I registi Ila Bêka e Louise Lemoine raccontano i retroscena di Rehab (From Rehab). Vincitore dello scorso Venice Architecture Film Festival, il documentario parla di architettura, corpi e design universale.
Rehab (From Rehab) dei registi Ila Bêka e Louise Lemoine è un documentario sull’architettura, sui corpi e sul design universale. Vincitore dell’edizione 2024 del Venice Architecture Film Festival, il film intreccia una sequenza di ricordi traumatici e personali – Louise Lemoine ha trascorso gran parte della sua infanzia con il padre gravemente disabile in vari centri di riabilitazione – con una struttura di riabilitazione di Basilea, un edificio iper-moderno che offre trattamenti specializzati per disabilità fisiche e neurologiche. Rehab indaga la relazione tra architettura e salute, esplorando la dimensione emotiva, oltre che funzionale, dei luoghi di cura e riabilitazione.
Quando gli architetti Herzon & de Muron ci proposero di girare un film in un ospedale di riabilitazione a Basilea, ho vissuto la cosa come una vera e propria sfida. Mi sentivo pronta ad affrontare le memorie emotive di quanto avevo vissuto con mio padre.
Produrre Rehab deve aver rappresentato per lei un intenso viaggio emotivo, con un continuo, circolare percorso di andata e ritorno tra tempo presente e memoria attraverso riflessioni personali sul tema della riabilitazione e degli spazi dove questa avviene. In che modo l’architettura e la forma di questi spazi ha condizionato il suo senso di sicurezza, di agio, di guarigione nel pieno della sua infanzia? Quali elementi architettonici hanno segnato la sua esperienza?
Louise Lemoine_Questo film è molto particolare rispetto a tutti gli altri che abbiamo realizzato. Sono molto legata a questo progetto perché è entrato in forte risonanza con la mia storia personale. Quando avevo circa dieci anni mio padre venne coinvolto in un tragico incidente. Visse nei dieci anni successivi dentro e fuori dagli ospedali. Quindi il mondo degli ospedali e il tema della cura delle persone vulnerabili divenne il mio stesso mondo, accompagnandomi fino ai miei primi vent’anni. Quando gli architetti Herzon & de Muron ci proposero di girare un film in un ospedale di riabilitazione a Basilea, ho vissuto la cosa come una vera e propria sfida. Mi sentivo pronta ad affrontare le memorie emotive di quanto avevo vissuto con mio padre; ero estremamente interessata a ripercorrere attraverso un progetto “terzo” questa mia personalissima esperienza, anche se va detto che l’ospedale e il tipo di ospedali in cui sono stata con mio padre erano molto diversi da strutture eccellenti quale quella mostrata nel film. È stata un’opportunità unica per rivivere vecchi ricordi, anche se questo ospedale, ripeto, rappresenta un’eccezione da molti punti di vista: per l’architettura certamente, ma anche e soprattutto per la visione che informava l’operato del suo ex direttore, il quale ha voluto creare un centro olistico non solo attraverso gli spazi da offrire ai pazienti, ma ancor di più attraverso la qualità innovativa delle cure messe in atto. È questo il motivo per cui sono stata così colpita da questo luogo. Ritengo infatti che globalmente la maggior parte delle persone che hanno dovuto fare riabilitazione non abbiano avuto la fortuna di vivere la stessa esperienza. È questa quindi la ragione per cui è stato interessante girare il film in questo ospedale, assecondando l’obiettivo di farne un possibile modello per migliorare le altre strutture che perseguono le medesime finalità. Il tutto concentrandoci non solo sulla qualità delle cure e della tecnologia lì utilizzate, che un ospedale dovrebbe sempre tenere aggiornate, ma più estesamente su quella che dovrebbe essere l’idea, la modalità attraverso le quali prendersi cura di un essere umano a tutto tondo.
Penso all’idea che chiunque di noi ha degli ospedali, a certe caratteristiche architettoniche che li rendono orribili. Per cominciare si pensa a questi istituti come a meccanismi di mera efficienza. Macchine invece di spazi, che hanno bisogno di gestire livelli altissimi di igiene, stress, circolazione, ragione per cui risulta indispensabile razionalizzare al massimo la funzionalità delle superfici destinate all’operatività. In un centro riabilitativo queste funzioni risultano meno urgenti, vi sarebbe quindi più spazio libero. Nei miei ricordi d’infanzia, però, ci sono una serie immagini di luoghi sterili, per luci e colori, e di corridoi, corridoi lunghissimi, attraverso i quali sembra di entrare in una burocrazia infernale. Quell’incubo è lo stesso di quando si va all’ufficio delle imposte o anche, per l’appunto, negli ospedali. La linea narrativa del film intende mostrare come, quando si entra a far parte di questo processo, a causa dell’elevato numero di persone che un ospedale deve gestire, ci si sente più un numero fra tanti che una persona. Gli ospedali in un certo senso disumanizzano, insomma, a partire dalle loro dimensioni estese ed asettiche. L’ospedale riabilitativo di Basilea, viceversa, è un luogo piccolo, con appena un centinaio di pazienti. Quando si ha a che fare con poche persone potenzialmente si hanno maggiori possibilità di individuare diversi modi di lavorare col paziente proprio in quanto persona, in quanto individuo in sé e per sé irripetibile.
Lo spazio ha un ruolo importante nel formare la nostra idea di cura. Rehab indaga su come diverse tipologie di centri di riabilitazione possano differentemente valorizzare la dignità, il tratto umano dei propri pazienti. In che modo può l’architettura influenzare il modo in cui percepiamo la disabilità e in generale l’idea di possibile guarigione? Il vostro documentario si concentra su una struttura altamente moderna che ospita circa cento pazienti: ma come poter operare equivalentemente in strutture dai numeri nettamente più elevati?
Non so dare una misura certa di quanto l’architettura giochi un ruolo nel nostro modo di percepire la disabilità. Sicuramente molte delle persone ricoverate in queste case di cura possono essere aiutate dall’architettura degli spazi che li ospitano nella vita di tutti i giorni, perché detti spazi possono essere più o meno difficili da usare, da vivere, a seconda di come sono costruiti. L’architettura può certamente, quindi, elevare la qualità di una vita già complicata di suo attraverso soluzioni funzionali semplici ed incisive, permettendo, per esempio, di muoversi agevolmente quando si usa la carrozzina o si è ciechi. Quale che sia la disabilità, risulta fondamentale progettare al meglio queste pratiche, queste funzioni che sono di vera, effettiva inclusione. Ogni edificio di nuova costruzione deve essere accessibile e facilmente vivibile. Si sta lavorando in questa direzione con sempre maggiore impegno e lucidità, tuttavia siamo ancora solo all’inizio di questo cruciale processo. Abbiamo prodotto molti film al cui centro vi sono persone che vivono con disabilità varie e tutte, costantemente, ci hanno confermato quanto sia estremamente difficile per loro muoversi negli spazi urbani, in città. Quando si parla di un edificio, si tratta di un luogo molto specifico su cui si possono compiere interventi diretti come ascensori o rampe, ma quando si deve considerare una città intera le cose cambiano.
Abbiamo vissuto a Roma per cinque anni; viverci è incredibilmente difficile per chi usa la carrozzina. Il problema è rappresentato in primis proprio dalla specifica, complessa forma della città, ma un ruolo nocivo lo gioca senza dubbio alcuno la diffusa mancanza di percezione, di comprensione comune verso un certo tipo di bisogni: la gente parcheggia sui marciapiedi, sulle strisce pedonali… Vi è un deficit culturale a riguardo che risulta ancora più nefasto in un sistema urbano di per sé complicato. Portavamo in giro il nostro Adrian sul passeggino e ci rendevamo davvero conto di quanto potesse essere difficile Roma, per non parlare di Venezia! Il dato culturale, civico direi proprio, è davvero decisivo nel connotare la disposizione di una collettività verso questo tipo di problemi. La visibilità delle disabilità è molto differente da paese a paese, questo è sicuro. E però anche quando incoraggiamo una presa di coscienza, un senso di attenzione globale a riguardo, il più possibile comune in ogni dove, registriamo una diffusa tendenza a nascondere la disabilità, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Affrontare la vulnerabilità è una questione complessa, una questione di grande scala, quindi più che da risolvere a livello meramente architettonico va affrontata sistemicamente a livello urbanistico.
Il cinema, i film hanno il potere di evocare, intrattenere, commuovere, ma anche di farci riflettere sulle mille complessità della vita. Visti i problemi che le strutture sanitarie in tutto il mondo devono affrontare e alla luce di come e quanto debbano adattarsi ai nuovi bisogni della società (popolazione che invecchia, sovraffollamento, risorse limitate, nuove terapie…), qual è a suo avviso il problema più urgente da affrontare a riguardo da un punto di vista architettonico? Ci sono in questa direzione cambiamenti o innovazioni che lei spera presto di vedere concretamente realizzate, in particolare per quel che riguarda i luoghi di cura dai grandi numeri?
Anche se non sono una architetta professionista, men che meno specializzata in ospedali, quello che abbiamo cercato di mostrare in Rehab è come il centro di Basilea possa rappresentare davvero un modello cui ispirarsi per il futuro di questi specifici centri di cura. Gli architetti e tutta la squadra del centro di riabilitazione hanno lavorato avendo ben chiara l’idea che qui si tratta di considerare la cura non tanto e non solo come un’attività volta al recupero migliore possibile di un corpo afflitto da un particolare malfunzionamento meccanico, quanto di uno sforzo scientifico che ponga al centro del suo operato l’essere umano nella sua interezza, ben al di là della specifica disabilità di cui è portatore. Va compresa la condizione psicologica del paziente, quindi l’influenza che su di lui produce l’ambiente in cui si trova a vivere, la professionalità, ma ancor di più l’attenzione, la gentilezza del personale. In questo ampio orizzonte certo la qualità dell’architettura conta, eccome. Il centro di riabilitazione mostra qualcosa che le altre strutture hanno dimenticato: l’impatto psicologico ed emotivo dell’architettura, ovvero quanto possa influenzare la vita delle persone dare importanza ad alcuni aspetti immateriali dell’architettura, invece di concentrarsi solo su questioni di funzionalità. Il modo in cui si progettano gli spazi, la scelta delle luci, delle aperture, degli elementi naturali da accorpare nell’edificio oltre a quelli puramente minerali: tutto ciò fa la differenza. Si tratta spesso di scelte anche piccole e però decisamente connotanti un ambiente, rendendolo più prossimamente umano, vivibile. Quando pensiamo a un ospedale abbiamo in mente spazi amministrativi, linee lungo il pavimento, indicazioni ovunque. A Basilea non ci sono questi elementi; i pazienti vengono accolti in un luogo che non sembra affatto un ospedale, perché privo dei classici stilemi “da ospedale”. C’è un giardino, ci sono alberi, scorre l’acqua. Non si percepisce di trovarsi in un edificio burocratizzato: è un luogo che guarda agli elementi naturali, il che già di per sé porta pace e benessere.
Naturalmente realizzare simili progetti è tutt’altro che semplice. In Europa a tutt’oggi la condizione media dei luoghi di cura è assai delicata e a dir poco critica; il gigantismo sterilizza quasi sempre gli sforzi tesi a rendere più lievi e abitabili questi luoghi di sofferenza. Questo piccolo, alto esempio a Basilea, da noi visivamente raccontato, speriamo riesca concretamente a mostrare quanto le piccole cose possano essere potenti, efficienti, umanizzanti.
L’idea di adattamento è al cuore del dibattito che attraversa l’architettura contemporanea. Adattarsi a un mondo che cambia richiede collaborazione. In che modo la vostra produzione, in senso lato, può aiutare a mostrare il ruolo che comunità, governi e singoli cittadini svolgono, interagendo tra di essi, nel creare spazi e città sostenibili? Che tipo di relazioni e di sforzi sono necessari per adattarsi con successo alla complessità del vivere gli spazi urbani?
Onestamente penso che il nostro lavoro si inserisca molto bene nel tema dell’adattamento. Potremmo arrivare a descrivere la nostra produzione di oltre trenta film come un lavoro al cui centro vi è un’idea di come adattare spazi creati da altri. Raramente ci si trova a vivere in costruzioni veramente pensate e progettate per i nostri bisogni, per noi stessi e il nostro benessere. Di solito viviamo in spazi ereditati, che hanno una loro storia. In Europa viviamo in città che sono state edificate nel corso di secoli. Siamo costantemente costretti ad adattarci a questi spazi, che non sono adatti alla vita moderna. È necessario inventarci nuovi modi di abitarli. Abbiamo notato qualcosa di simile in India, dove esiste una parola, jugaad, per indicare un genere di espediente, una soluzione intelligente ed economica, frugale, per risolvere piccoli problemi di spazio e di architettura. Abbiamo affrontato il tema dell’adattamento in diverse scale, dalla casa alla città. In ogni caso abbiamo osservato attentamente queste piccole alchimie. A volte sono stati raggiunti buoni risultati, altre volte è stato più difficile. Ci interessa, però, capire come queste forze invisibili che agiscono sui nostri spazi influenzino il nostro stato mentale e il nostro benessere. Nella serie Homo Urbanus, per esempio, abbiamo prodotto quattordici film ciascuno dei quali prendeva in esame una diversa città del mondo. Abbiamo mostrato come la gente si adegui, sopporti, trasformi o inventi nuove cose e nuove forme per adattarsi al proprio ambiente urbano. È molto interessante osservare tutti questi aspetti del processo di adattamento. Abbiamo una reazione attiva o passiva?