Una vita, mille Pasolini

Un'intervista a quattro voci per ricordare il regista nel centenario della sua nascita
di Elisabetta Gardin
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In quest’anno in cui si celebra il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini anche noi iniziamo un percorso per cercare di restituire a modo nostro, senza naturalmente alcuna pretesa di esaurirne i mille risvolti, la sua caleidoscopica figura. La prima tappa di questo intrigante viaggio abbiamo deciso di costruirla attraverso un’intervista corale con Flavia Leonarduzzi, Giovanni Montanaro, Gian Mario Villalta e Michele Gottardi.

In questo difficile 2022 Pier Paolo Pasolini avrebbe compiuto cent’anni. Ci ha lasciato un’eredità culturale enorme pur essendo l’intellettuale più scomodo, discusso e forse incompreso del Novecento. Artista complesso e affascinante, riusciva a stravolgere le coscienze dei benpensanti con le sue opere e con la sua vita tormentata, fuori dagli schemi, con la sua sessualità, con una condotta che appariva per la morale comune esecrabile, un misto di sublime e osceno.
Indubbiamente un uomo provocatorio che suscitava sentimenti molto contrastanti, amato e odiato, condannato da partiti politici opposti, era di sinistra – fu persino radiato dal PCI per una vicenda scabrosa che avvenne quando insegnava a Valvasone, in Friuli –, ma a volte pareva più vicino alla destra, con il suo amore per la società contadina, arcaica, per le tradizioni, contro l’annientamento culturale portato dalla modernizzazione. Fortemente cristiano, non per fede ma per disposizione culturale, stava sempre dalla parte degli ultimi, del sottoproletariato, dei borgatari, dei poveri, basti pensare alla poesia su Valle Giulia dove prende le parti dei poliziotti, che in fondo erano figli del popolo loro, sì, non certo gli studenti. Fu accusato di oscenità, perversione, offesa alla religione, pornografia. Amava la vita e il calcio, ma amava soprattutto le sfide. Cercava deliberatamente il pericolo e quella morte violenta, prematura, feroce, ancora oggi coperta da pesanti dubbi e oscuri misteri, per certi versi pare quasi annunciata.
Nacque a Bologna nel 1922, lì frequentò il liceo e si laureò, ma durante la guerra, nel 1943, fu costretto a trasferirsi a Casarsa, in Friuli, nel paese dell’amatissima madre. Qui esordì come poeta in friulano e qui rimase fino al 1950. Dopo un primo scandalo legato alla sua omosessualità, si trasferì a Roma – “stupenda e misera città” – dove ben presto si affermò come scrittore, poeta, giornalista, regista cinematografico, intellettuale impegnato. Venne assassinato a Ostia il 2 novembre del 1975.
Ha saputo esprimersi con linguaggi diversi esplorando un po’ tutte le dimensioni artistiche: letteratura, cinema, poesia, reportage, fotografia, pittura. Ci ha lasciato autentici capolavori in ogni settore, da romanzi famosissimi come Ragazzi di vita, Una vita violenta, ai suoi articoli, molti dei quali raccolti in Scritti corsari, dai reportage dei suoi viaggi in terre lontane, come quelli in Africa in compagnia di Alberto Moravia e Dacia Maraini, alle sue poesie e ai suoi grandi film, da Accattone a Mamma Roma a Medea.
In quest’anno in cui si celebra il centenario della sua nascita anche noi iniziamo un percorso per cercare di restituire a modo nostro, senza naturalmente alcuna pretesa di esaurirne i mille risvolti, la sua caleidoscopica figura. La prima tappa di questo intrigante viaggio abbiamo deciso di costruirla attraverso un’intervista corale con Flavia Leonarduzzi, Giovanni Montanaro, Gian Mario Villalta e Michele Gottardi.

Partiamo dal Centro Studi Pasolini di Casarsa, che ha sede proprio nella casa della madre, Susanna Colussi, e che si occupa di valorizzare la figura dell’intellettuale, oltre ad avere in custodia un vasto patrimonio documentale e bibliografico. Incontriamo la Presidente, Flavia Leonarduzzi.

Quali sono le iniziative del Centro Studi per celebrare i cent’anni della nascita di Pasolini?
F.L. Numerosi sono gli eventi in programma, sia legati al centenario in senso stretto, sia nel solco della consueta programmazione annuale del Centro Studi. A marzo abbiamo riaperto Casa Colussi con una veste rinnovata e un articolato percorso espositivo, che comprende la collezione di 25 opere tra quadri e disegni di Pasolini. È stata inaugurata la mostra Pasolini. I disegni nella laguna di Grado, che di fatto ha avviato le iniziative del centenario. Una mostra preziosa, interamente dedicata alle opere realizzate dal poeta nel luogo che fu per lui di grande ispirazione poetica; uno sguardo sulla produzione artistica figurativa pasoliniana che nasce intorno alle riprese di Medea (1969) e alla Settimana internazionale del cinema di Grado (1970-1972). L’esposizione comprende anche opere note appartenenti alla collezione del pittore Giuseppe Zigaina e altre ancora che costituiscono appunto il nucleo di “disegni ritrovati” e che implementano in modo rilevante quanto sinora conosciuto attorno a questa ulteriore modalità espressiva di questo a dir poco eclettico artista. Inoltre hanno preso il via le visite guidate Sui luoghi di Pasolini a Casarsa, un itinerario che lega l’autore ai luoghi più rappresentativi di Casarsa e dei dintorni.

La produzione artistica di Pasolini è come detto vastissima. Ccerchiamo quindi di esplorarne i diversi campi attraverso altre voci autorevoli, a partire da quella dello scrittore Giovanni Montanaro, editorialista del Corriere della Sera e autore di numerosi romanzi. Chi è per lei il Pasolini scrittore? Ha in qualche modo influenzato i suoi romanzi?
G.M. Ho sentimenti ambivalenti per Pasolini scrittore. E cambiano con il tempo; non ho un giudizio definitivo. Ci sono alcuni testi, come Ragazzi di vita, che trovo tuttora magnetici. Ma ci sono altre opere, come per esempio Orgia, che alla lunga mi stufano più che stimolarmi. Per il mio modo di scrivere, poi, non è un riferimento diretto; terrigno, senza leggerezza, con una visione dell’umanità straordinaria ma in fondo crudissima. Mi piace leggerlo, divorarne alcune poesie, alcuni testi teatrali; amo, per mio gusto, alcuni sentimenti impercettibili, alcuni cedimenti all’umanità improvvisa, alcune scene così fotografiche da essere struggenti, dolorose. Ma, per scrivere, trovo più ispirante di quel periodo un Calvino, o, che so, un Meneghello, che hanno alla fine una visione del mondo che vedo più prossima alla mia. Credo poi che del Pasolini scrittore pochi ne facciano una vera ispirazione, perché pochi lo leggono, lo frequentano davvero. Pasolini oggi pesa più come pensatore che come scrittore. Perché ha visto cesure profonde della nostra realtà, di quel che rimane della lotta di classe (o per meglio dire della sottovalutazione attuale del tema delle classi sociali), perché ha guardato la vita in tutte le sue complessità, in tutte le sue periferie. Perché alcune sue parole sono ancor oggi forti, attuali, sgomente. Oggi, però, è anche molto di moda, il che non gli rende del tutto giustizia; è di moda su Facebook, è di moda per tanti che probabilmente lui non amerebbe. La sua grandezza è la sua scomodità, la sua differenza che, come tale, non può diventare mainstream; può essere pungolo, ma non perno. Come tutti i maestri acclamati, rischia di essere anche lui frainteso, annacquato, di rivelarsi in qualche modo ‘comodo’, cosa che rappresenterebbe, e purtroppo rappresenta, davvero il più grande tradimento del suo straordinario percorso.

Pasolini va letto da giovani perché deve far male. Deve disturbare e allo stesso tempo convincere che si può non pensare come Tizio o Caio e anche diversamente da Sempronio… (Gian Mario Villalta)

Pasolini fu anche un grandissimo poeta, in lingua italiana e friulana. A questo proposito abbiamo parlato con un poeta contemporaneo, Gian Mario Villalta, fondatore di PordenoneLegge. Ci racconti il Pasolini poeta e che influenza ha avuto nella sua formazione.
G.M.V. Pasolini va letto da giovani, giovani veri, a diciotto, vent’anni (lasciamo stare che oggi i cinquantenni li si chiama “ragazzi”). Perché Pasolini dopo il trasferimento da Casarsa a Roma ha scritto, ha viaggiato, polemizzato, girato film, inventato canzoni, incalzato da un demone che lo voleva sempre insoddisfatto e proiettato sulla prossima opera, sul prossimo intervento pubblico, sulla prossima esplorazione del mondo e sulla prossima provocazione: di conseguenza, per il lettore maturato nella letteratura Pasolini è sommamente interessante per mille motivi, il minore dei quali è la singola opera realizzata. Con qualche eccezione; per me soprattutto una, che richiamerò alla fine.
Pasolini va letto da giovani perché deve far male. Deve disturbare e allo stesso tempo convincere che si può non pensare come Tizio o Caio e anche, diversamente da Sempronio, si può avere un proprio pensiero, un proprio modo di stare al mondo senza perseguire un’esistenza da follower o da seduttore di follower. A Pasolini pareva, più compiutamente negli ultimi anni della sua vita, che media, consumismo e politica si fossero alleati perché ciò non fosse più possibile; e allora eccolo fare questa urtante dichiarazione: «Non si può stare da una parte o dall’altra. Si può solo stare contro tutti». Questo “contro tutti”, preso a principio, sarebbe per il raziocinio un’assurdità; però come paradosso e provocazione è forte: mi chiedono, ci chiedono di semplificare il mondo per consumarlo meglio, schierarci subito da una parte o dall’altra senza pensare, senza chiederci chi siamo e dove stiamo. Ecco, a me sembra che un giovane possa essere colpito da questo “contro tutti”. A me è accaduto, lui ancora vivo: leggo una poesia dove Pasolini dice che sta sul Concorde e beve champagne (ovvero il viaggio allora più privilegiato del mondo) e questo suo privilegio lo intristisce perché non lo trova giusto. Mi ricordo che allora l’avevo presa male. Mi pareva ipocrita, mille volte ipocrita. Però dopo mi sono detto che se ero sincero dovevo ammettere che anch’io avrei voluto fare quel viaggio, e anch’io ero contro i privilegi e per la giustizia sociale.
C’è una sua opera che è ancora una miniera. Sono le Poesie a Casarsa, scritte quando davvero era poco più che un ragazzo. Tutta l’avventura poetica di quel luogo è ancora da illustrare nel suo splendore e nella sua unicità. Un’esperienza originale e strepitosa: un gruppo di ragazzi, nell’epoca dei manifesti intellettualistici, inventa un’originale poesia con la lingua di ogni giorno e i modelli della più alta cultura europea. Davvero merita nuova attenzione.

Concludiamo questo primo nostro percorso nel multiforme ingegno pasoliniano con l’intervento del critico cinematografico Michele Gottardi, per anni docente a Ca’ Foscari nel corso di laurea Tecniche artistiche e dello Spettacolo. Pasolini e il cinema, forse tra tutti il linguaggio che infine lo porta più lontano, che lo fa più libero. Come in poche righe restituire il suo percorso dietro la macchina da presa?
M.G. Pier Paolo Pasolini non è stato forse il migliore in ognuno dei molteplici campi in cui si è cimentato, ma sicuramente è stato l’intellettuale più poliedrico – oggi diremmo smart: inorridirebbe – della sua generazione. Anche nel cinema lo sguardo di Pasolini è costruito come in un gioco di focalizzazioni progressive, partendo dall’eredità del Neorealismo e arrivando poi a soluzioni figurative che molto devono alla storia dell’arte (era allievo di Roberto Longhi) e al realismo poetico, quasi mitizzando i suoi protagonisti. A cominciare dai “ragazzi di vita”, al centro delle sue prime opere, da Accattone a Mamma Roma, questa idea del mito è una costante del suo cinema, che cresce man mano che Pasolini apprende e conosce il linguaggio specifico della Settima Arte. I suoi eroi compiono il percorso abituale del mito, dall’iniziazione alla morte, quasi mai passando per una vittoria, più spesso per una sconfitta. Così è per i ragazzi delle borgate, ormai appiattiti nella cultura del boom economico, in cerca di una nuova identità tra la massa acritica degli anni Sessanta; ma anche per Totò e Ninetto di Uccellacci e uccellini, con la possibile reincarnazione del corvo. La fine di un’era, quella delle speranze nella Nuova Italia e in un avvenire migliore anche per il proletariato, lo spinge sempre di più a proiettare il mito al di là della storia, vengono così le tragedie di Edipo Re e di Medea. Parallelamente si completa quel percorso di sdoppiamento del reale che era già apparso nei suoi scritti, sia prosa che poesia, come ben si vede in Teorema e in Porcile. Il passo successivo è il sogno: quando ormai la realtà è talmente sciolta, disgregata, triste, meglio rifugiarsi in molti sogni diversi. Ecco allora il Decameron, Il fiore delle mille e una notte, I racconti di Canterbury, film nei quali il ricorso al mito eponimo (di sé o della realtà evocata) è sempre attuale. Ma la sua rabbia, quella critica presente negli Scritti Corsari, pur come si è detto a tratti fine a sé stessa e relegata in uno sguardo troppo apocalittico e utopico, non poteva cristallizzarsi nel tempo di Giovanni Boccaccio o Geoffrey Chaucer. Per cui il ricorso, purtroppo finale, al marchese De Sade, con Salò e le 120 giornate di Sodoma, diventa una sorta di dichiarazione di sconfitta storica ed estetica, un po’ come era accaduto per Luchino Visconti in Morte a Venezia, con il trionfo della morte e della violenza, la stessa alla quale cederà il 2 novembre 1975.