81. Venice Film Festival
80. Venice Film Festival
79. Venice Film Festival
The Biennale Arte Guide
Foreigners Everywhere
The Biennale Architecture Guide
The Laboratory of the Future
The Biennale Arte Guide
Il latte dei sogni
Un Festival imperdibile, ad alto tasso di qualità.
Nell’infinita teoria di festival, tra rock e dintorni, sparsi nella nostra sottile e lunga penisola, ve ne sono alcuni che hanno davvero negli anni costruito una vera e propria grammatica del fare festival indipendente, costituendosi come una sorta di archetipica fonte di ispirazione per tutti gli altri. Alcuni di questi non sono necessariamente attivi da molto, anzi, vedi Sexto ‘Nplugged, un vero gioiello indipendente che ogni estate, in quel meraviglioso borgo scrigno di arte e storia che è Sesto al Reghena, offre davvero il meglio della scena indie, perlopiù emergente ma non solo, internazionale. Altri invece hanno un’età assai più adulta, vedi Ferrara sotto le Stelle, dove dagli anni ‘90 in giù è davvero passata tutta, ma proprio tutta la créme dell’indie rock internazionale (qualche nome? Beh, Beck, PJ Harvey, Radiohead, Lou Reed, Sakamoto, Arcade Fire…può bastare?).
Preceduta da un paio di anteprime a dir poco imperdibili, vale a dire i Godspeed You! Black Emperor, autentica band faro del miglior post rock esibitasi lo scorso 11 marzo all’Estragon Club di Bologna, e Steve Wynn, leader di una delle band davvero cruciali dell’indie rock anni ’80, quando indie significava davvero riserva indiana per pochi, ossia i Dream Syndicate (chi tra i boomers non ha ascoltato una volta almeno The Medicine Show?), esibitosi lo scorso 6 aprile nella Sala Estense accompagnato dal violinista e compositore Rodrigo D’Erasmo, l’edizione 2025 di Ferrara sotto le Stelle, che ritorna nel magico sito del Cortile del Castello Estense, si presenta come un vero e proprio festival compatto, ossia una sei giorni senza respiro, dal 10 al 15 giugno, in cui si esibiranno, in un programma davvero all’insegna del crossover per la molteplicità dei linguaggi sonici proposti, musicisti italiani ed internazionali tutti, a proprio modo, espressioni della scena indipendente più radicale, inteso l’aggettivo qui come disposizione ad assecondare verticalmente, e in primis, la propria vocazione artistica. Si va dai seminali Stereolab, cruciale band art rock dei ’90, la cui miscela di elettronica e rock disegna un tessuto sonoro in cui poi si sovrappongono svariati altri generi, ai Porridge Radio, abrasiva band post punk di Brighton capitanata dalla frontwoman Dana Margolin, dall’attesissima reunion del collettivo, perché di questo più che di una mera band si tratta, Offlaga Disco Pax, veri eredi dei CCCP scioltisi nel 2014 e ora nuovamente in scena per riproporre il loro album d’esordio Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione), al giovane musicista e cantautore siracusano Marco Castello, ironico e dissacrante cantore di un provincialismo contemporaneo a tinte contrastanti, in perenne bilico tra vivida e resiliente bellezza e mesto degrado, da Ani Di Franco, storica e militante cantautrice americana, attivista sul fronte dei diritti civili, preceduta in scena dall’attesissimo ritorno di una delle migliori espressioni autoriali al femminile della scena italiana, Angela Baraldi, ai grandissimi Tinariwen, gli alfieri della straordinaria scena del cosiddetto desert blues. Band quest’ultima davvero imperdibile, lo dico per esperienza anche personale. Ebbi l’occasione, infatti, di vederli nel loro esordio newyorchese alla Bowery Ballroom nel 2011, dove presentavano per la prima volta nella mecca mondiale del rock il loro travolgente, ipnotico impasto di suoni risultato di una incredibile e riuscitissima fusione tra le loro radici folk sahariane e un blues elettrico di chiara matrice occidentale. Tuareg, alcuni di loro militanti attivi nella difesa della propria cultura, addirittura combattenti in guerra per la sopravvivenza del loro popolo migrante, in scena davvero producono una dimensione di trance elettrificata, dove si è trascinati via nelle distese di sabbia colorate dalla luce della luna con delle trame sonore ossessivamente circolari, che però avanzano inesorabili all’incedere quasi marziale delle linee di chitarra del leader Ibrahim Al Aghalib, che sembrano disegnare un filo vivo tra John Lee Hooker e Jimi Hendrix. E però con la sabbia a sgranare i suoni, mai riducibili a un canone uno. World music? Se non la loro quale?