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Il latte dei sogni
Nel contesto della crescente preoccupazione catastrofistica per la crisi climatica ed energetica, l’architettura di Italo Rota è stata, e continua a rappresentare, un autentico slancio ottimistico e gioioso.
Cultore dell’eccentrico e del colore, collezionista accanito del kitsch e di manga, Rota è stato un precursore che ha chiesto all’architettura di reinventarsi, di sperimentare e di uscire dai territori conosciuti, di farsi creatrice di mondi alternativi e di nuove visioni possibili, muovendosi da una cultura del progetto verso una cultura delle idee. La sua architettura, infatti, non è mai solamente materia. È il guscio del pensiero, è contenitore ma anche contenuto, è evocatrice di simboli e motore emotivo, tesa alla ricerca della coesistenza e della simbiosi con le altre specie. All’Antropocene (l’era geologica in cui l’uomo impatta pesantemente sulla fisicità della Terra) Rota ha opposto il Biocene, con una provocazione: «L’era in cui tutti noi potremmo aspirare ad avere in Parlamento un animale o una pianta», vale a dire una mutazione culturale che ci porti a firmare un nuovo contratto con le altre specie viventi. Ma niente ritorno al mito del buon selvaggio, anzi, l’opposto. Nessun tentativo di semplificare la complessità del reale, bensì una presa in carico delle potenzialità che il digitale e la ricerca ci offrono per efficientare le nostre metropoli. Un’architettura che grazie ai big data si realizza senza edificare, e rende performante quello che già c’è, preservando i vuoti. Una città da pensare non in termini di rovine future ma di edifici che si smontano, come per il Palazzo del Podestà di Mantova, in cui gli inserimenti seguono una logica installativa e reversibile. Nel Padiglione Italia all’Expo 2020 di Dubai, progettato insieme a CRA – Carlo Ratti Associati, la copertura è invece fatta di scafi di navi pronti a tornare in acqua a fine esposizione. Nelle recenti collaborazioni con CRA i temi dell’energia, dei nuovi materiali (batteri compresi) e della necessità di sfumare i confini tra naturale e artificiale hanno assunto una loro rilevanza centrale. Insieme hanno integrato architettura e natura nella Greenery, casa privata nella campagna parmense, secondo il principio della biofilia, hanno usato la tecnologia della Nasa per Parelio, un ombrellone da mare fotovoltaico, e hanno realizzato un modello di un Tokamak per la produzione di energia a idrogeno. Ma l’energia di cui parlava Rota è anche quella generativa dell’uomo. A Reggio Emilia i cittadini sono diventati anche un po’ curatori dell’Archivio dei Beni Comuni e l’apparente complessità delle stratificazioni secolari ha creato nuova conoscenza, in linea con Georges Bataille per cui il museo «è uno specchio nel quale l’uomo osserva sé stesso», a metà tra il museo-tempio moderno e quello postmoderno dell’egemonia del presente. Autore di progetti come l’intervento al Museo del Novecento di Milano e al Musée d’Orsay di Parigi (insieme a Gae Aulenti), e collaboratore di Franco Albini, Vittorio Gregotti e del Lotus di Pierluigi Nicolin, Italo Rota è stato un pensatore originale, versatile e mai banale, «come un animale che si è adattato pur rimanendo sempre lo stesso». Ha chiesto all’architettura di essere uno strumento di ripartenza, perché «il futuro – ha detto – è il luogo dove passerò il resto della mia vita». Ed è esattamente lì che ha rivolto la sua progettualità.
Alla Biennale, nel progetto Matter Makes Sense, c’è Margherita Palli, scenografa e costumista. Sarà lei, moglie di Italo Rota e compagna di lavoro, a ritirare il Leone d’Oro speciale alla memoria.
Naturale, artificiale, collettiva: Carlo Ratti presenta la sua Biennale Architettura