Tensione epica

L'Attila di Verdi dal 16 al 24 maggio per la Stagione della Fenice
di Nicolò Ghigi

Un’opera da tempo assente dal palco di Campo San Fantin torna per un nuovo allestimento.

L’Attila di Verdi torna dopo alcuni anni – con un nuovo allestimento di Leo Muscato – sulle scene della Fenice, teatro in cui esordì nella primavera del 1846; d’altra parte, questa è forse l’opera più “veneziana” del maestro di Busseto, non solo per la suddetta prima rappresentazione – che fu peraltro un insuccesso, si dice per l’inadeguatezza degl’interpreti, benché vi figurasse come Attila il Marini – ma perché si apre con i profughi che, costretti a fuggire da Aquileia caduta in mano agli Unni, trovano rifugio a Rivo Alto, tra le isole della laguna veneta, dove di lì a poco sarebbe sorta Venezia, unica fugace apparizione della città nell’intiera produzione verdiana. Il libretto s’ispira al dramma Attila Re degli Unni (1809) del predicatore tedesco Zacharias Werner, e fu proposto a Verdi da Temistocle Solera. Il compositore lo accolse con entusiasmo, e in alcune sue lettere si disse particolarmente affascinato dalla statura tragica dei personaggi e dalla tensione epica della trama, ma chiese nondimeno a Francesco Maria Piave di apportare alcune modifiche al testo, suscitando peraltro lo sdegno del Solera, ormai in esilio volontario a Madrid per scampare ai debiti. Le vicende storiche alla base dell’opera – narrate da molti autori antichi – sono ben note: la calata degli Unni guidati dal loro re Attila nel 451, per saccheggiare le ultime vestigia dell’Impero d’Occidente; la distruzione di Aquileia, Altino e Concordia; l’ambasciata guidata da Papa Leone I, la cui figura impressiona il condottiero barbaro e lo convince a desistere da ulteriori razzie; e infine la morte per avvelenamento di Attila durante un banchetto. Attorno a tali fatti s’intrecciano le vicende di Foresto, cavaliere aquileiese alla testa dei rifugiati che sogna la vendetta; sua moglie Odabella, fatta prigioniera e corteggiata da Attila, medita pur ella la morte del tiranno.

La trama si dipana nei tre atti senza colpi di scena, punteggiata dai monologhi dei protagonisti maschili: Ezio con le sue cabalette epicheggianti, Leone con le sue solenni invocazioni che uniscono la patria al volere dell’Eterno, Attila stesso con il suo cupo rimuginare che lo porta alle soglie del deliro. Sin dalla scelta dell’argomento e dalle sue decadenti atmosfere medievali, dunque, l’opera è un prodotto squisitamente romantico, uscito dalla penna di un poeta dichiaratamente romantico e musicato da un compositore che incarna gli ideali del romanticismo in Italia. Fulcro dell’azione è l’assassinio del tiranno, che assume proporzioni epiche; Odabella figura quale novella Giuditta; la sorte infelice della patria è ripetutamente evocata con richiami strazianti, soprattutto nel prologo e verso la fine del terzo atto. Nella mente del pubblico di allora, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, certe immagini, così come le parole con cui Ezio propone un accordo ad Attila nel cupo duetto del prologo (“Avrai tu l’universo / resti l’Italia a me”), non potevano non essere intese come un accenno patriottico alla situazione politica di allora. L’Attila è meno celebre di altre opere verdiane, forse anche la meno impressionante dal punto di vista musicale tra quelle composte nella giovinezza del maestro: già presso i contemporanei suscitò perplessità, come quella del Casamorata che la definì mordacemente “l’apogeo del cabalettismo”, e nemmeno la critica successiva fu più generosa (Budden la bollò come “la più pesante e noiosa delle opere del Risorgimento”). Nondimeno, è difficile non apprezzare la grandiosità di certe scene, la monumentalità del linguaggio drammatico particolarmente nei movimenti d’insieme: un’oratoria musicale che, se pur a tratti eccessivamente pomposa, non manca di coinvolgere lo spettatore, e affascinare soprattutto quegli ch’è in grado di leggere l’opera nel suo contesto, di cogliere le aspirazioni romantiche che da essa trasudano, e di figurarsi persino quel pubblico risorgimentale che, nel trasporto titanico degli eventi narrati, a certi accenni si lasciava andare al delirio e alle accorate grida che le cronache ci restituiscono: «L’Italia a noi! Viva Verdi».

Foto in evidenza: Michele Crosera

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