La Salute è assai più che un voto per la liberazione della peste del 1630 e ci appare oggi come un indiscutibile capolavoro d’architettura, ma anche una sorta di emblema plastico ed esperibile del luogo-non-luogo in cui divino e umano vengono a contatto e sprigionano tutta la potenza incontenibile e misteriosa della creazione.
La Basilica della Salute è di certo uno dei maggiori capolavori dell’architettura veneziana di tutti i tempi, pare addirittura superfluo rammentarlo. Sia sotto il profilo del ‘disegno’, quindi del progetto e del linguaggio, sia sotto quello strutturale, essa si staglia nettamente al di là e al di sopra di altri esperimenti, di altre ricerche e soluzioni mai affrontate in città. Ma essa non fu, come si sa, universalmente accolta in quanto tale e conobbe un lungo periodo di sfortuna critica, essendo eletta a simbolo della decadenza dell’arte edificatoria e del capriccio dopo gli splendori palladiani e messa a confronto – quasi un ‘negativo’ del ‘positivo’ del Redentore – a dimostrazione di un tale processo di decadenza e di degrado. Sarebbero dovuti passare molti anni e molte riletture perché si tornasse a cogliere l’eccezionalità del manufatto. Sulla scorta del grande Rudolf Wittkower, Massimo Gemin e Antonio Niero e, più di recente, Andrew Hopkins e Martina Frank, hanno via via ingaggiato con la Salute una sorta di battaglia intellettuale per la decifrazione di segni e simboli, quelli che si erano fin da subito aggrumati attorno alla gigantesca cupola, agli ‘orecchioni’ a spirale, alla inedita delineazione di quella che era stata pensata come una grande ‘corona’ mariana. Per svelare, infine, il codice misterioso sotteso al fantastico monumento.
Eppure anche il trionfo di Baldassare Longhena che della Salute fu l’ideatore e il realizzatore, ebbe a subire l’onta di uno scacco, per lui particolarmente doloroso e bruciante. Dopo aver vinto il concorso per la Salute (i concorsi erano frequenti nelle cose d’arte veneziane e non erano esenti da intrallazzi e accordi extra-giudiziari, come si sa: basti pensare al Tintoretto attivo nella Scuola di S. Rocco) infatti, Baldassare fu nettamente sconfitto nel concorso per il rifacimento della Punta della Dogana, cioè l’intervento che avrebbe concluso la profonda ristrutturazione di tutta quest’area cittadina. Il concorso fu appannaggio di un oscuro ingegnere idraulico, Giuseppe Benoni, cui toccò il difficile compito di confrontarsi con il capolavoro di Longhena. Il risultato fu eccellente: egli accompagnò il digradare dimensionale dell’insula verso il Bacino di San Marco con una soluzione scenografica sospesa tra enfasi monumentale e sottile ironia e pose la statua della Fortuna ignuda come segnavento sopra la sfera dorata che ruba addirittura la scena alla statua della Vergine (lontana e difficilmente visibile sul cupolone longheniano).
Curioso destino della Salute fu, invece, quello di far da collettore di capolavori già esistenti in altri edifici religiosi della città. Così se la Salute ebbe per sua destinazione primaria, alcune pale di Luca Giordano e altre opere minori più tarde e non troppo felici, vide però giungere tra le sue mura un invidiabile florilegio pittorico tizianesco: La pala della Pentecoste; il San Marco in trono e quattro santi, le tre tele con Caino e Abele, il Sacrificio di Isacco e David e Golia e gli otto tondi con Evangelisti e Dottori della Chiesa, tutte opere provenienti dal soppresso, abbandonato e poi demolito complesso lagunare di Santo Spirito in isola dei canonici agostiniani da dove provengono anche varie tele del Salviati, mentre la celebre tela con le Nozze di Cana di Tintoretto si trovava in origine nel refettorio del convento dei Crociferi, corporazione soppressa nel 1657, insediata nel luogo dove oggi sono i Gesuiti.
È sempre stato giudicato pregevole l’apparato plastico dell’intero complesso, affidato per la gran parte al fiammingo Giusto Le Court (spiccano le statue della gran macchina dell’altar maggiore) che fu un abituale collega e collaboratore di Longhena. La Salute è assai più che un voto per la liberazione della peste del 1630 e ci appare oggi come un indiscutibile capolavoro d’architettura, possente e aerea, con le sue straordinarie membrature in pietra che appaiono librarsi in una cascata di luce; ma ci appare anche, forse soprattutto, una sorta di emblema plastico ed esperibile del luogo-non-luogo (apotropaico non meno che simbolico) in cui divino e umano vengono a contatto e sprigionano tutta la potenza incontenibile e misteriosa della creazione.