Dalle terre aborigene dell’Australia la compagnia Marrugeku approda a Venezia con Jurrungu Ngan-ga – Straight Talk (parlare chiaro) per la Biennale Danza di Wayne McGregor. Abbiamo incontrato le co-direttrici e coreografe Dalisa Pigram e Rachael Swain.
Le popolazioni autoctone australiane non avranno una letteratura scritta, ma posseggono una ricchissima mitologia e una complessa tradizione orale, con al centro la creazione del mondo, la venerazione della terra e il rispetto delle sue creature, rese perfettamente nelle Dreamtime e nelle Songline, spesso con accompagnamento musicale. Tipico il didgeridoo, strumento musicale a fiato ad ancia labiale, tra i primi strumenti aerofoni. Oltre 400 le lingue accertate prima dell’invasione britannica. Il Serpente Arcobaleno, che vive nella Via Lattea, ma anche nelle profondità dei fiumi australiani, non ha potuto salvarli da centinaia di anni di sopraffazione, furti di territorio, incarcerazioni e sottrazione dei figli per incanalarli nella cultura bianca. Solo nel 2008 il Governo australiano ha formalizzato le prime scuse ufficiali per la cosiddetta “stolen generation”, o “generazione rubata”.
Il gruppo Marrugeku è partito proprio da qui per favorire la rinascita della Storia e della cultura indigena, delle lingue originarie e della sua ritualità. Le performance di danza che il gruppo crea nascono dalla valorizzazione del passato per creare un nuovo presente e, mescolando danze rituali e urban dance, sono tese ad eliminare la paura del diverso, delle differenze culturali. I sentimenti che suscitano sono contrastanti, scatenano nell’animo tristezza e rabbia, resilienza e gioia. A Venezia vedremo Jurrungu Ngan-ga – Straight Talk (parlare chiaro), complessa performance che da un lato vede la collaborazione di numerosi artisti di diversa estrazione e dall’altro contiene un esplicito rimando e un sentito ringraziamento agli anziani dei villaggi per il loro deposito di conoscenza e sapere, per la preziosa trasmissione della loro memoria. Li abbiamo intervistati, “li”, al plurale, perché, nel rispetto del pluralismo del gruppo, le risposte ci sono giunte da due delle fondatrici della compagnia, Dalisa Pigram, regista e drammaturga di teatro-danza transdisciplinare e interculturale, co-direttrice di Marrugeku, e Rachael Swain, danzatrice e coreografa. Pigram e Swain lavorano insieme dal 1994: hanno ideato e promosso le produzioni e i laboratori di ricerca di Marrugeku, avvicinando il pubblico australiano e internazionale allo straordinario bagaglio di conoscenza delle popolazioni indigene attraverso l’avvincente esperienza della performance interculturale.
Grazie per le risposte, per lo spettacolo e per il lavoro che stanno svolgendo per l’umanità tutta.
Jurrungu Ngan ga è un’installazione, una danza, una coreografia che ci parla di reclusione, separazione, annientamento dell’altro. Lo spettacolo offre al pubblico la possibilità di estrapolarne un elemento narrativo oppure si limita a coinvolgerlo sul piano esclusivamente emotivo?
R.S. Marrugeku lavora da anni all’elaborazione di un processo coreografico dove i ballerini creano una danza gestuale che percepiamo come una rivendicazione di un espressionismo emotivo da parte della danza. Si tratta di un neo-espressionismo al contempo culturale e politico, che nella danza indigena assume un significato di “responsabilità”, in quanto mette a confronto la danza con la vivacità del momento e la specificità spazio-temporale. Ma ci ispiriamo anche al teatro danza europeo del Dopoguerra, oltre che all’immensa eredità lasciata da Pina Bausch, dando così l’opportunità ai nostri artisti di esprimersi attraverso le loro culture, le loro storie e le loro diverse identità incarnate nelle performance da condividere con il pubblico. Poniamo particolare attenzione sull’aspetto drammaturgico, i suoni e le luci per ‘curare’ l’esperienza del pubblico sia a livello emotivo che a livello politico, in modo da facilitarne la consapevolezza cognitiva. In estrema sintesi, lavoriamo con tutto ciò che il teatro e la danza sono in grado di offrirci in diversi modi e nelle varie fasi dello spettacolo.
Lo spettacolo offre una coreografia articolata e complessa, una fusione armoniosa tra urban dance e danze delle comunità locali. Ci può raccontare le fasi di costruzione del progetto e quale è stato il contributo dei danzatori?
D.P. Uno spettacolo quale Jurrungu Ngan-ga richiede una collaborazione con un incredibile gruppo di artisti disposti a intraprendere un percorso in cui le proprie esperienze di movimento individuali, i diversi background culturali e le posizioni politiche personali riguardo l’ingiustizia, svolgono un ruolo nodale nel contribuire a generare il materiale coreografico grezzo. La complessità della coreografia riassume proprio questa diversità nonché la resilienza e la forza collettiva condivisa dall’intero cast. Alcuni danzatori sono stati invitati a collaborare a questa produzione in quanto appartenenti alla compagnia già da tempo, mentre altri hanno collaborato per la prima volta con noi proprio per questo spettacolo. Consideriamo molti di questi artisti leader nella loro pratica e nella loro forma d’arte, che qui portano in scena il loro vissuto per dare voce a chi non ha la possibilità di farsi sentire. Il nostro processo comprende anche la condivisione di compiti che ruotano attorno alle idee centrali di Jurrungu Ngan-ga, come la “paura delle differenze culturali”, mentre altri compiti potrebbero essere maggiormente orientati verso la ricerca di una qualità coreografica mancante, come “le bollicine sotto la superficie” o le “bollicine di champagne”. Ogni danzatore ha risposto in maniera del tutto personale basandosi sul proprio allenamento e bagaglio culturale, nonché sulla propria esperienza e conoscenza dell’argomento, nella co-realizzazione della performance stessa.
Il nome Marrugeku sembra riferirsi ad una persona esperta, un saggio che può dare consigli e curare. Ne è un esempio lo spettacolo sui rischi climatici Cut the Sky. La vostra compagnia ha una missione esplicita o condivisa?
R.S. La missione della compagnia si può riassumere nel modo seguente: «Marrugeku persegue nuove forme di conoscenza culturale oltre a tutelare la sopravvivenza, la conservazione e la crescita della storia, della danza e del linguaggio indigeni attraverso la realizzazione di nuove performance interculturali. Siamo impegnati a lavorare e a creare partendo dai valori, dalle responsabilità e dall’autorità culturale di specifici ambiti indigeni che stanno alla base di ogni nostro progetto. È in questo modo che affrontiamo argomenti come il cambiamento climatico o la detenzione dal punto di vista dei depositari indigeni locali, o che lavoriamo in qualità di artisti di varia provenienza e formazione per interpretare nel massimo rispetto il processo cognitivo attraverso l’arte. Crediamo nell’arte in quanto strumento in grado di apportare un cambiamento al di là dei confini molto più velocemente e direttamente di qualsiasi azione governativa. Attraverso l’arte vogliamo raggiungere una condivisione delle conoscenze, ma anche consentire agli artisti della compagnia di ritornare a lavorare nelle rispettive comunità».
La lingua Yawuru è stata reintrodotta nelle aree di uso ancestrale e i bambini oggi imparano nomi di piante ed animali da lungo caduti nell’oblio. Vi è una qualche affinità con ciò che sta accadendo a Banglatown a Londra? Proprio mentre la comunità bengalese sta ottenendo un riconoscimento ufficiale, i bengalesi più giovani oramai integrati lasciano la comunità. In altre parole si può affermare che il desiderio d’integrazione annulli la necessità di mantenere vive le identità nazionali e tradizionali?
D.P. Qui nella città di Broome, nel paese Yawuru, le politiche di assimilazione adottate in passato hanno avuto un impatto significativo sulle lingue indigene, tra cui appunto lo Yawuru, nonché sulla cosiddetta “stolen generation”, i cui bambini venivano forzatamente allontanati dalle loro famiglie, sottratti al loro paese, alla loro lingua e cultura; tutto ciò ha avuto una notevole ripercussione anche sulle generazioni future. La rinascita delle nostre lingue e la rivendicazione del titolo nativo sulle nostre terre hanno consentito di restituire il popolo Yawuru al proprio paese d’origine, dandoci la possibilità di esprimere la nostra opinione su ciò che succede nei luoghi di cui siamo stati i custodi indiscussi sin dagli albori dell’umanità. Le nuove generazioni corrono il rischio di allontanarsi da questo per tutta una serie di ragioni sociali, diretta conseguenza di quelle politiche che abbiamo menzionato prima. Per la nostra comunità Yawuru è tuttavia di vitale importanza cercare di ristabilire un legame tra le giovani generazioni e la cultura locale per far sì che si sentano responsabili ed orgogliosi della propria identità e che sviluppino così un rinnovato senso di appartenenza. A Broome convivono molti gruppi linguistici indigeni e gruppi linguistici appartenenti all’Asia, vedi le comunità giapponesi, cinesi, malesi e filippine. I matrimoni misti esistono nonostante fossero proibiti in passato. L’identità culturale di Broome è unica nel suo genere proprio per questi motivi ed è un esempio evidente dell’eterogeneità culturale che avrebbe caratterizzato l’Australia se la politica dei bianchi non si fosse imposta in maniera così totalizzante. Una politica che non ha interessato Broome e le isole dello stretto di Torres per la presenza dell’industria delle perle e del fabbisogno di pescatori di perle asiatici. Il profondo legame tra queste famiglie e i gruppi linguistici indigeni presenti nella regione rafforzano il desiderio di mantenere salda la nostra identità locale.
Nel 1968 l’antropologo W.E.H. Stanner coniò il termine “The Great Australian Silence”, sostenendo che vi era una sorta di “culto dell’oblio”, ovvero una tendenza a dimenticare la storia del conflitto tra colonialisti europei e popolazioni indigene, che veniva relegata ai margini della storia nazionale. Marrugeku intende proseguire nel solco del lavoro di Stanner o si muove seguendo significativi distinguo?
R.S. Questa importante affermazione di Stanner si riflette in molti contenuti che trattiamo nelle nostre produzioni artistiche. La ricerca di Marrugeku è incentrata sulla mancanza di conoscenza e sull’impreparazione a comprendere da parte degli australiani non indigeni. Con il nostro lavoro vogliamo infrangere quel silenzio e colmare le lacune che ha provocato promuovendo una conoscenza specifica della nostra nazione, rivelando la verità sulla nostra storia e sulla nostra esperienza contemporanea, in modo che questo silenzio, questo gap, si trasformi in un ricco e complesso processo d’interazione con la nostra identità di australiani, qui ed ora, ricucendo e consolidando i legami con il passato e il futuro.
Uno dei pilastri della cultura locale è la negazione della proprietà privata per quanto riguarda i terreni, espressione di una disposizione altra verso i temi scottanti dell’ecologia e della salvaguardia della natura. Oggi ci troviamo di fronte a disastri naturali quotidiani di proporzioni impensabili, basti pensare a ciò che sta succedendo nella foresta amazzonica. Come affrontate questo tema nelle vostre produzioni artistiche?
D.P. Gran parte della nostra produzione, dei nostri progetti costituiscono un’indagine sul rapporto con la nostra terra natia dal punto di vista della popolazione indigena e non. In quanto donna Yawuru/Bardi sono perfettamente cosciente di avere delle responsabilità riguardo alla salvaguardia della mia terra anche da un punto di vista ecologico. Considero la mia terra come la mia famiglia. Questo senso di responsabilità deriva dalla strenua volontà di voler e saper trasmettere da una generazione all’altra una profonda conoscenza di tutto ciò che è in qualche modo connesso alla nostra condizione, alla nostra identità, perseguendo tenacemente un’idea di equilibrio nella tutela dell’ambiente. Per le popolazioni indigene la salvaguardia del territorio a livello locale e nazionale, il rispetto e il valore del sapere e dell’esperienza indigeni hanno costituito sin dall’inizio della colonizzazione la principale fonte di preoccupazione. Abbiamo assistito alla distruzione delle nostre terre e dei nostri corsi d’acqua che sono stati selvaggiamente sfruttati da un sistema economico che non ha preso minimamente in considerazione la vita delle popolazioni autoctone, né le conseguenze a lungo termine di queste azioni. Abbiamo dedicato interi progetti a questo problema, come per esempio il nostro laboratorio Listening To Country, in cui gli artisti hanno sperimentato dei processi coreografici in connessione a luoghi specifici nella regione di Kimberley. Partendo da questa esperienza abbiamo poi realizzato Cut the Sky, in cui vengono prese in considerazione le conseguenze derivanti dalla scellerata scelta di ignorare la voce della propria terra. Questa produzione è stata realizzata proprio quando l’intera regione era minacciata da un imponente processo d’industrializzazione in seguito alla proposta di costruire un impianto di produzione di gas a Walmadany, noto anche come James Prices Point, a Nord di Broome, in un ambiente incontaminato di rilevante importanza culturale. Vi sono molti altri esempi di questo tipo che è impossibile ignorare. Io e Rachael siamo pienamente consapevoli dell’importanza di individuare l’ambito in cui il nostro lavoro è più necessario e di quanto sia fondamentale condividere tutto ciò che il sapere indigeno può insegnarci su come mantenere un certo equilibrio per una migliore coesistenza.
* immagine in evidenza: Dalisa Pigram e Rachael Swain