Questa è la notizia: il fondo Luca Ronconi, fin qui ordinato ed inventariato dalla Soprintendenza archivistica dell’Umbria, approda all‘Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia grazie all’accordo siglato con la destinataria del lascito Ronconi, Roberta Carlotto.
Passaggio obbligato, forse, considerato che nella città di Perugia, dove il fondo era collocato, manca una tradizione di studi teatrali, ma anche un segnale ed un auspicio che questo passaggio all’ASAC della Biennale possa diventare la premessa di un rinnovato studio del materiale del fondo, illuminando le connessioni di questo fondo con altri archivi di matrice teatrale oggi presenti in Italia (Il Piccolo di Milano, ad esempio) e fornendo del grande regista nuovi spunti di ricerca e di approfondimento. In occasione di questo passaggio la Biennale, in collaborazione con l’Archivio Ronconi ed il Centro teatrale Santacristina, ha organizzato un convegno sulla figura di Luca Ronconi, che si è svolto il 6 marzo presso l’Auditorium della Biblioteca della Biennale ai Giardini.
“Non vi lascerò mai tranquilli!” ha esordito Roberta Carlotto nel suo intervento, scherzosamente ma non troppo, cogliendo lo spunto principale dell’ intervento del Presidente Biennale, Roberto Cicutto, che un archivio ha senso solo se diventa spazio di relazione e laboratorio di sperimentazione pratica. Cicutto ha sottolineato sia la necessità che l’Archivio della Biennale affianchi alle naturali attività conservative e catalogatorie tipiche di un archivio quelle di studio e ricerca di un Centro Internazionale di Ricerca sulle Arti Contemporanee, sia l’importanza che il materiale d’archivio si trasferisca dal Vega di Marghera, dove si trovava dal 2008, all’Arsenale, nell’edificio a fianco delle Corderie.
E sulla natura generativa di un archivio moderno si sono soffermate anche Annalisa Rossi, Sovrintendente archivistico del Veneto e Trentino-Alto Adige, e Debora Rossi, responsabile ASAC, che ha sottolineato il ruolo consolidato della Biblioteca della Biennale per gli studenti che gravitano a Venezia. Ed in effetti le parole dei partecipanti al convegno risuonavano sotto le volte della meravigliosa sala della biblioteca tutta foderata, per i quattro lati, di libri disposti in un duplice piano per un totale di tredici file di scaffalature. Un fantastico colpo d’occhio, queste decine di migliaia di volumi su cinema, teatro, arte, danza, fotografia, restituivano quel senso di infinitezza che Borges descrisse nella biblioteca di Babele, la certezza che quella sala possa contenere tutto lo scibile umano e, nello stesso tempo, la certezza che una sola vita non basterà mai per trovare ciò che lo studioso cerca, e cioè una continua, inesauribile sete di conoscenza.
Giovanna Giubbini, direttore della Sovrintendenza archivistica dell’Umbria, presso cui il fondo Ronconi è stato catalogato, ha precisato che il regista non ordinò mai il proprio archivio, che consta di 800 fascicoli e restituisce a chi lo voglia studiare non solo la dimensione professionale del regista, ma anche quella personale, in cui rivestono particolare importanza le lettere alla madre. Dal casale nei dintorni di Gubbio ove Ronconi passava il tempo libero dedicandosi alla botanica, il fondo è passato alla Sovrintendenza e da questa all’Archivio di Stato dell’Umbria, per approdare appunto all’ASAC di Venezia.
Il convegno ha poi ospitato l’intervento, dotto e passionale nello stesso tempo e ricchissimo di temi trattati, di Giovanni Agosti, autore della biografia di Ronconi dal titolo Prove di autobiografia, pubblicata da Feltrinelli nel 2019. Agosti, giovane ventenne, nel 1975 rimase folgorato dalle cinque puntate apparse in RAI dell’Orlando Furioso e da lì nacque un amore assoluto nei confronti del lavoro teatrale di Ronconi. Il libro di Agosti si inserisce in una enorme produzione editoriale dedicata a Ronconi, in cui spicca comunque quello che, secondo Agosti, è il libro di riferimento: Il rito perduto, di Franco Quadri, pubblicato nel 1973 per Einaudi. Dietro a questo libro sul regista sta una nuova idea di critica teatrale, che aveva trovato il suo diabolico profeta qualche anno prima nell’Arbasino di Grazie per le magnifiche rose, lontano dalle teorizzazioni astratte allora di moda ed invece tutto proteso a dare testimonianze coltissime e seducenti sugli spettacoli visti da Arbasino in giro per il mondo. Nella sua relazione, Agosti ha anche fornito alcune interessanti indicazioni su possibili filoni futuri di ricerca e di approfondimento: ad esempio, la realizzazione di una bibliografia dei testi scritti da Ronconi. Perchè, che Ronconi abbia scritto di e per il teatro, non v’è dubbio; tuttavia, come per Pasolini, non esiste una bibliografia seria su testi autografi e “a cura di”, che per Ronconi, come per i pittori del Rinascimento con le loro botteghe, rappresentava un livello inferiore di autorialità. E quindi va messa in atto una ricerca seria sulla massa di traduzioni, prefazioni, contributi antologici e miscellanei, interviste, discorsi, che vide certamente Ronconi autore proattivo ma anche poco o per niente propenso ad una auto-catalogazione efficiente. Agosti certamente ha avuto modo di analizzare il fondo Ronconi, e ne esprime le caratteristiche salienti con le seguenti indicazioni “elusività sentimentale, verità multiple, assenza di affidabili epistolari e/o diari”. Ne consegue che ogni ulteriore tentativo di studiare l’archivio di Ronconi dovrà comunque fare i conti con la personalità ingombrante del suo autore e le complessità della sua dimensione lavorativa e privata.
Il panel del pomeriggio, coordinato da Oliviero Ponte di Pino, aveva il compito di individuare in una struttura tripartita alcune tracce ed indizi del lavoro di Ronconi attraverso le testimonianze di suoi collaboratori e di attori. La prima parte è stata dedicata ai grandi progetti mancati di Luca Ronconi: Stefano Boeri, allora assessore alla Cultura di Milano, ha ricordato quello che potrebbe essere stato il suo ultimo progetto, e cioè mettere in scena un intero numero del Corriere della Sera nella metropolitana di Milano. Progetto fuori misura, come molti altri della sua opera: Gli ultimi giorni dell’umanità al Lingotto di Torino, Samstag aus Licht di Stockhausen al Palasport di Milano, Infinities di John Barrow, testo sulla matematica messo in scena alla Bovisa.
Peter Exacoustos e Margherita Palli a loro volta hanno ricordato un altro grande progetto mancato, Vigilia, struttura drammaturgica in sette percorsi cittadini sugli anni ‘70, e che avrebbe dovuto svolgersi nello spazio dismesso dell’Ansaldo. “Smarrirsi nella contemporaneità, attraverso un utilizzo pubblico degli spazi della città, e una fruizione ad libitum da parte del pubblico, che un giorno vede l’inizio dell’opera, e la fine tre giorni dopo”, così la grande scenografa di Ronconi ha sintetizzato il senso di questi progetti titanici che vedevano nel corpo della città lo spazio di una riflessione sul moderno come simultaneità, proliferazione, labirinto.
Massimo Popolizio e Manuela Mandracchia hanno ricordato Ronconi dal punto di vista degli attori: erano i cd “ronconiani”, marcati dall’appartenenza alla visione di un teatro sorprendente, che infrangesse le regole spazio-temporali tradizionali e ne dilatasse i limiti, in cui l’attore era comunque condannato ad essere il “punto debole” del dispositivo scenico messo in atto dal regista. Punto debole perchè li costringeva ad una recitazione fuori dagli schemi della pratica attoriale, e poi perchè, come ha ricordato Popolizio, Ronconi odiava gli spettacoli di successo, quelli che venivano replicati con successo negli altri teatri. Per lui, il vero spettacolo aveva le stimmate dell’irripetibilità.
Ciliegina sulla torta, l’intervento finale di Pierluigi Pizzi sull’esperienza della realizzazione della versione televisiva dell’Orlando Furioso, uscito in cinque puntate per la RAI nel 1975. Sospeso tra puntigliosa testimonianza e fascinazione della memoria, il ricordo di Pizzi è andato a quell’ anno, era il 1971, di “coito ininterrotto” in cui Ronconi e Pizzi, responsabile della scenografia, lavorarono alla produzione dell’Orlando nel palazzo Farnese di Caprarola (la scelta del luogo fu dello stesso Pizzi). “
Era una gara a sorprenderci ogni giorno – ricorda Pizzi – trasformammo sale, grottesche, giardini del palazzo in un vero set televisivo, i binari delle macchine da presa erano nascosti da uno strato di foglie secche, costruimmo un bosco dentro, e dovemmo rifare le macchine rendendole più piccole rispetto alla versione teatrale di Spoleto del 1969. E io, come responsabile delle scene, ho davvero rischiato la galera, se la Sovrintendenza avesse solo sospettato quello che stavamo facendo nel palazzo, non l’avrei passata liscia”.
Il convegno si concludeva così con il ricordo di uno dei tanti capolavori di Ronconi, ricordo ancora vibrante ed emozionante.