Ancora, oggi

Al Rossini, la Biennale fa rivivere alcuni grandi Classici
di Giorgio Placereani

Classici Fuori Mostra porta sullo schermo capolavori del passato restaurati, lezioni da imparare più attuali che mai.

Se il destino dei classici del cinema è in gran parte di essere visti sui teleschermi o sui monitor, magari in copie non adeguate, per fortuna esistono i restauri per il grande schermo. Il 14 febbraio parte a Venezia, al Multisala Rossini, la quinta edizione di Classici Fuori Mostra. Festival permanente del cinema restaurato, organizzata dalla Biennale di Venezia in collaborazione col Circuito Cinema del Comune e i docenti di cinema dell’Università Ca’ Foscari e dell’Università IUAV. La rassegna, che si conclude il 15 maggio, presenta a cadenza settimanale undici grandi film restaurati. Il film che apre la rassegna, presentato da Stefano De Bosio, Maria Ida Baggi, Giuseppe Ghigi e Marco Borghi, è Il terrorista di Gianfranco De Bosio, 1963, sceneggiato da De Bosio con Luigi Squarzina. Questa storia di partigiani si svolge in un’inusuale ambientazione a Venezia, che ne sfrutta con abilità gli angoli, i passaggi, l’identità di città che è insieme di terra e d’acqua, nella fotografia di Alfio Contini e Lamberto Caimi. Il protagonista (Gian Maria Volontè), fondatore di un GAP, propugna una linea di attentati che il CNL locale disapprova. Il film ha una buona forza drammatica, benché mostri un’impostazione di tipo teatrale in alcune scene, e a volte nel linguaggio compaia una sfumatura di nitore letterario. Ha una coraggiosa originalità nel suo affrontare le divisioni tattico-politiche all’interno della Resistenza, al contempo riflettendo sul problema personale dell’individuo che si osserva, con una sorta di spavento, di fronte alla necessità della violenza.

Quest’anno è il centenario della nascita di Gianfranco De Bosio, grande regista teatrale che fu il primo a portare in scena Brecht nel 1953. Il suo nome è legato a quello del Ruzante, che mise in scena con successo e che portò al cinema nell’interessante esperimento de La Betía, ovvero in amore per ogni gaudenza ci vuole sofferenza, del 1971. Il 21 febbraio si potrà vedere Blow Out (1981) di Brian De Palma, introdotto da Sara d’Ascenzo. Blow Out è per l’orecchio quello che Blow-Up (Antonioni, 1966) è per l’occhio: in entrambi i casi non i sensi ma piuttosto le loro riproduzioni meccaniche. Se in Blow-Up il protagonista era un fotografo, in Blow Out è un tecnico del suono (come il protagonista de La conversazione di F.F. Coppola). In De Palma come in Antonioni c’è alla base l’inconsistenza delle tracce e della realtà. Se Antonioni declina questo concetto sul piano metafisico della conoscenza, De Palma, seguace di Hitchcock, lo declina nella forma del thriller politico (nel punto di partenza, un’auto finita in un fiume dove muore un candidato alla Presidenza mentre si salva la ragazza che era con lui, si vede un ricordo a parti invertite del famoso incidente che costò a Ted Kennedy la corsa alla Presidenza). Il 28 febbraio, il terzo appuntamento è con lo stupendo Il grido (1957) di Michelangelo Antonioni, introdotto da Adriano De Grandis. Il grido porta il dolore esistenziale antonioniano in un ambiente proletario: un operaio, dopo la delusione ricevuta dalla donna che voleva sposare, e con cui ha avuto una figlia, vaga senza meta nella zona del delta del Po. Senza accettare l’accaduto, si rinchiude sempre più in se stesso, incontrando altre donne con cui non gli è concesso di legare. L’evidenza del suo dolore inespresso si sovrimprime su un paesaggio indifferente, tutto acqua e rami spogli (memorabile la fotografia di Gianni Di Venanzo), fino al tragico finale.

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