Paul B. Franklin cura per la Collezione Peggy Guggenheim una mostra che tra opere e prestiti si interroga sul concetto di ‘copia’ tanto centrale per l’opera di Marcel Duchamp: un viaggio nella mente di una figura che ha cambiato per sempre il mondo dell’arte e del pensiero contemporaneo.
«Non volevo essere chiamato artista. Volevo sfruttare la mia possibilità di essere un individuo, e suppongo di averlo fatto, no?».
Così rispondeva Marcel Duchamp (1887–1968) in una intervista rilasciata nel 1966.
La sua azione di rottura con quello che avvenne prima e quanto sarebbe successo dopo era indissolubilmente legata al concetto di ready-made, il suo più innovativo e iconico contributo alla storia dell’arte. È riconducibile al 1913, con la Roue de bicyclette che dalla cantina di Parigi salì su piedistallo a ricordargli le vampate del camino della casa di campagna, fino al 1915 quando lo stesso Duchamp ne definì a New York il concetto scrivendo poco dopo alla sorella di prendere dallo studio di Parigi uno scolabottiglie, di apporvi un’iscrizione e di firmarlo “Marcel Duchamp”.
Provocatorio o geniale?
Scriveva Pontus Hultén, in occasione della storica mostra monografica di Palazzo Grassi del 1993, che l’artista aveva sentito nella sua vita molto forte il timore dell’oblio. Dopo un periodo di fama incondizionata precedente alla Prima guerra mondiale quando tra New York e Parigi, non ancora trentenne, era considerato il più grande e assoluto innovatore dell’arte, a metà degli anni ‘30 (erano gli anni dei regimi in Europa e l’arte aveva preso tutt’altra piega) le cose cambiarono, così la percezione dell’arte; iniziò a pensare ad un museo portatile per i suoi lavori nel timore di perderli e da questa idea nacque la Boîte-en-valise, una valigia per contenere le più importanti riproduzioni delle sue opere realizzate fino a quel momento.
In realtà il motivo della sua temporanea sparizione/oblio sarebbe stato legato, secondo il critico francese, all’avversione di Duchamp all’idea di unicità del manufatto artistico quale opera unica e commerciabile, un concetto troppo forte per non sovvertire già allora il mondo dell’arte.
Contrario all’idea della ripetitività dell’opera intesa come uno stesso soggetto riproposto in originale più volte all’infinito, introdusse il concetto di copia e proprio da questo partirà la mostra che apre il 14 ottobre alla Collezione Peggy Guggenheim, Marcel Duchamp e la seduzione della copia, a cura di Paul B. Franklin. In un percorso espositivo diviso per sezioni correlate tra loro, sono messe in relazione una sessantina di opere realizzate tra il 1911 e il 1968 e provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dal Philadelphia Museum of Art, dal MoMA e il Guggenheim di New York, oltre ad un nucleo meno conosciuto del patrimonio personale dell’artista. A questi prestiti si aggiungono opere di collezionisti privati internazionali, tra cui il lungimirante veneziano Attilio Codognato, tra i primi a scoprirlo in Laguna negli anni ‘70. Importante una selezione di opere della stessa Peggy, che conobbe Duchamp a Parigi nel 1923, trasformandolo dal 1937 nel suo mentore di fiducia al punto che il suo ruolo si rivelò per lei essenziale nell’apertura della galleria Guggenheim Jeune a Londra, inaugurata nel 1938 e da cui partì la sua intrigante collezione.
In mostra a Venezia oltre al Nudo che scende le scale, trasposizione in pittura dell’idea del corpo in movimento ancora cubista nella scomposizione della forma, il Giovane triste in treno, ma non poteva mancare uno dei primi acquisti di Peggy risalente al 1941, quella Scatola in valigia forse il suo contributo più criptico alla storia dell’arte che incarna quel concetto fondamentale ed eversivo di sradicamento nella tradizionale gerarchia di valori, laddove non vi è distinzione tra originale e copia, tanto da averlo portato a sostenere che «distinguere il vero dal falso così come l’imitazione dalla copia è una questione tecnica del tutto idiota». Per questa ragione riproduce i suoi lavori con tecniche e dimensioni diverse, in edizioni a tiratura limitata insistendo sul concetto che il piacere estetico suscitato dall’originale o dalla copia è lo stesso. Per Marcel Duchamp l’idea che un’opera incarna ha lo stesso significato dell’oggetto in sé; quasi una sorta di noumeno di platonica memoria.
Non a caso Breton, dopo una discussione con lui, disse che la pittura non aveva ancora trovato il suo Gutenberg, mentre Apollinaire gli riservò un ruolo fondamentale nell’arte del futuro tanto da rivedere il suo volume del 1912 su Les Peintres Cubistes, concludendolo in maniera persino lapidaria «[…] sarà forse compito di un artista tanto distaccato dalle preoccupazioni estetiche, tanto pieno di energia quanto Marcel Duchamp, di riconciliare l’Arte e il Popolo».
Immagine in evidenza: Marcel Duchamp De ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy (Boîte-en-valise), 1935–1941, Edizione deluxe: I/XX, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim (Solomon R. Guggenheim Foundation, New York) © Association Marcel Duchamp, by SIAE 2023