Appuntamento a Bugis Street

Il maestro cinese Yonfan a Venezia per il restauro del suo cult
di Loris Casadei, Andrea Falco
  • martedì, 5 settembre 2023

Venezia Classici presenta il restauro di Bugis Street di Yonfan, curato da L’immagine ritrovata e Far Sun Film: la pellicola ritrova la “danza dei colori” tanto cara al Maestro.

Il suo film Bugis Street è pieno di oggetti, asciugacapelli arancioni, ritratti di geishe, di Elvis Presley, Bruce Lee, bonsai, ventagli, pendole a muro. Sono serviti a ricostruire un’atmosfera o hanno un significato nella sua vita?
In questo film, ma in generale anche negli altri, ho voluto creare un mondo prendendo elementi di realtà e elementi di fantasia. Bugis Street è ambientato negli anni Sessanta. Potevo io costruire una replica esatta degli anni Sessanta? Volevo farlo? No. Anche se tutto fosse perfettamente uguale a quel che c’era allora – i vestiti, gli accenti, gli oggetti – sarebbe comunque una ricostruzione, una finzione. Io ho reinventato il passato, il che mi ha dato la libertà di usare quel che volevo nel film, anche se non apparteneva a quel periodo. Ho scelto quegli oggetti perché ci stavano bene. No, Bruce Lee in quegli anni ancora non c’era, ma non mi interessa, perché non è di Bruce Lee che stiamo parlando e i film sono arte. Non sto copiando la realtà e non sto costruendo un falso storico, un finto pezzo d’antiquariato. Sto creando qualcosa di nuovo, qualcosa di originale. L’arte è questo.

BUGIS STREET

BUGIS STREET

Oggi a Singapore la Bugis Street degli anni ‘70 (periodo in cui Bugis Street di Yonfan è ambientato) è tutt’al più un ricordo. La zona è stata riqualificata ed è tornata alla morale; non vi risuonano più le risate provocanti, le voci nervose dei transessuali...

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Abbiamo ammirato i colori, i vestiti violetto, l’abat-jour gialla. Poi il rosa confetto, l’amaranto, il celeste; la stessa notte si tinge di blu. I colori hanno un significato recondito o sono solo artifizi per dare vita alle inquadrature?
Prima di cominciare a fare film facevo il fotografo, dapprima per diletto e poi per professione. Ho imparato da solo. Quel periodo ha formato la mia sensibilità per il colore e per la pellicola. Ho girato Bugis Street in Panavision, un progetto ambizioso perché richiedeva attrezzature speciali che avevano il loro costo. Come pellicola abbiamo usato Kodak. Quanta magia in quella pellicola, quanti strati di colore e di atmosfera uno sull’altro. All’epoca della produzione, nel 1995, non era possibile fare cose del genere in digitale, ma oggi la tecnologia è avanzatissima e riesce a scovare ogni singolo segreto nascosto in quella pellicola. Ho lavorato coi restauratori, sapevano benissimo cosa volevo e di cosa avevo bisogno. Hanno capito cosa intendo con ‘verde’, con ‘rosso’, con ‘giallo’, con ‘blu’. Hanno fatto un lavoro eccellente, sono loro molto grato.
I miei colori devono danzare. In Bugis Street ho girato lunghe sequenze notturne, al chiaro di luna: quindi blu, molto blu con un po’ di giallo quando qualcuno accende la luce, e poi blu di nuovo. È come una coreografia, per i colori. E poi c’è il verde, c’è il rosso, ci sono le tende che danzano con la brezza. Non c’è molto movimento nel film, quindi ho messo della danza ovunque potessi. Ogni scena doveva averne un po’: vento, tende, luci. Il film è una danza continua.

Il film inizia con il pendolo, poi la radio, un ventilatore, la natura con le sue nuvole e gli alberi. Ha mostrato un mondo tradizionale ma alla fine appaiono i grattacieli di Singapore. Quale dei due mondi preferisce?
Quello vecchio, il mio film è un omaggio al mondo da cui siamo usciti. È solo verso la fine che vi accompagno nel mondo nuovo, quello di una Singapore in rapido sviluppo. Pensiamoci: ho fatto un film negli anni Novanta, ambientato negli anni Sessanta, che guarda verso il futuro. La trovo una cosa molto romantica, spero abbia senso!

Nel 1995 la questione dell’intersessualità e dell’identità di genere era tema delicato. La situazione oggi secondo lei è migliorata?
Prima di cominciare a girare, io e il mio produttore siamo stati in riunione col Ministro per essere sicuri di poter mettere in pratica quello che avevamo in mente. Ci è stato detto che avremmo potuto fare le riprese che volevamo, ma che per mostrare il film nelle sale avremmo dovuto passare il controllo della censura. Il bello è che alla fine il film è passato così com’era, senza tagli. Quando l’abbiamo portato a Hong Kong non solo è stato vietato ai minori, ma sono stati fatti anche tre tagli. L’ho scoperto a cose fatte, nessuno ci aveva messo al corrente di questa cosa. Tornando a Singapore, non ci vado da molto tempo quindi non saprei cosa dire, so che una precedente versione digitalizzata è passata al Film Festival di Singapore senza censure, ma questo non dimostra nulla; si sa che i Festival non sono molto toccati dai problemi di censura. Il mondo del cinema è piuttosto libero a Singapore, secondo me. Puoi fare il tuo film, anche se poi dovrai sottoporlo a censura prima di distribuirlo. Il punto è che ogni mercato ha le sue regole, personalmente quando faccio un film non sto lì a pensare alla censura cinese. Loro hanno le loro regole su cosa si può importare, e in fase di importazione le seguirò. Nessuno dei miei film è stato prodotto apposta per la Cina, anche se poi hanno avuto successo anche lì.

Negli ultimi anni abbiamo visto film giapponesi, coreani e soprattutto cinesi di carattere molto nazionalistico, penso a Hidden Blade di Cheng Er, Phantom di Lee Hae-young, Hong Kong 1941 di Leong Po-chih. È un modo per ottenere finanziamenti statali o segna un ritorno del nazionalismo? Anche lei in Jìyuántái qīhào rimanda alle sommosse antibritanniche…
Il cinema è una potente macchina da propaganda. Uno dei motivi per cui il mondo è messo così male, oggi, è che usiamo i media per indottrinare i giovani. Questo crea il peggior caos e penso che usare il cinema per spingere o propagandare idee politiche non sia una cosa corretta. O almeno, credo che il cinema non sia lo strumento corretto per farlo.

Come mai è così difficile distribuire film dall’Estremo Oriente in Europa?
Non lo capisco neanche io, lo considero molto strano. Ad esempio, a me hanno detto che sicuramente i miei film avrebbero avuto successo in Francia. Mi dicevano: «Suonano proprio très français!». Ma i distributori per il mercato francese, cosa dicevano? «Bel film, ma non fa per noi». Che stranezza. Poi, ci sono anche distributori che non piacciono a me. Anche loro mi dicevano che il film era bello, ma sono stato io a dire di no. Mi sa che sono un po’ strano anch’io…

Il suo prossimo lavoro?
Il mio prossimo film sarà su una donna, una pittrice vissuta a Shanghai e amata da tre uomini. Mostrerà Shanghai negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, mostrerà la Cina che cambia, che passa dal capitalismo al comunismo. I miei film non sono poi così leggeri, come qualcuno pensa di me in madrepatria…

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