Dopo Navinland, il progetto del 2011 per il Padiglione nazionale thailandese, Navin Rawanchaikul torna alla Biennale Arte con The Description of the World, raccontando una storia che unisce Marco Polo alla Venezia contemporanea.
Con il progetto The Description of the World Navin Rawanchaikul, novello Marco Polo, partendo dall’idea di comunità instaura un dialogo molto forte con la città lagunare, stendendo un filo tra Oriente e Occidente che percorre lo spazio e il tempo, raccontando una storia che lega la Venezia del passato a quella contemporanea. Il suo racconto è vivo, come è viva la sua idea di arte.
Il progetto Swatch per Biennale Arte 2022, main sponsor dell’Esposizione, pone al centro gli artisti, coinvolti nella realizzazione di opere nuove e specifiche, che diventano parte della mostra Il latte dei sogni. La formula è ormai consolidata: ai Giardini, davanti al Padiglione Centrale, l’installazione spettacolare di un artista rappresentativo del pensiero Swatch: quest’anno l’artista tailandese Navin Rawanchaikul con The Description of the World; all’Arsenale, nelle Sale d’Armi, Swatch Faces, una collettiva di cinque artisti accomunati dalla stessa esperienza: la residenza allo Swatch Art Peace Hotel di Shangai. Navin Rawanchaikul, novello Marco Polo, partendo dall’idea di comunità instaura un dialogo molto forte con la città lagunare, stendendo un filo tra Oriente e Occidente che percorre lo spazio e il tempo, raccontando una storia che lega la Venezia del passato a quella contemporanea. Il suo racconto è vivo, come è viva la sua idea di arte.
Questa piccola storia popolare ci dice che le culture possono mescolarsi e vivere insieme. Sembra un sogno, vero? Ma il latte zuccherato è qualcosa che possiamo davvero realizzare, sicuramente è possibile nel mondo dell’arte.
Il suo approccio all’arte è molto legato alle persone e all’ambiente locale. Penso, ad esempio, alle ‘gallerie’ nei taxi (I love Taxi), o al progetto delle bottiglie riempite con acqua inquinata proveniente da un canale della sua città. Come descriverebbe la sua arte?
Sono nato nel nord della Tailandia, in una regione che normalmente non è associata in alcun modo al circuito dell’arte contemporanea. Non sono propriamente tailandese ma provengo da una famiglia indiana immigrata in Tailandia, il che significa che la mia idea di cultura locale è inevitabilmente un riflesso del mio essere un immigrato. Ho provato così a integrare la mia vita in una cultura che appartiene alla maggioranza delle persone che vivono qui.
Per descrivere la mia arte direi che la considero una forma di comunicazione con e verso le persone che ci circondano, piuttosto che con il cosiddetto “mondo dell’arte”. Penso che il punto di partenza vero del fare arte sia l’individuo, almeno così è stato per me. È dall’individuo che ha origine la comunicazione e la comunicazione può appunto avvenire sotto forma di arte. È una questione di connessioni. Non può esservi alcuna connessione senza una pluralità di soggetti che interagiscano in uno spazio definito. Ognuno di noi è collegato a una comunità e il ruolo della cultura in cui un artista nasce e cresce non può essere trascurato. Non vivo nella capitale, vivo in un paesino, tuttavia anche qui ho potuto constatare che lo spirito comunitario si affievolisce sotto la pressione della modernità. La mia idea è di usare la magia dell’arte come strumento per capire lo spirito del luogo, riportando in vita l’energia creativa locale prima che vada perduta. Pertanto si può fare arte anche in un contesto locale strettamente definito, non è affatto necessario inserirsi nel “circuito dell’arte internazionale”.
Non può esservi alcuna connessione senza una pluralità di soggetti che interagiscano in uno spazio definito. Ognuno di noi è collegato a una comunità e il ruolo della cultura in cui un artista nasce e cresce non può essere trascurato.
Come è nata l’idea di The Description of the World, il progetto site-specific commissionato da Swatch per Biennale Arte 2022?
È stata una sfida di cui sentivo davvero il bisogno, dopo essere stato così a lungo separato dal mondo e in particolare dalla mia famiglia a causa della pandemia. Mi mancava anche viaggiare e, soprattutto, mi mancava ‘giocare’ con l’arte. Anche se la mia opera non ha nulla a che vedere con la pandemia, la drammatica situazione che ci ha portato a lunghi periodi di isolamento forzato mi ha fatto riflettere sul nostro bisogno di connessione. Che sia con altre persone considerate individualmente o con la società in generale, il punto è connettersi con gli altri. L’arte è un canale costruttivo pieno di possibilità. Ho capito subito che la commissione da parte di Swatch non si limitava alla realizzazione di un ‘prodotto finale’, ma che sarebbe stata un’occasione per lavorare sull’azione, sull’atto del fare arte.
Quando sono arrivato a Venezia ho dovuto fare dieci giorni di quarantena, che ho passato a leggere. Uno dei libri che ho letto è stato Il milione di Marco Polo, che tutti conoscono, e il motivo per cui mi è piaciuto tanto è che lo stavo leggendo proprio a Venezia! Non vedevo l’ora di incontrare i veri veneziani di lì a dieci giorni. Il mio viaggio è stato simile a quello di Marco Polo, però al contrario: io partivo dell’Asia e sono arrivato a Venezia. Per me è stato essenziale sentire questa connessione a distanza di sette secoli. Venezia è inoltre anche il luogo dove la pratica della quarantena ha avuto origine. Marco Polo era figlio di commercianti e lo sono anch’io… Insomma, c’è più di una connessione in questa storia: le connessioni generano sentimenti e i sentimenti generano arte.
In me hanno generato l’idea di scrivere una lunga lettera proprio a Marco Polo. Mi sono presentato e gli ho raccontato di me, di quello che sono oggi, un uomo del Ventunesimo secolo che viene dall’Asia. Gli ho parlato della mia esperienza nella sua città natale e ho immaginato che lui mi rispondesse parlandomi di sé, con dettagli della sua vita personale, e che infine accettasse di essere incluso nel mio progetto, insieme agli altri ritratti di veneziani contemporanei. Finita la quarantena ho potuto finalmente interagire con la città, ho scattato foto e ho incontrato persone, per poi riportare tutto questo materiale in Tailandia e rielaborarlo nel mio studio. Qui, insieme ad altri artisti e alla loro arte pittorica abbiamo tradotto questo viaggio ideale in un viaggio visivo. Le connessioni umane sono sempre reciproche, lo vediamo nelle migrazioni: ragioni e condizioni di vita possono essere le più diverse, ma ciò che non cambia mai è il fatto che le persone sono spinte a cercare un posto in cui rifarsi una vita, stabilendo nuove connessioni. E in particolare per questo progetto, sto costruendo connessioni con chi secoli fa ha fatto un viaggio simile al mio.
Quali sono le connessioni fra il suo progetto e la Biennale Arte?
Quali invece i legami con Swatch, che ha scelto lei per rappresentare il proprio brand durante uno dei più importanti appuntamenti dell’arte contemporanea internazionale?
È naturalmente per me un grande onore essere di nuovo qui. Avevo già partecipato alla Biennale Arte nel 2011, quando per il Padiglione Tailandese presentai il mio progetto Navinland, un mondo immaginario e utopico senza nazioni o confini. È in seno a questa visione allargata, costituita da comunità ampie, che riconosco il mio possibile contributo a un evento importante e internazionalmente riconosciuto come la Biennale. Ed è qui che entra in gioco anche Swatch. Certo, conoscevo i loro prodotti e posseggo un orologio Swatch, ma a parte questo non avevo mai avuto alcun rapporto stretto con loro. Questa distanza e mancanza di conoscenza è diventata una sfida a trovare un terreno comune attraverso l’arte. Mi hanno aiutato a mettermi in contatto con diverse persone che sono state molto preziose nel costruire il progetto. Ho molto apprezzato il modo in cui sono riusciti a comprendere esattamente quello che volevo realizzare, lasciandomi la più totale libertà creativa. L’obiettivo e il senso del nostro progetto è un’idea di speranza, di consapevolezza, di apertura verso il maggior numero possibile di persone. L’arte non deve guardare solo a se stessa, al contrario funziona quando è aperta e non distaccata, risultando efficacemente espressiva anche nelle sue forme meno pretenziose, anche quando è divertente e umoristica come nella Pop Art. Tutto può funzionare, basta che possa essere utile allo scambio. Non c’è e non ci sarà mai alcun bisogno di appartenere alla stessa cultura per godere dell’arte. L’apertura mentale è tutto ciò che serve.
Il latte de sogni, il titolo scelto dalla curatrice Cecilia Alemani per questa Biennale, è tratto da un piccolo libro di favole illustrate dell’artista surrealista Leonora Carrington. Qual è il suo personale latte dei sogni?
Il titolo mi ha fatto venire in mente una favola che si racconta dalle mie parti, che però non ha nulla a che fare col libro di Leonora Carrington. La mia storia viene dall’India e parla del tempo in cui un gruppo di persiani furono costretti ad abbandonare la loro terra a causa di conflitti religiosi. Arrivati in India, nella regione di Gujarat, chiesero ospitalità al principe locale. Il principe mostrò loro una tazza piena di latte e disse: «La mia terra è piena come questa tazza. Non c’è spazio per nient’altro». Il capo persiano non disse niente, ma aggiunse solo dello zucchero al latte e lo fece assaggiare al principe, che, trovandolo delizioso, decise di accogliere la comunità persiana. Questa piccola storia popolare ci dice che le culture possono mescolarsi e vivere insieme. Sembra un sogno, vero? Ma il latte zuccherato è qualcosa che possiamo davvero realizzare, sicuramente è possibile nel mondo dell’arte.
Intervista a Carlo Giordanetti, manager di Swatch e CEO Swatch Art Peace Hotel