Forse non l’abbiamo introiettato abbastanza: ma stiamo assistendo a una rivoluzione di portata epocale. E non da ieri. Il cinema prima e le tecnologie immersive ora si confrontano direttamente con i processi immaginativi, che mai sono stati – a dispetto delle intenzioni – mero intrattenimento. Sono co-agenti dell’immaginazione umana. L’intera opera di Craig Quintero, artista e regista di teatro, performance e video immersivi, in concorso con l’esperienza di realtà mista Blur (co-diretta con Phoebe Greenberg), ne è uno dei prodotti più raffinati, perché mantiene attive le istanze più radicali dell’arte performativa – il rituale e la performance come esperienze immersive ante litteram – coniugandole alle più recenti possibilità tecnologiche, tracciando un sentiero chiaro non solo per la propria ricerca estetica, ma anche per le migliori forme di immaginazione mediate dalla tecnologia. Quelle che non obliterano l’umano in nome di un futuribile artificiale, ma sanno integrare, in una rappresentazione esteticamente coerente, l’artificio tecnico nell’esperibile umano. Amplificandolo. In Blur il risultato è tanto tecnicamente sorprendente quanto artisticamente dirimente.
Già il tema, quello della clonazione, intercetta quello più profondo del superamento dei limiti umani e quello psicologico del doppio. Immersi in un labirinto inizialmente concreto, del tutto contiguo agli ambienti in cui siamo abituati a muoverci nell’opera del regista americano di stanza a Taipei e perfettamente coincidente con l’ambiente virtuale in cui ci ritroviamo, una volta indossati i visori ci spostiamo camminando lungo corridoi, a bordo di ascensori o attraverso passaggi via via più profondi e astratti, fino a ritrovarci di fronte al nostro doppio, come fossimo nella sequenza finale di 2001: Odissea nello spazio. Basterebbe questo susseguirsi di labirinti e scatole “quinteriane” per assorbire tutto il senso di un’opera formalmente grandiosa e concettualmente alta, forse un po’ compressa nella parte centrale dalla vicenda della scomparsa e successiva clonazione immaginata – eppure così realistica! – di un bambino. La dimensione narrativa non era così necessaria, anche se certo funge da àncora semantica per il fruitore che altrimenti nel labirinto potrebbe perdersi. Invece dal labirinto tecnopoetico di Quintero e Greenberg si esce, ritrovandosi alla fine del rituale scossi e mutati, ma di nuovo integri, restituiti a noi stessi e alla nostra umana unicità.
BLUR
di Craig Quintero e Phoebe Greenberg (Canada, Taipei, Grecia, 50’)
IN CONCORSO