La parola Olimpiadi

Verso Parigi 2024, intervista a Federico Buffa
di Massimo Bran

Qualche volta ritornano. Ebbene sì, Federico Buffa l’avevamo già intervistato in occasione dei Giochi Olimpici di Tokyo 2020, poi svoltisi nel 2021 causa pandemia. Ma a parlare col Nostro di sport non ci si stancherebbe mai e quindi…perché non dialogare in campo aperto con lui anche sull’imminente Parigi 2024?

In realtà Parigi è solo un pretesto per compiere un viaggio più profondo alle radici dello sport moderno, di cui le Olimpiadi sono naturalmente la somma espressione. E accompagnati da chi se non dal massimo narratore di gesta sportive del nostro tempo? In tv e sulle scene Buffa è impegnato da anni in un percorso di riattualizzazione delle modalità narrative del racconto sportivo, un tempo prevalentemente letterario e comunque su carta, creando un impasto di puro crossover linguistico, in una dialettica avvolgente e di peculiare ritmo in divenire che incrocia sport, musica, cinema, letteratura, arti sceniche. Gli esiti, le piéces teatrali, i talks televisivi che ne derivano, sono immancabilmente emozionanti, coinvolgenti, di rara resa narrativa. Insomma, it’s only sport but we like it, yes, anche se “solo” non è davvero la parola…

Federico Buffa

La parola “Olimpiadi”: cosa ti evoca, cosa ti suscita a pelle, in un nanosecondo, il suono, il colore di questo magico lemma e come, invece, respirando un attimo ti viene da definire un po’ più distesamente questa parola-mondo, navigando al confine tra cuore e testa?
Quando mio padre mi portò ad Olimpia confesso di non aver colto in pieno l’importanza di andare in quel luogo. Da quel momento in poi, indubbiamente, le Olimpiadi avrebbero avuto un impatto incredibile sulla mia vita, come mai avrei potuto immaginare. In particolare quella del 1936 a Berlino, che considero un autentico spartiacque per la storia dello sport come dell’uomo; non a caso ho deciso di dedicare a questo evento uno spettacolo teatrale a cui sono molto legato. Senza ombra di dubbio esiste un ‘prima’ e un ‘dopo’ Berlino ’36, a livello sportivo, politico, antropologico. Si tratta di un’autentica svolta: lo sport contemporaneo, più che moderno, nasce lì. Credo di aver visto almeno un centinaio di volte Olympia di Leni Riefenstahl, la cui copia originale tra l’altro non si trova nemmeno in Germania, ma addirittura a Pordenone, dove ho avuto la fortuna di poterla vedere: la regista tedesca la prestò a Pasolini in occasione di un festival sul rapporto tra sport e dittature e non venne poi mai restituita. Credo che ad oggi sia l’esempio massimo e insuperabile di documentario dedicato non solo alle Olimpiadi, ma allo sport in generale.Cosa sono le Olimpiadi? Le considero un viaggio nella storia dell’umanità che dura ormai da più di 2500 anni. Una volta le Olimpiadi erano ideate e realizzate nell’ottica di fermare le guerre e onorare gli dei. Adesso gli dei sono in campo e le guerre non si fermano.

Abebe Bikila, Olimpiadi Roma 1960

Centoventotto anni di vita a dir poco epica, che hanno accompagnato attraverso emozioni sportive il secolo della definitiva consacrazione della modernità, dell’evo tecnologico. Quali sono stati secondo te i momenti, o più largamente le edizioni dei Giochi Olimpici che hanno prodotto degli scarti decisivi nella trasformazione del linguaggio, della cultura e dell’industria sportiva?
Come dicevo prima, quella del ’36 è fondamentale perché momento in cui per la prima volta si assiste ad un intreccio inestricabile tra sport e politica, elementi che fino ad allora in linea di massima vivevano di vita propria a compartimenti stagni. Avery Brundage, che all’epoca era Presidente del Comitato Olimpico Americano e che poi lo diventerà del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) all’inizio degli anni ’50, arrivò al vertice dell’istituzione statunitense vincendo nel dicembre del ’35 per pochi voti, sconfiggendo un candidato che aveva fatto del boicottaggio delle Olimpiadi uno dei capisaldi del proprio programma. Gli Stati Uniti partecipano quindi alle Olimpiadi di Berlino e Brundage si confermerà molto legato al destino del Partito Nazionalsocialista: era infatti un imprenditore attivo nel campo dell’edilizia e Goebbels gli promise, ovviamente su disegno di Albert Speer, la realizzazione della nuova ambasciata tedesca a Washington, con una connessione tra sport e politica che si riverbererà fortemente sulle gare.Il legame tra sport e politica diventerà da quel momento costante, con picchi raggiunti in epoche storiche in cui questo connubio si dimostrerà particolarmente fitto e teso, vedi le due edizioni consecutive di Messico ’68 e Monaco ’72. Prima con un evento assordantemente silente a Città del Messico (il pugno guantato di Tommie Smith e John Carlos, ndr), poi con un altro fin troppo platealmente rumoroso a Monaco (assalto terroristico del gruppo filopalestinese Settembre Nero alla palazzina degli atleti israeliani, con conseguente sequestro e drammatica strage finale, ndr), da questo quadriennio in poi non sarà davvero più possibile tenere la politica fuori dallo sport.

Dick Fosbury, Olimpiadi Mexico 1968

Quali invece le cinque gesta olimpiche che hanno travolto il tuo personalissimo immaginario, al netto della loro valenza assoluta?
Dick Fosbury nel 1968, con la rivoluzione dello stile del salto in alto. Sara Simeoni ai Giochi Olimpici di Mosca nel 1980, dove non solo vinse la medaglia d’oro, ma dove probabilmente non sarebbe nemmeno andata se Fosbury non avesse inventato questo modo di saltare che porta ancora il suo nome, stravolgendo per sempre la percezione del salto.Sarebbe poi facile riferirsi ai 16 minuti più belli della storia dell’atletica italiana, quando nel 2021 a Tokyo Tamberi e Jacobs vinsero due ori a distanza per l’appunto di pochi minuti, ma io mi commuovo maggiormente se penso all’impresa nel canottaggio di Federica Cesarini e Valentina Rodini sempre a Tokyo, capaci di portare a casa la prima medaglia olimpica (un oro poi!) di una barca femminile italiana nel corso dei 45 anni in cui le donne hanno gareggiato alle Olimpiadi nello sport del remo, da Montreal ‘76. Conosco personalmente Federica e la considero una donna spettacolare, atleta che ti fa davvero capire il suono della fatica, in uno sport in cui ci si allena ore su ore e in cui capita regolarmente che ci si rompa le costole ma non per eventi traumatici, ma proprio perché è il lavoro del muscolo a spaccare le ossa. Altro che l’ora e mezza di allenamento di un calciatore, con rispetto parlando.Ci sono poi tutte le vittorie conseguite da atleti del Circolo Scherma di Jesi. Il fondatore Ezio Triccoli è stato prigioniero di guerra, esattamente come mio nonno (Triccoli venne portato in Sudafrica, mio nonno in India), si appassiona alla scherma in prigionia e tornato a Jesi apre il Circolo, istituzione che va a medaglie per l’Italia dall’oramai lontano 1988. Spettacolo puro e storia di sport che non ha eguali al mondo.Come quinto momento, penso spesso a come possa essere stata la maratona della prima Olimpiade. Oggi la gara per eccellenza sono i 100 metri, perché la mistica “dell’uomo più veloce del mondo” ha prevalso, ma resto convinto che per almeno quarant’anni la maratona sia stata “la” corsa di riferimento dell’Olimpiade. Noi, poi, abbiamo avuto la fortuna di vederne una che credo non si potrà mai più ripetere, quella del 1960 vinta a Roma dalla leggenda etiope Abebe Bikila, a piedi nudi. Il suo allenatore, lo svedese Onni Niskanen, gli indica il punto del percorso in cui secondo lui dovrà fare lo scatto decisivo, proprio all’altezza della Stele di Axum. Bikila non ha il coraggio di confessare all’allenatore quanto bene conosca quella Stele, bottino del regime fascista durante la Guerra d’Etiopia che tuttavia l’Italia ha pensato bene di restituire in tempi recenti ai legittimi proprietari, cosa che inglesi e francesi non fanno poi tanto spesso, anzi. Non credo davvero ci potrà mai essere una maratona tanto carica di significati: troppi gli elementi da allineare, troppa bellezza perché una storia simile possa essere replicabile in qualche altra occasione. Pensiamo poi alla straordinaria storia stessa di Bikila, che vincerà successivamente anche a Tokyo nel 1964, primo nella storia ad aver vinto due maratone olimpiche, arrivandoci in condizioni tutt’altro che perfette e che, dopo essere rimasto paralizzato dalla vita in giù in conseguenza di un drammatico incidente automobilistico, troverà in seguito la forza di gareggiare e addirittura di vincere anche le Paralimpiadi!

Sara Simeoni, Olimpiadi Mosca 1980

Le geografie in movimento della storia del medagliere olimpico. Dalla lunga ‘dittatura’ franco-anglosassone, quindi europea e americana, all’affiancarsi prima e al sorpasso poi dello sport di stato dei paesi del Patto di Varsavia, espressione di una grande organizzazione di ‘scuola’ drammaticamente alterata dal doping, fino all’irrompere nell’atletica leggera, disciplina regina dei Giochi, del grande Continente Nero e negli sport tutti, o quasi, della Cina. Per oggi rimanere a dir poco basiti dalla crescente marginalità a riguardo di una super potenza storica come la Germania. Cosa ti ha sorpreso di più in positivo e in negativo di questi globali sommovimenti e quali novità prevedi su questo terreno a breve e a medio termine? Come spieghi il declino della Germania?
Le Olimpiadi del 1968 rappresentano una svolta epocale anche perché è la prima edizione a tenersi in un Paese in via di sviluppo, la prima in uno Stato del contesto centroamericano, la prima in cui compaiono i tedeschi dell’Est e i fondisti degli altipiani kenioti, la prima con una tedofora donna, la mezzofondista messicana Enriqueta Basilio, appena ventenne all’epoca. Ogni nazione ha il proprio periodo storico di massimo fulgore. In quella edizione messicana noi vincemmo tre medaglie d’oro, mentre nella prossima credo ci potremmo assestare sulle 12-13. Gli atleti italiani sono migliorati come pochi altri al mondo negli ultimi cinquant’anni; in termini di medaglie siamo la nazione che forse ha fatto più progressi assieme alla Corea del Sud. Atleti che sono ancora più da apprezzare per essere riusciti ad arrivare lì, a quel livello, nonostante lo Stato italiano abbia fatto di tutto perché ciò non accadesse! Viviamo di miracoli individuali. È vero che il CONI è una grande organizzazione, ma sono evidentemente gli allenatori a fare la differenza in Italia, altrimenti queste dinamiche non si spiegherebbero in un Paese il cui sistema scolastico considera ancora oggi lo sport come una materia del tutto residuale. Per quanto riguarda la verticale flessione della Germania nella graduatoria del medagliere olimpico, beh, certo, fa una certa impressione se andiamo con la memoria solo a qualche decennio fa, quando le Germanie erano due e insieme valevano come e più degli Stati Uniti. Si tratta di un Paese che dal punto di vista sportivo sicuramente sta soffrendo nelle discipline olimpiche individuali classiche, il che naturalmente si spiega anche, e però non del tutto, con la fine dello sport di Stato drogato dal doping della fu Germania Est. Un bisogno di pulizia che forse ha determinato, conseguentemente, una sorta di impeto libero da parte di molti giovani nel sottrarsi alla disciplina ferrea di un certo modo di intendere lo sport. Non credo sia un caso a riguardo il dato oggettivo, e in decisa controtendenza rispetto al declino degli sport individuali, della crescita degli sport di squadra in una Germania in cui, salvo naturalmente il calcio, i team nazionali delle varie discipline dei giochi di squadra non avevano mai raggiunto chissà quali traguardi, anzi. Quasi ci fosse lì una più forte urgenza oggi di condividere la pratica sportiva piuttosto che di consumarla e di consumarsi in solitudine. Su tutti oggi basti ricordare qui il recentissimo e primo titolo mondiale di basket ottenuto nel settembre del 2023, superando in finale la pluridecorata Serbia grazie in particolare alle prestazioni convincenti di un giocatore simbolo della nuova Germania, quel Dennis Schröder che a dispetto del germanicissimo nome di tradizionalmente germanico ha davvero ben poco. Germania che in passato aveva avuto diversi ottimi giocatori, Dirk Nowitzki naturalmente una spanna sopra tutti, ma che mai aveva prodotto un vero movimento in grado di competere ai massimi livelli internazionali.

Elisa Di Francisca, Arianna Errigo e Valentina Vezzali, Olimpiadi Londra 2012

Al di là dei tuoi sport, quelli che da sempre ti catturano anima e mente, se dovessi redarre un tuo personale baedeker dei Giochi ad uso dei più giovani quali specialità indicheresti loro come un must irrinunciabile per vivere al meglio questi quindici giorni di pura emozione?
Beh, di sicuro il canottaggio, disciplina che non ha cambiato praticamente nulla nel corso della sua lunga e gloriosa storia. Certo, le barche sono di materiali più leggeri, ma il gesto del remare mantiene una nobiltà assoluta che si fa immutabile e non perde mai di fascino. Per immergersi nell’epica di questa disciplina consiglio vivamente di vedere il film The Boys On The Boat, incentrato sull’incredibile vicenda dell’equipaggio “8 con” americano sempre nelle nodali Olimpiadi di Berlino del 1936, dove alla fine vinse l’oro di fronte a Hitler. Quella storia mi ha emozionato a tal punto da farmi andare di persona a vedere dove fosse stata fisicamente costruita la barca “a otto” al centro dell’impresa, ossia a Seattle, precisamente all’Università di Washington. Mi colpisce sempre moltissimo vedere i luoghi che hanno segnato la storia dello sport, dove un’impresa nasce ancora di più rispetto al luogo in cui tutti gli sforzi arrivano a compimento. Come must irrinunciabili per me, quindi, alle Olimpiadi vanno sicuramente indicati gli sport di fatica, quelli che “non mentono”. Impossibile non provare ammirazione per Gregorio Paltrinieri, che ha deciso di non nuotare più, o meglio, non più solo in una comoda vasca, ma di lanciarsi in mare aperto contro avversari grassi e grossi il doppio di lui, che lo vogliono affondare ad ogni boa. Sarei proprio felice di vederlo vincere la medaglia d’oro, perché davvero non ho memoria di sportivi che nel bel mezzo della carriera abbiano avuto il coraggio di portare avanti un cambiamento così radicale.

Quale disciplina, o quale sportivo, secondo te ci sorprenderà per novità, per originalità in questa Parigi 2024?
Penso più che altro ad una disciplina che credo nessuno, o quasi, sappia far parte quest’anno per la prima volta del carnet olimpico: la break dance. Moltissimi italiani scopriranno la presenza di questa disciplina il giorno prima della gara, sport tra l’altro in cui abbiamo una fuoriclasse che potrebbe essere considerata la favorita addirittura per la medaglia d’oro, Antilai Sandrini in arte Bgirl Anti.

Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs, Olimpiadi Tokyo 2021

In questa maionese impazzita che è il nostro mondo in questo secondo decennio del secolo, con umanità sempre più connesse e globalizzate tecnologicamente e per usi e costumi eppure manipolate nelle loro più arcaiche paure da sovranismi e populismi di crescente e rara pericolosità, cosa ci dicono e come potranno incidere soprattutto nella cultura, nella mentalità delle nuove generazioni queste nazionali ormai davvero ovunque “united colours”? Quale impatto emozionale e anche proprio politico queste squadre meravigliosamente iridescenti potranno avere, insomma, su queste generazioni malissimo rappresentate lì dove si decidono le sorti del mondo?
Sono d’accordissimo con le tue premesse. Se non ci rendiamo conto di dover entrare in sintonia con un concetto di italianità sempre più ampio siamo destinati a rimanere indietro e non solo in ambito sportivo, condannati provincialmente ed ottusamente a non apprezzare e valorizzare tutti gli aspetti più positivi di questo magnifico, giovane melting pot. Gli ultimi Europei di atletica del giugno scorso sono stati emblematici da questo punto di vista, un manifesto pazzesco! Quando nel 1936 i tedeschi gareggiano contro gli americani sono furibondi proprio per la presenza di atleti afroamericani, considerati degli intrusi dall’opinione pubblica tedesca. «Cosa c’entrano?», si chiedevano increduli. C’entravano eccome, altroché! C’entrano ancora adesso e c’entreranno in futuro. È la storia dello sport americano a dirlo, mica noi o loro…

Federica Cesarini e Valentina Rodini, Olimpiadi Tokyo 2021

Letteratura, musica, cinema, arti sceniche, figurative, performative… Quali opere, quali artisti ti vengono alla mente quando pensi alle Olimpiadi?
Oltre alla Riefenstahl, mi vengono in mente i manifesti e le locandine che vennero creati a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 a presentazione delle Olimpiadi, prima che venissero fuori i pupazzi tuttora imperanti, il più delle volte devo dire stucchevoli. Affiche che considero veri e propri capolavori capaci, tra design e arte, di catturare lo spirito della manifestazione e dell’epoca in cui si collocava come poche altre cose al mondo. Una capacità mai sinora eguagliata di cogliere il gesto, il momento, connettendo mirabilmente segno artistico e passione popolare. Linee di disegno legate a quella particolare fase storica del Novecento e dell’arte moderna; allargando il campo direi più estesamente tra gli anni ’20 e gli anni ’60. Chissà che prima o poi, magari proprio a Venezia, non si riesca ad organizzare una mostra che ne raccolga un bel po’…

Come costruisci il nucleo primario, la chiave affabulatoria madre di tutti i tuoi racconti di cultura sportiva?
Deve essere una storia che mi piacerebbe ascoltare, questo di sicuro. Una storia collocata in un periodo storico in cui mi sento a mio agio, dove poter aggiungere qualcosa di mio, un personale contributo.

Immagine in evidenza: Jesse Owens, Olimpiadi Berlino 1936

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