Se un orinatoio è una fontana, un muro è una tela. Al pari di Duchamp, ma con maggiore risonanza mediatica, Banksy ha riscritto le regole di quell’espressione umana che chiamiamo arte.
Al pari di Duchamp, Banksy opera nel solco della dislocazione. Ma lo fa invertendo i fattori, non tanto decontestualizzando gli oggetti, spostandoli nel territorio e negli spazi dell’arte, piuttosto risemantizzando i luoghi, cui la sua opera resta irrimediabilmente legata, mutandoli in fenomeni artistici. Per questo ogni suo murale sradicato dal contesto perde di senso. Ogni museificazione della sua opera, viva e attuale, risulta vana: un’ulteriore e paradossale dislocazione che finisce per depotenziare la carica sovversiva di un’espressività indomabile, mutevole, fantasmatica, clandestina, illegale. Partiamo da qui, dall’evanescenza dell’uomo dietro Banksy.
La sua firma è la semplice rivendicazione sul suo profilo Instagram della paternità del gesto
Poco importa se qualcuno sospetta o sa con certezza chi c’è sotto il cappuccio dello street artist più celebre al mondo, è il gioco con il proprio anonimato a valere. Banksy scompare, ma appare sempre nei luoghi che sceglie come tela, come spazio della rappresentazione, con una riconoscibilità indubitabile. La sua firma è la semplice rivendicazione sul suo profilo Instagram della paternità del gesto. C’è tutto, in Banksy, troppo spesso relegato a paladino del ribellismo giovanilistico e invece artista della stessa levatura di Duchamp o Warhol. Presenti in filigrana in ogni suo gesto, in ogni sua opera. Seguendo Duchamp, Banksy prosegue l’azione di intenzionale svilimento del fatto artistico in senso critico e rifondativo. Fu per primo Duchamp a inserire in un museo, come atto di denuncia rispetto a ogni preziosismo artistico, l’oggetto comune. Ogni mostra una provocazione, un atto d’accusa al sistema delle arti. Ogni oggetto duchampiano volutamente vile e riproducibile, reso unico dalla sola intenzione dell’autore. E poi Warhol, che ha spinto l’acceleratore sul riverbero mediatico, che nei Sessanta aveva inghiottito il mondo restituendone una copia alterata, inautentica per statuto, riproducibile per destino. Warhol ha fatto proprio il sistema dei mass media esploso nel secondo dopoguerra e lo ha adoperato come veicolo e linguaggio della sua arte.
A seguire, Banksy. Che sul finire degli anni Novanta porta il discorso iniziato da Duchamp ancora più avanti. Sfidando tanto il sistema delle arti, quanto le leggi della società dello spettacolo, per tornare ai luoghi, per rivendicare nell’anonimato fisico la pregnanza, l’unicità del gesto, del momento. Il destino dell’opera di Banksy, accanto alla viralità sui social, strumenti di rimandi estetici soggettivi ma tragicamente impersonali, è l’esproprio, la sottrazione indebita di stralci di muri, di cocci, di frammenti di superfici, di oggetti, di quadri che si autodistruggono, di aste, di ruberie. La vocazione di Banksy è l’illegalità, l’apolidismo, l’evanescenza e una riconquistata unicità. Perché nella street art – e nella sua in particolare – è l’irripetibilità dell’atto a dare fondamento e coerenza estetici al segno.
Un segno destinato a scomparire col tempo, a deperirsi col luogo, sotto gli sguardi dei passanti, o a vivere moltiplicato sui social, dove lascia una traccia perpetua e incorporea. Sui muri resta icastico. Svoltato l’angolo, dietro Campo San Pantalon, Migrant Child, apparso nel 2019 e lambito dalle acque del canale, consegna agli occhi del passante la crasi tra l’affondamento di Venezia e i terribili annegamenti dei migranti nel nostro Mediterraneo. Perché in Banksy l’individuale è collettivo e la sua opera è esposta all’erosione degli elementi, con cui sa giocare. Vive nella corruzione del tempo. E lì muore, se deve morire. Ne è un esempio la recente chiusura del suo spazio a Betlemme, il Walled Off Hotel, galleria-hotel sorta nel 2017 di fronte al muro che separa Israele dai territori palestinesi e che ospita diverse opere dell’artista. Chiuso per bombe. Ed è così che l’opera di Banksy diventa significativa, radicandosi al tempo e al luogo che le hanno permesso di conquistare lo status dell’arte. Rimanendone fuori.