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Il latte dei sogni
Un maestro, un esempio, ma soprattutto un amico, questo è stato ed è Daniele Del Giudice per Roberto Ferrucci, che ci racconta i trent’anni della loro amicizia nel suo bellissimo libro Il mondo che ha fatto, pubblicato da La nave di Teseo.
I due scrittori si conoscono nel 1985 alla Libreria Don Chisciotte di Mestre. Ci sono undici anni di differenza tra loro, Ferrucci sta studiando all’università, Del Giudice è già un autore affermato che sta per pubblicare Atlante occidentale, il suo secondo romanzo. Da allora le loro vite si intrecciano. Ferrucci farà la tesi su Del Giudice e lui gli affiderà parte del suo archivio, mettendolo in un grande sacco dell’immondizia. Lo porterà in volo su Trieste per ‘incontrare’ un certo Ettore (Ettore Schmitz, Italo Svevo), ci sarà un viaggio insieme in Jugoslavia, vivranno la comune amicizia con Antonio Tabucchi, l’incontro con Wim Wenders, regista mito di quel periodo, a cui Del Giudice aveva scritto l’introduzione del libro fotografico Una volta.
Molti i racconti che testimoniano la loro confidenza e complicità, gli aperitivi al bar di Campo San Polo, vicino a casa di Del Giudice, le chiacchierate, la pasticceria Targa, usata come ufficio postale dove lasciare pacchetti e corrispondenza, le pizze alle Zattere, Del Giudice che recupera il portafoglio di Ferrucci mentre galleggia sul Canale della Giudecca, le esperienze lavorative di entrambi, come Fondamenta. Venezia città di lettori, festival che Del Giudice dirige per quattro edizioni, o il lavoro di autore a TeleCapodistria di Ferrucci.
Del Giudice aveva un’aria molto seria, metteva un po’ di soggezione. Ci colpisce, invece, che Ferrucci ce lo descriva sempre pronto allo scherzo. Anche Roberto stesso ne è vittima più volte, in uno c’è persino la complicità di Tabucchi. Del Giudice è un uomo coltissimo, sempre curioso degli altri, amante della meccanica e soprattutto del volo; è un pilota esperto e a questa sua grande passione dedicherà il romanzo Staccando l’ombra da terra.
Poi l’inizio di una malattia crudele, le prime difficoltà, i primi vuoti che lo fanno ordinare, si tratti di un tè o di una pizza, “Anch’io”, perché la memoria si inceppa e lui, che era stato precisissimo e meticoloso nei suoi romanzi, non riesce più a trovare un nome alle cose. Con grande delicatezza e commozione Ferrucci ci racconta il senso di smarrimento degli amici più vicini, mentre il buio avvolge lo scrittore che progressivamente perde la memoria, diviene sempre più assente, non riesce più neppure a riconoscere gli amici, i suoi cari. Un uomo che al linguaggio aveva dedicato la vita, il suo lavoro così importante, si ritrova incapace di esprimersi.
Del Giudice, a soli 62 anni, viene ricoverato alle Zitelle, struttura per persone affette da Alzheimer, dove rimarrà fino alla morte avvenuta nel 2021. Ferrucci racconta le visite dolorose, frustranti alle Zitelle, condivise, per cercare forse di alleggerire il disagio, con l’amico di sempre Tiziano Scarpa, altro grande scrittore veneziano.
Là Ferrucci porta a Del Giudice In questa luce, il suo libro di saggi appena pubblicato, ma l’autore non se ne rende conto, è ormai assente, vive in una realtà tutta sua, si arriva così fino all’episodio più doloroso, che lasceremo scoprire al lettore.
I toni sono sempre misurati in questo libro, i racconti toccanti e pieni di vero affetto, rispetto. Traspare con autentica pienezza quanto Ferrucci sia legato a Del Giudice, suo punto di riferimento assoluto fin da quando aveva letto Lo stadio di Wimbledon, per lui una sorta di romanzo di iniziazione da cui rimane folgorato e che nelle sue pagine ritorna spesso.
Roberto Ferrucci è nato a Venezia (Marghera) nel 1960. Ha esordito nel 1993 con il romanzo Terra rossa, a cui sono seguiti Cosa cambia, Storie che accadono dedicato ad Antonio Tabucchi e che forma un dittico con Il mondo che ha fatto. Collabora con alcuni quotidiani. È traduttore italiano di Jean-Philippe Toussaint. Dal 2002 insegna Scrittura creativa alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova. Per Helvetia Editrice dirige la collana Taccuini d’autore.
Chi è stato e quale ruolo occupa oggi nel panorama letterario italiano Daniele Del Giudice?
Semplice: uno dei più grandi scrittori italiani di sempre. Ci è voluto questo libro, che mi è costato più di dodici anni di lavoro, per trovare il coraggio di affermarlo, ma, soprattutto, per avere la certezza di non esagerare. Attraversare di nuovo e ripetutamente i suoi libri, i suoi articoli, le interviste, aver ripercorso la nostra amicizia, aver fatto – come ha scritto Claudio Magris nel testo con cui ha candidato il libro al Premio Strega – un lavoro da officina del romanzo, necessario per assemblare tutte le varie dimensioni della sua scrittura, farle fluire in una narrazione che contenesse anche le tappe della nostra amicizia, tutto questo mi ha dato conferma della sua grandezza.
Uno dei più grandi scrittori italiani di sempre. Ci è voluto questo libro, che mi è costato più di dodici anni di lavoro, per trovare il coraggio di affermarlo
Quale è stato il suo più grande insegnamento?
Difficile isolarne uno in trent’anni di frequentazione e di letture e riletture di tutto ciò che ha pubblicato (e anche qualcosa di non pubblicato, finito quella sera di fine anni Ottanta nel grande sacco delle immondizie…). Tra tutti forse sceglierei la sua personale visione della scrittura. Una scrittura che non deve mai essere finalizzata alla presenza costante dei propri libri sugli scaffali e nelle vetrine delle librerie. No. Questo non ha mai interessato Del Giudice, che è sempre stato in disparte, evitava il più possibile di mettersi in mostra, di essere al centro dell’attenzione, perciò poca, pochissima televisione. Niente mondanità, niente salotti. Scrittura e basta. Una scrittura elaborata, attenta, precisa, lenta, con la quale scrivere solo ed esclusivamente i libri che lui sentiva necessari, quelle storie che girano dentro di te per anni e che quando arriva il momento sono loro stesse a chiederti di essere narrate. Ecco, questo mi ha trasmesso, anche se io oggi sto attraversando l’Italia per portare in giro questo libro e i suoi. Si legge sempre meno nel nostro Paese. I libri ormai bisogna quasi presentarli porta a porta, casa per casa.
Tra tutti i suoi romanzi qual è il suo preferito?
Ho avuto la fortuna, ma solo per motivi anagrafici, di leggere Lo stadio di Wimbledon appena uscì, nel 1983. Quello è il mio libro di Daniele Del Giudice. Però, a chi dovesse avvicinarsi oggi alla sua scrittura, suggerirei di partire da Nel museo di Reims, oggi inserito nel libro Racconti pubblicato da Einaudi.
Del Giudice amava Venezia, l’aveva scelta, ma era una città ben diversa da quella che viviamo quotidianamente nel nostro presente. Pensa che si sarebbe trovato bene anche oggi in una città così stravolta da folle di turisti e degrado?
Credo che, come facciamo noi che qui ancora tenacemente viviamo, avrebbe cercato di resistere. Avrebbe trovato il modo di darsi da fare per cercare di fermare una deriva, quella della città giocattolo, che sembra sempre più ineluttabile. Del resto lo ha sempre fatto, come quando si candidò per la lista Il Ponte a inizio anni Novanta, o quando creò la manifestazione culturale Fondamenta, regalando alla città un evento internazionale di qualità con dei contenuti altissimi. Lui non ha mai scritto direttamente di Venezia nei suoi libri. Ma i tempi e le luci della città sono dentro la sua scrittura, la quale, senza il suo vissuto veneziano, non sarebbe stata quella che conosciamo.