Aspettando Lesley

Letture sulla città generica, continua e futura
di Paolo Lucchetta

In attesa di scoprire come Lesley Lokko definirà il suo Laboratorio del Futuro per la 18. Biennale Architettura, vorremmo condividere delle riflessioni ispirate dalla lettura recente di due testi sulla città contemporanea, basi necessarie per comprendere il progetto di Lokko.

Lesley Lokko (Ghana/Scozia), architetta e docente di architettura, è un’affermata scrittrice che pubblica testi sui temi della razza, dell’identità, dell’architettura. Nel 2023 sarà l’attesa curatrice della 18. Biennale Architettura, intenzionata a puntare i riflettori sui talenti nuovi ed emergenti, a proporre un’opportunità unica, ma anche una responsabilità del tutto particolare. Il senso di questa opportunità/responsabilità sta forse già nel titolo della mostra, Il laboratorio del futuro.

Il laboratorio del futuro

Sono le nuove visioni il contenuto su cui si concentra la promessa più esplicita di Lesley Lokko e del suo Laboratorio. «Oggi possiamo “vedere” il mondo come non mai. Le nuove tecnologie appaiono e scompaiono continuamente, offrendoci scorci non filtrati della vita in parti del mondo che probabilmente non visiteremo mai, tanto meno capiremo. Ma vedere contemporaneamente vicino e lontano è anche una forma di “doppia coscienza”, il conflitto interno di tutti i gruppi subordinati o colonizzati, che descrive la maggioranza del mondo, non solo “laggiù”, nei cosiddetti Paesi poveri, in via di sviluppo, ma anche “qui”, nelle metropoli e nei paesaggi del Nord globalizzato». In Europa si parla spesso di minoranze e diversità, ma la verità è che le minoranze dell’Occidente sono la maggioranza globale nel resto del mondo; la diversità in Africa è la norma. Se c’è un luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondono, questa è l’Africa, il continente più giovane. L’Europa ora si confronta con le stesse domande sulla terra, sull’identità e sulla lingua che molte parti dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia non hanno mai visto sparire. Una prospettiva rovesciata ma non divisiva perché, ricorda Leslie Lokko, a livello antropologico «siamo tutti africani e ciò che accade in Africa accade a tutti noi».
Quindi il progetto si propone come il riconoscimento che l’architettura è una disciplina di trasformazione e di traduzione. Da questo viaggio continuo tra codici e spazi, «da questa facilità di traduzione e da questa elasticità possiamo imparare». «Più che gli edifici, le forme, i materiali o le strutture, il dono più prezioso e potente dell’architettura è la capacità di influenzare il nostro modo di vedere il mondo. La lenta e attenta traduzione delle idee in forma materiale e, sempre più spesso, digitale richiede un cambiamento quasi costante della visione, restringendo e allargando contemporaneamente lo sguardo per adattarsi alle differenze di scala, di contesto, di cultura e di aspirazione, nonché alle molteplici altre esigenze che devono essere soddisfatte per portare nel mondo sia gli edifici che la conoscenza».


In quella che sarà la prima edizione della Biennale Architettura post-pandemia, per la quale Lesley ha scelto il titolo Il Laboratorio del Futuro, il focus sarà quindi questo: «rovesciare ciò che crediamo di sapere su dogmi e paradigmi dell’architettura per farle giocare davvero un ruolo nel costruire il domani». Un privilegio ancora una volta per tutti noi appassionati inguaribili delle questioni della città e dell’architettura ricevere quel messaggio di opportunità/responsabilità che arriva da Lesley così intensamente dedicato a Venezia: «Ogni volta che arrivo in questa città penso al fatto che l’architettura ha lottato per essere qui, ingaggiando una battaglia con la gravità e con la logica. Venezia si presenta come illogica, e per questo motivo è il luogo ideale per fare una Biennale che sia una bottega che progetta il futuro. Questo luogo ti apre al nuovo e ti mostra che un altro modo di vivere e di costruire è possibile, e lo è già stato in passato. E poi è così esposta al cambiamento climatico: Venezia è il nostro barometro».
Aspettando di scoprire come Lesley Lokko definirà il suo Laboratorio e quali saranno i protagonisti del dibattito internazionale chiamati a disegnare il futuro, vorremmo condividere delle riflessioni ispirate dalla lettura recente di due testi sulla città contemporanea, basi necessarie per comprendere il progetto di Lokko.

Testi sulla (non più) città

La nostra prima riflessione è ispirata a Testi sulla (non più) città di Rem Koolhaas, a cura e con saggio introduttivo di Manuel Orazi per Quodlibet, che sostiene: «la città non esiste più. Poiché l’idea di città è stata stravolta e ampliata come mai nel passato, ogni tipo di insistenza su una sua condizione primigenia – in termini visivi, normativi, costruttivi – ha come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell’irrilevanza». Atlanta, Singapore, Dubai, Parigi, Lilla, Berlino, Tokyo, New York, Rotterdam, Mosca, Londra…: la metropoli contemporanea, con il suo sviluppo disomogeneo e smodato, con la sua urbanistica apparentemente anarchica, disturba e mette in discussione i nostri valori più profondi, o almeno quelli più sentimentali. Come sono arrivati architetti, culture (europea, americana, asiatica), regimi politici completamente diversi tra loro, a configurazioni tanto simili? E perché «il trionfo della città è coinciso proprio con il venir meno della riflessione su di essa»?
È il declino dell’Occidente che va di pari passo con la crescita di modernità non-occidentali, soprattutto in Africa e in Asia, secondo la tesi di Koolhaas. L’idea di città di queste nuove modernità viene generata da sistemi politici differenti dal nostro, un’idea assai lontana dalla civitas sulla quale abbiamo fondato (quella che un tempo era) la città occidentale.
Su Singapore in particolare Koolhaas scrisse “La città generica”, in cui restituisce la genesi di questa città-stato sorta da una tabula rasa e pianificata, pensata e imposta dall’alto. Un testo chiave sul destino della città occidentale e sull’emergere di una nuova città liberata dalla schiavitù del centro e dal chiodo fisso dell’identità; una città in cui la sfera pubblica ha abdicato, il trionfo di una terribile quiete. L’urbanistica, quindi, per Koolhaas è tornata a essere un nodo decisivo per la progettazione del futuro e questo implica che si abbia un’idea chiara di come si vorrebbe il mondo.

It’s All One Song

La seconda lettura è It’s All One Song di Marco Zanta, con testi di Stefania Rössl, per Hartmann Books. Osservando la città contemporanea attraverso una straordinaria sequenza di fotografie appare chiaro come le logiche che guidano i processi di urbanizzazione siano sottoposte a strategie politiche poco lungimiranti e poco sensibili nei confronti della qualità dell’abitare. Esse sembrano rispondere unicamente a regole economiche imposte dall’alto, poco attente alle reali necessità dei luoghi e degli abitanti. Le trasformazioni urbane avvenute negli ultimi vent’anni sono le principali testimoni di fenomeni di espansione che, per sopperire ai flussi migratori via via più intensi, hanno portato all’omologazione di vaste aree edificate, per lo più delocalizzate e concentrate nelle zone periferiche delle città. Interi comparti di città che appaiono decontestualizzati, oltre che poco rispettosi dei caratteri originari dei luoghi.
«L’ipotesi che il mondo possa essere contenuto in una sola grande immagine – sostiene Stefania Rössl – tanto cara a Luigi Ghirri, ricorda quella descrizione della Terra vista dalla Luna che aveva il potere di racchiudere tutte le immagini del mondo. Per questo, in quell’inestricabile “geroglifico del reale”, il paesaggio rappresentava, e può rappresentare ancora, l’inizio di un percorso in divenire in cui dimensione reale e immaginaria realizzano nuove visioni».

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