Il balzo collettivo

Fosbury Architecture porta nel Padiglione Italia nuove generazioni di progettisti
di Mariachiara Marzari
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Il collettivo milanese racconta una generazione cresciuta e formatasi in uno scenario di crisi permanente e che per questo ha fatto della collaborazione, della condivisione e del dialogo la base di ogni propria attività.

Incontriamo un collettivo che si fa portavoce di quei progettisti italiani “nativi sostenibili” che hanno già accettato tutte queste sfide e per i quali la transdisciplinarietà è uno strumento per espandere i limiti dell’architettura, un’architettura in cui il manufatto costruito è un mezzo e non un fine ultimo.

Il vostro modo alternativo di pensare l’architettura, o meglio collaterale, si dichiara immediatamente attraverso l’omaggio a Dick Fosbury, recentemente scomparso. Quale significato assume nel vostro percorso professionale questo riferimento a uno straordinario campione “volante”? Quale il vostro pensiero collettivo e quali invece le sfumature che ognuno di voi apporta a questo approccio condiviso verso l’architettura?
Abbiamo scelto di riconoscerci nella bellissima storia di Dick Fosbury, consumatasi negli storici Giochi Olimpici di Città del Messico del 1968, non tanto per la medaglia d’oro da lui vinta in quell’occasione, quanto per l’ispirazione che ci ha fortemente suscitato quella sua idea rivoluzionaria di stravolgere la tecnica tradizionale di salto, il ventrale, prima di allora da tutti seguita. Una suggestione che ci ha spinto, attraverso un attento studio delle regole del gioco della nostra professione, a trovare, o perlomeno a cercare di trovare, a nostra volta una tecnica alternativa nel pensare e nel progettare l’architettura. Quando abbiamo fondato il collettivo nel 2013, dieci anni fa, quel rivoluzionario gesto sportivo è stato da noi scelto ed interpretato come un invito a fare altrettanto nella nostra disciplina, in un momento in cui l’ostacolo impervio da superare era rappresentato dalle forti difficoltà a praticare in un mercato povero di occasioni per via dalla crisi economica. Ci siamo sin da subito organizzati con una struttura orizzontale che permettesse di collaborare attraverso una piattaforma condivisa, in modo da poter preservare passioni ed interessi di ciascuno di noi. Ogni progetto nasce sempre da una discussione che ci coinvolge tutti ed è forse per questo che emerge costantemente nei nostri lavori una forte componente narrativa, che ci serve a costruire quel terreno comune per poter conciliare le nostre diverse individualità.

Una visione dell’architettura come pratica di ricerca multidisciplinare al di là dei manufatti e della progettazione, come risultato di un lavoro collettivo e collaborativo che supera l’idea dell’architetto-autore. In questa visione lo spazio è inteso come luogo fisico e simbolico, area geografica e dimensione astratta, sistema di riferimenti conosciuti e territorio di possibilità

Il vostro pensiero architettonico pare fondarsi su una visione dello spazio inteso come luogo fisico e simbolico insieme, area geografica e dimensione astratta, sistema di riferimenti conosciuti e territorio delle possibilità. Come definite il vostro approccio alla pratica architettonica?
Siamo stati educati a pensare al manufatto come il fine ultimo da perseguire, ma in un contesto come quello italiano, già ampiamente urbanizzato, e in risposta alla crisi ambientale con cui dovremo fare sempre più i conti, forse il lavoro degli architetti dovrebbe prendersi cura dell’esistente limitando l’uso delle risorse al necessario. Per questa ragione abbiamo voluto allargare lo sguardo allo spazio, ovvero a quel tessuto di relazioni tra comunità e luoghi che dovrebbe costituire il punto di riflessione primo per qualsiasi progetto di architettura. Una nozione espansa della disciplina, che vede gli architetti come mediatori tra diversi saperi contrariamente alla retorica che li vorrebbe come i soli registi del processo progettuale, condizione peraltro molto distante dalla concreta realtà della professione. Negli anni abbiamo affrontato progetti di natura molto diversa: dalla progettazione di architetture effimere ed allestimenti al restauro di labirinti storici, da lavori progettati in collaborazione con aziende alla realizzazione di libri e fanzine indipendenti, dalla catalogazione di opere pubbliche incompiute alla curatela. Nonostante questo ampio ventaglio di attività su cui ci siamo cimentati, l’approccio è sempre stato e continua ad essere lo stesso: sfruttare ogni occasione, commerciale o indipendente che sia, per osservare criticamente il contesto in cui operiamo e produrre ricerca che possa informare il prodotto finale.

 

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Una disposizione eterogenea ed eclettica, quindi, connotata da una continua tensione verso la ricerca. Quali sono i pro e i contro di questa attitudine professionale?
Nonostante l’autorialità di una pratica, ovvero la riconoscibilità del tratto distintivo del progettista, sia considerata dai più come un valore da perseguire oltre che una componente fondamentale del successo dei singoli, sin dall’inizio abbiamo preferito seguire i nostri interessi e le nostre inclinazioni puntando piuttosto su un approccio alla progettazione riconoscibile. Il nostro percorso può sembrare incoerente, eppure ci ha permesso di espandere progressivamente il nostro campo di osservazione in una prospettiva costantemente aperta i cui effetti si sono concretizzati in una produzione diremmo inaspettata. Per contro è molto difficile far capire esattamente di cosa ci occupiamo, sia ai clienti che agli esperti di settore. Da questo punto di vista, però, non ci consideriamo affatto un’eccezione. Apparteniamo ad una generazione che ha dovuto reinventarsi professionalmente, ma anche il mercato dell’architettura è in costante mutamento per via delle fluttuazioni congiunturali e per un cambio culturale che sta spingendo i progettisti ad interrogarsi sulla sostenibilità oltre gli slogan.

Come nasce l’idea di Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri e quale significato assume nel contesto specifico del Padiglione Italia alla 18. Biennale Architettura?
Abbiamo immaginato Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri come l’occasione per rappresentare una generazione di progettisti che a nostro avviso sta cercando di immaginare nuovi campi per l’architettura, seppur con approcci differenti. Sin da subito abbiamo inteso la mostra come un’occasione di progetto per le pratiche coinvolte, oltre che un’opportunità di utilizzo virtuoso delle risorse stanziate. Si tratta di progetti pionieristici, di azioni concrete, siano esse effimere o invece permanenti, sempre rivolte a comunità locali che in diversi casi ne saranno poi custodi. È un lavoro pensato su un orizzonte temporale espanso, che guarda oltre la durata semestrale della Biennale 2023, dove ciascun intervento rappresenta solo l’inizio di un processo da svolgersi nel tempo in forme condivise sui territori. L’impatto di queste azioni, di queste progettualità dev’essere duraturo, almeno questo vuole essere nelle nostre intenzioni programmatiche. In questa complessa organizzazione, in questa composita teoria di idee progettuali abbiamo deciso di ritagliarci un ruolo di tessitori di una rete di intelligenze a servizio di un progetto collettivo di cui noi stessi facciamo parte.

La prima fase del progetto per La Biennale 2023 rappresenta la sintesi formale e teorica dei processi innescati in nove distinti territori nei mesi precedenti, restituendo una diversa e originale immagine dell’architettura italiana nel contesto internazionale. Perché sono stati scelti questi specifici territori/progetti? Quali caratteristiche significative sono emerse? Quali infine i risultati di questi lavori che sono ora parte integrante del Padiglione Italia?
Sono nove territori rappresentativi di condizioni di fragilità o trasformazione del nostro Paese. Ciascun sito incarna un tema urgente del dibattito contemporaneo calato nel contesto italiano. Sfide impossibili se affrontate globalmente come la convivenza con il disastro ambientale, il recupero delle opere pubbliche incompiute, la transizione alimentare e molto altro, ma che alla scala dei contesti locali possono dare dei riscontri tangibili. Sono luoghi in cui i partecipanti hanno già lavorato e ai quali sono quindi legati da un’affinità in termini di ricerca o di provenienza geografica. Spaziale presenta rappresenta una sorta di osservatorio sull’attivazione dei diversi progetti che ha documentato il processo collaborativo tra progettisti e comunità locali. In alcuni casi si è trattato della realizzazione di eventi e performance, in altri di strutture temporanee, in altri ancora, infine, di un’infrastrutturazione permanente di un determinato sito. Il risultato più evidente di questa sfida curatoriale è che il Padiglione Italia non sarà solamente a Venezia, ma anche in tutti i luoghi che sono stati attraversati, interessati dal progetto espositivo complessivo.

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Confini, tetti, incompiuti, eco-mostri, dispositivi, contaminazioni, giungle metropolitane, foreste totali, sistemi alimentari e installazioni ricreative. Attraverso i nove progetti e gli altrettanti studi coinvolti in queste ‘azioni architettoniche’ avete creato un laboratorio diffuso sul presente al fine di immaginare un altro domani nel pensare e nel realizzare architetture. Quale potrà davvero essere, allora, a vostro parere il futuro Spaziale di un Paese come l’Italia?
Il desiderio è che queste azioni rappresentino l’innesco di processi di lungo periodo nei nove luoghi scelti, ma anche ispirazione per progetti simili in altri territori da parte di attori differenti. In un contesto quale quello della pratica architettonica in Italia, caratterizzato da problematicità croniche come la sovrabbondanza di progettisti e la difficoltà nell’intercettare commesse, riteniamo sia importante rendere evidente il fatto che gli architetti oggi possono cimentarsi in più direzioni, anche le più impreviste, con nuove idee e soluzioni sostenibili. Come ricordato da Lesley Lokko, i practitioner sono tra le poche figure in grado di dare forma a nuove politiche pubbliche e di immaginare diversi modi di abitare in risposta all’attuale crisi ecologica, crisi che produrrà da qui in avanti un impatto sempre maggiore sulle nostre vite quotidiane. Per questa ragione, piuttosto che impegnarci in una sorta di mera celebrazione dell’architettura italiana recente, abbiamo inteso definire questa mostra come l’occasione per identificare una serie di campi nei quali gli architetti potrebbero esercitare la propria azione, sia in termini di ricerca che in senso più specificamente pratico. Una serie di traiettorie lungo le cui direttrici la disciplina potrebbe evolvere il suo percorso, le sue funzioni nella società contemporanea.

La svolta Black della 18. Biennale Architettura