Giardini, Palazzo del Cinema e Ca’ Giustinian per festeggiare il 9 luglio una Mostra unica al mondo, imitata ma inimitabile.
Se la Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ci appare oggi come una splendida novantenne, lo deve probabilmente alla propria apparente aleatorietà istituzionale. Nessun festival al mondo ha risentito in analoga misura dello spirito del tempo. Nata come strumento di propaganda del regime fascista, poi trampolino di lancio del Neorealismo, palcoscenico per la politique des auteurs, bersaglio dapprima e volano poi del Sessantotto, palcoscenico per cinèfili, strumento di laboratorio e sperimentazione, vetrina di nuove tecnologie e nuovi supporti, la Mostra è stata tutto questo e molto altro, trascendendo sicuramente e ampiamente le intenzioni (ma non le intuizioni in qualche modo profetiche e prognostiche) del suo fondatore Giuseppe Volpi. Il legame istituzionale con la Biennale, nata un biennio prima, la struttura dirigenziale e financo la natura politica che ha presieduto alle scelte dei suoi vertici, ha garantito nei decenni alla Mostra una discontinuità, una varietà di sguardi e di approcci e di conseguenza una pluralità di offerte sconosciute a qualsiasi altra manifestazione similare.
Da Ammannati a Chiarini, da Meccoli a Laura, da Lizzani a Biraghi, da Pontecorvo a Laudadio, da Müller a Barbera (cui si deve la direzione più longeva), la Mostra ha documentato e testimoniato non solo le mutazioni tecniche del cinema ma la metamorfosi stessa e profonda di un linguaggio che non ha smarrito la propria egemonia nell’immaginario ma nel tempo ha dovuto senza dubbio rivederne e riscriverne alcune regole fondative, suscitando passioni e polemiche come nessun’altra rassegna successiva: la memoria focalizza solo due fra i tanti “scandali”, relativamente recenti, esplosi su Querelle de Brest (1982, direzione Lizzani) di Rainer W. Fassbinder, e L’ultima tentazione di Cristo (1988, direzione Biraghi) di Martin Scorsese. Così la Mostra ha potuto essere rampa di lancio per blockbuster internazionali (le saghe di Indiana Jones o di Star Wars) e proscenio notturno per esperienze spesso irreplicabili (Straub, Vertigo di Hitchcock, Lolita di Kubrick, l’integrale de I cancelli del cielo di Michael Cimino: tutti dovuti al genio intuitivo del compianto Enzo Ungari), proiettando il proprio slancio di riflesso persino nelle Giornate del cinema italiano, tenutesi negli anni ’70 nel periodo di latenza della manifestazione. Di tutto questo si parlerà, tra rievocazione e riflessione storiografica, sabato 9 luglio, in una giornata di celebrazione dei 90 anni della Mostra, con la proiezione alle 21 in Sala Grande del documentario Regen (Pioggia) di Mannus Franken e Joris Ivens (Olanda,1929) e della commedia Gli uomini, che mascalzoni… di Mario Camerini (Italia, 1932), con Vittorio De Sica – entrambi nel programma della prima edizione del 1932 – in una serata dedicata al pubblico di Venezia, che potrà partecipare gratuitamente attraverso la collaborazione con i quotidiani «Il Gazzettino», «La Nuova di Venezia e Mestre» e il «Corriere del Veneto».
Sarà questo l’epilogo di una giornata che inizierà al mattino a Venezia, alla Biblioteca dei Giardini della Biennale, con un convegno internazionale e la presentazione del nuovo volume storico La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia scritto da Gian Piero Brunetta, massimo storico del cinema italiano, e frutto della collaborazione fra la Biennale e l’editore Marsilio. Convegno che, dopo i saluti del presidente della Biennale Roberto Cicutto e del direttore della Mostra Alberto Barbera, vedrà i contributi e le testimonianze di autori come Marco Bellocchio e Margarethe Von Trotta, critici e studiosi come Paolo Mereghetti, Michel Ciment e Gianni Canova, attori come Isabelle Huppert, Isabella Ferrari e Tilda Swinton, storici come Carlo Montanaro. Sarà inoltre aperta, nel Portego di Ca’ Giustinian, un’esposizione sulla prima edizione del 1932 della Mostra del Cinema, realizzata dall’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) della Biennale.