ogni individuo. Perché le cure siano veramente accessibili, devono essere completamente gratuite; perché siano efficaci, devono essere di alta qualità. Tutti i nostri ospedali sono gratuiti, compresi i centri di eccellenza come l’ospedale di cardiochirurgia di Khartoum in Sudan – in questo momento aperto con attività ridotta causa la guerra in corso –, che copre un’area abitata da oltre 300 milioni di persone e che fino a poco tempo fa accoglieva pazienti provenienti da tutti gli altri paesi africani. Costruiamo ospedali per garantire il livello di cure più alto possibile, tenendo conto di standard di efficienza e sostenibilità. L’ultimo ospedale inaugurato è quello ugandese progettato da Renzo Piano, il Centro di chirurgia pediatrica di Entebbe. Avevamo fatto una mostra molto bella sul progetto, si intitolava Scandalosamente bello, riferendoci ovviamente non alla bellezza estetica in sé e per sé. «La bellezza – diceva Gino – è un elemento della cura». Tuttavia su questo progetto ci sono state molte polemiche e critiche. Molti hanno iniziato ad accusare Gino Strada di spendere soldi per fare “belle” strutture invece di inviare vaccini. Gino rispondeva così a queste critiche: «Noi partiamo dal concetto dell’eguaglianza; la cura non è mandare solo farmaci o amputare arti, è attenzione al benessere delle persone. Io voglio che nell’ospedale che EMERGENCY costruisce in Sudan piuttosto che in Uganda ci possa andare tranquillamente mio nipote, mio figlio». E continuava: «Se tu stai male, tanto male, e sei in un posto in cui c’è luce, colore, una finestra che affaccia su un bel giardino – c’è molta cura dei giardini negli ospedali di EMERGENCY – avrai più facilmente voglia di guardare al futuro e guarisci prima». E Renzo Piano aggiungeva: «In tutte le lingue africane il bello è sempre associato al buono».
L’idea forte è proprio questa: perché devi fare di un ospedale un accampamento o un campo profughi? Rivoluzionario nella sua asciutta, irriverente semplicità questo pensiero.
Altra cosa importante da tener presente è che negli ospedali lo staff internazionale è molto ridotto e oltre il 90% degli addetti sono persone del posto. In sostanza cosa fa EMERGENCY? Naturalmente interloquisce con lo Stato, il governo di turno, richiede lo spazio per fare l’ospedale o una struttura da recuperare e restaurare, esegue il progetto, parte con i lavori impiegando ovviamente manodopera locale, forma il personale locale, lo assume e l’obiettivo è quello, una volta avviato l’ospedale, di farlo vivere non come una astronave scesa dallo spazio, ma come parte integrante della regione in cui è insediato, lasciando che progressivamente si renda autonomo, autosufficiente. Diventare progressivamente inutili, non indispensabili, l’esatto contrario della pratica colonialista secolare condotta in questi paesi dall’Occidente. EMERGENCY inoltre ha disseminato nei territori i FAP (First Aid Post), una rete capillare di presidi per offrire cure e primo soccorso anche nelle zone più remote. In Afghanistan, ad esempio, oltre all’ospedale di Kabul, al centro maternità intitolato a Valeria Solesin sulle montagne del Panjshir e all’ospedale di Lashkar-Gah, vi sono 42 piccoli centri di primo soccorso spersi nelle montagne e nelle valli.
Come volontaria quale è stata la sua personale esperienza?
Ho conosciuto Gino – non ero ancora in EMERGENCY – quando abitava a Venezia. Ci vedevamo molto spesso, lui a cena a casa mia e io a casa sua. Lui cucinava molto bene peraltro. Finita la mia esperienza in Comune come Assessore dovevo tornare alla mia precedente occupazione come funzionario del Ministero per i Beni Culturali presso gli uffici della Soprintendenza, tuttavia sapevo che il mio rientro avrebbe causato malumori e problemi. Per questo motivo ho deciso di mollare istantaneamente quel lavoro. Mi trovavo, quindi, improvvisamente in una sorta di limbo: dalle 14 ore filate d’ufficio al nulla. Mi chiama Gino dal Sudan e mi dice: «Mara, cosa stai facendo?». Rispondo: «Al momento non sto facendo niente». Mi dice: «Benissimo, allora sabato ti prenoto un volo e vieni a Khartoum». Rispondo: «Perché devo venire a Khartoum?». Mi dice: «Perché si mangia di merda!». Così ho incominciato ad andare in Sudan per insegnare a cucinare, per poi organizzare in maniera più funzionale gli spazi, i contatti con i fornitori, le regole igieniche e via così. Per cui sono stata a Khartoum più volte, in Afghanistan, ero in Sierra Leone durante l’ebola… In Sierra Leone fra l’altro noi avevamo un unico ospedale. Quando è scoppiato l’ebola è stato realizzato un grande ospedale per curare questa terribile pandemia, per cui bisognava anche cercare ulteriori alloggi per il personale che arrivava, per lo staff internazionale, assumere personale… Sono andata lì per la cucina, ma presto mi sono resa disponibile a fare tutto quanto era necessario per il buon funzionamento di queste complesse strutture.
Un’esperienza incredibile!
Straordinaria, veramente straordinaria. Vedi le cose dal di dentro. Devo dire che lo stesso personale di EMERGENCY è straordinario, nel senso che medici, infermieri, mediatori sono tutte persone dotate di una carica, di una capacità di coinvolgimento impressionanti. Per loro non è solo un lavoro, innanzitutto è una scelta. Di vita, di pensiero, di azione. Un carico motivazionale che informa anche fatalmente la loro mentalità, la loro modalità di approccio a questo non certo ordinario lavoro. Ci sono fior fior di professionisti affermatissimi nel nostro sistema ospedaliero che accettano con totale trasporto questa sfida. Per rimanere a figure di medici qui da noi assai noti per le loro alte qualità professionali, Mimmo Risica per esempio, anche quando era primario cardiologo a Venezia, è stato un sacco di volte nelle nostre missioni. Un’esperienza che ti restituisce tantissimo. Mi ricorderò sempre nel Panjshir un ragazzino che vedevo passare ogni giorno sulla strada tirando un mulo. Un giorno gli ho regalato una macchinetta: vedere i suoi occhi accendersi, non aveva mai visto un giocattolo, è stata un’emozione indescrivibile.
Com’è stato e com’è oggi il dopo Gino Strada?
Gino manca enormemente a tutti. Manca il suo carisma, manca la sua voce forte, però è anche vero che in EMERGENCY ci sono tante persone, non tanti “Gini”, ma tante persone che si stanno facendo carico di portare avanti il suo pensiero, a partire da sua moglie, Simonetta Gola, direttrice della comunicazione, e dalla presidente, Rossella Miccio, che tra le altre cose sta andando avanti e indietro con il Sudan per interloquire con le parti in guerra per mantenere attivi e rafforzare gli ospedali che abbiamo lì. Io per mia natura sono una che ama buttare fili, intrecciare reti e ho sempre pensato che EMERGENCY, soprattutto quando c’era Gino, fosse un po’ autarchica. Eppure ancora oggi mi meraviglio della sua grande reputazione: le persone riconoscono la nostra presenza, conoscono la nostra azione e ringraziano. Per esempio, da dieci anni operiamo nel nostro Poliambulatorio di Marghera, dove diamo sostegno soprattutto per quanto riguarda l’odontoiatria e l’oculistica. Davamo anche – adesso non ce la facciamo più perché non abbiamo apporti pubblici, siamo in attesa di qualche positiva novità a riguardo – le protesi alla maggior parte dei pazienti che non potevano permettersele. Mi ricorderò sempre, sarà stato il 2018, ero appena arrivata, le parole che mi rivolse una persona: «Ho visto EMERGENCY, voglio entrare e ringraziare anche voi perché mi avete salvato la vita. Il Poliambulatorio di Marghera dopo avermi curato mi ha fatto la protesi e così io ho avuto il coraggio di presentarmi ai colloqui di lavoro, prima non ce l’avevo». La nostra azione è fondamentale anche nei nostri territori. Con il Programma Italia, infatti, abbiamo aperto poliambulatori oltre a Marghera, a Milano, Brescia, Castel Volturno, Napoli, in Calabria, nonché molti sportelli mobili. Altro esempio, durante il Covid, che non potevamo più fare attività aperte al pubblico, mi sono messa d’accordo con la Protezione Civile e facevamo anche noi le spese, le portavamo in giro alle persone che non potevano uscire. Tantissimi ragazzi hanno risposto alla chiamata e sono venuti ad aiutare. Insieme all’associazione La Gabbianella, che si occupa dei minori nelle carceri, abbiamo promosso un progetto con il CAI, sostenuto dalla Regione Veneto, che si chiama Dalla cella alla vetta. Coinvolge i ragazzi che o sono stati all’istituto minorile, o che vengono seguiti dal servizio sociale della giustizia. Questi vengono portati prima in palestra di roccia e poi in montagna ad arrampicarsi, perché raggiungere la vetta è in fondo il massimo della libertà!