Volontà cocciuta e limpidissima

Memorie dalla prima esecuzione del Prometeo
di F.D.S.

In quei giorni del settembre 1984 – probabilmente non era la “prima” del 25, ma il 26 o il 27 – anch’io entrai nella Chiesa di San Lorenzo, mi sedetti sulle poltroncine da regista destinate al pubblico e partecipai all’ascolto, ma Nono avrebbe preferito parlare di ‘visione’, del Prometeo.

Quella sera attraversammo un momento magico, in cui un avvenimento artistico si intersecò con la storia di una città e di un Paese.

Purtroppo non ricordo nulla di quella sera, o meglio, ne conservo una memoria subliminale, una serie di sensazioni percettive, come illuminate per un attimo da una luce accecante che poi si estingue nel buio. In quegli anni la mia memoria gagliarda ed impertinente propria degli anni del liceo era stata messa a dura prova da una ventina di esami di Giurisprudenza, per superare alcuni dei quali avevo letteralmente imparato a memoria libroni di un migliaio di pagine, e ne era uscita parecchio malconcia. Un po’ come il corpo di un’atleta che riesce a portare a termine una maratona ma ne esce così provato da non potere più affrontare imprese simili.

Fatto sta che davvero di quella sera di 39 anni fa non ho nessun ricordo preciso e definito. Sempre in quel periodo tenevo un diario, erratico e incostante, e sono andato a consultare il quaderno relativo al settembre 1984. Non ho trovato nulla che riguardasse quella sera, però ho trovato un appunto su Prometeo, che fa così: «Prometeo è incatenato alla luce del Citerone, i suoi piedi calpestano da anni la stessa sabbia, è diventato cieco per troppa luce. Narciso annega nello stagno che puzza di escrementi, nella palude che riflette altro che il confine della sua ombra». Dubito sia farina del mio sacco, ma non saprei attribuire un autore a queste righe. Peraltro cosa c’entra il Citerone con Prometeo? Il Citerone è un monte molto legato al mito greco: nei suoi boschi Zeus celebrò le nozze con Era, Atteone trasformato in cervo fu sbranato dai suoi stessi cani, Orfeo suonava la sua cetra in onore di Dioniso, Edipo fu abbandonato per scongiurare l’oracolo, i Niobidi furono trafitti dalle frecce di Apollo e Artemide per punire l’arroganza della loro madre Latona. Ma Prometeo era incatenato ad una vetta del Caucaso, non sul Citerone. E cosa c’entra Narciso con Prometeo? Se possibile, questa citazione, quand’anche fosse riferita al Prometeo di Luigi Nono, infittisce d’oscurità e mistero la già nera notte della mia memoria. E allora cerchiamo di sforzarci a mettere sulla carta quei bagliori che illuminano per un attimo il vuoto e trasformano la memoria precisa, fotografica, circostanziata in percezioni vaghe e indefinite.

E se il Prometeo nasce proprio dalla volontà cocciuta e limpidissima di Nono di farla finita con la forma convenzionale del teatro musicale e creare una frattura tra il vedere e l’ascoltare, allora quella mia inquietudine visiva di allora deve essere letta come un segnale che la scommessa del compositore era vinta.

La prima percezione che mi porto dietro da quella sera è la frenesia degli occhi, che vagavano da un punto all’altro all’interno dell’arca progettata da Piano, senza posarsi mai su di un’immagine che ‘soddisfacesse’ la vista. Certamente vedevo alcuni musicisti che suonavano ai livelli superiori dell’arca, o parti dei loro corpi, ma soprattutto vedevo gli altri spettatori. Dalla ricostruzione che ho tentato di fare attraverso le foto di scena le sedie per il pubblico non erano disposte in un unico senso, ma formavano una specie di ferro di cavallo, per cui all’assenza visiva dei creatori del suono corrispondeva un eccesso ottico degli spettatori. E se il Prometeo nasce proprio dalla volontà cocciuta e limpidissima di Nono di farla finita con la forma convenzionale del teatro musicale e creare una frattura tra il vedere e l’ascoltare, allora quella mia inquietudine visiva di allora deve essere letta come un segnale che la scommessa del compositore era vinta. Rendere impossibile all’ascoltatore di concentrarsi su di un punto di convergenza ottica qual è la figura del direttore, dalla quale si riproietta un altro cono visivo allargato a comprendere l’orchestra, nella sua totalità e nella specificità di ogni singolo musicista. Questo credo fosse il senso dell’arca lignea del Prometeo: trasportarci tutti verso la tragedia dell’ascolto ottenuta attraverso questa negazione del ‘vedere il suono’, che dall’Ottocento in poi si era sostituito come un virus al fatto di ‘ascoltare’ il suono.

Una città e una istituzione culturale hanno messo insieme le menti migliori di una generazione, li hanno fatti lavorare e progettare insieme un’opera radicale, assoluta, il frutto di un allineamento astrale unico.

La seconda percezione non è fisica come la prima, ma probabilmente si struttura nel tempo a partire da quella sera lontana del settembre 1984, e si va ingigantendo man mano che il ricordo dei Titani si va facendo sempre più struggente. Ed è la consapevolezza chiara, inesorabile, dolorosa, che quella sera attraversammo un momento magico, in cui un avvenimento artistico si intersecò con la storia di una città e di un Paese. Questo momento magico fu anche un punto di non ritorno, come in ogni movimento dialettico, un punto-limite passibile solo di segnare, da allora in avanti, un confine inavvicinabile. E non sto parlando tanto della qualità musicale del Prometeo, quanto dello sforzo e dell’impegno collaborativo che furono necessari per varare l’impresa del Prometeo, e che mi sembrano ancora più importanti della musica in sé. Nono, Cacciari, Piano, Vedova, Abbado: Basaglia era morto da qualche anno, se fosse stato ancora in vita mi sarebbe piaciuto venisse coinvolto anche lui nella progettazione di questa impresa. Una città e una istituzione culturale hanno messo insieme le menti migliori di una generazione, li hanno fatti lavorare e progettare insieme un’opera radicale, assoluta, il frutto di un allineamento astrale unico. Sono fiero di esserci stato, in quella serata del settembre 1984, e ci sono giorni in cui il ricordo di quella sera, anche se, come vi ho spiegato prima, è del tutto assente nella mia mente, mi scalda un po’ il cuore.

 

Immagine in evidenza: Photo Lorenzo Capellini. Courtesy Archivio della Biennale
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