Tra i più acclamati coreografi di tutto il mondo, Wayne McGregor, alla direzione della sua terza edizione di Biennale Danza, “Altered States”, si racconta e ci svela la sua visione.
Sta affrontando il suo terzo anno alla guida di Biennale Danza, ha creato i movimenti dei film Harry Potter e de La leggenda di Tarzan (2016) tra gli altri, la coreografia dell’ultimo show degli Abba, in partnership con l’americana Niantic e la britannica Digital Catapult sviluppa progetti per la realizzazione di un “real-world metaverse”. Nel 1992 ha fondato Random Dance, poi divenuto lo Studio che porta il suo nome. Professore di coreografia al Trinity Laban Conservatoire, è in procinto di pubblicare il suo nuovo saggio Physical Thinking. Insomma, uno dei più acclamati coreografi di tutto il mondo: Wayne McGregor. Su di lui e sul suo pensiero andrebbe veramente scritto un libro, ma difficilmente a scriverlo saranno critici di danza…
Dalla ammirevole e innovativa biomeccanica di Mejerchol’d sembra passato ben più di un secolo. «Danza è tecnologia, i corpi sentono le cose», ma senza mai dimenticare però di essere un uomo del suo tempo, «la danza è sempre un atto politico». Come non ricordare Live Fire Exercise, 2011, in cui McGregor e John Gerrard portarono in scena con il Royal Ballet la riproduzione dei movimenti dei soldati durante una esercitazione?
Mentre scriviamo debutta al Royal Opera di Londra con Universe: A Dark Crystal Odyssey sulla crisi climatica e la distruzione del Pianeta da parte dell’uomo, ed è già in cartellone per il 2024 Edipo Re/Antigone alla Dutch National Opera and Ballet di Amsterdam. Lo scorso 8 maggio con i tre mesi di residenza dei giovani di Biennale College Danza è già iniziato il suo 17. Festival Internazionale di Danza Contemporanea intitolato Altered States: il potere della danza, capace di cambiare il nostro stesso stato d’animo.
Cerchiamo di capire meglio il suo pensiero. Lo incontriamo di persona a Ca’ Giustinian ed è per noi un’emozione unica.
Al centro del suo interesse pare vi sia il corpo e i suoi movimenti, il corpo che impara dai sensi e incorpora il passato. Psicologia cognitiva quindi?
Stiamo parlando di conoscenza incorporata, del modo in cui corpo e cervello comunicano l’un l’altro e formano il nostro sistema di abitudini, le nostre abitudini cognitive. È così per ognuno di noi come lo è anche per il danzatore. Lavoriamo con un gruppo di scienziati di Cambridge che ci hanno aiutato a capire come il danzatore acquisisca una forte impronta abitudinaria nei propri movimenti, mentre danza. Ora però siamo in grado di farlo lavorare in modo diverso, contravvenendo alle proprie abitudini. Questo cambiamento, questa alterazione nel suo modo di agire gli permette di riprendere contatto col corpo in modo diverso. È molto interessante. È una nuova lingua che si costituisce. In che modo il cervello normalizza e crea degli schemi derivati da certi comportamenti e come possiamo cambiare questi atteggiamenti per creare nuove possibilità e nuovi algoritmi di movimento fisico? Possiamo insegnare qualcosa di radicalmente diverso rispetto al vissuto di ogni danzatore. Abbiamo chiamato questa didattica creata con studiosi e scienziati Mente e Movimento.
Il progetto è una modalità di insegnamento. Ad esempio, quando pensiamo alla danza pensiamo a qualcosa di visivo, giusto? Ma se invece ci concentriamo in modo diverso e cerchiamo di creare una immagine acustica o un’immagine cinestetica? Che proprietà hanno e come possiamo lavorarci se veniamo da abitudini visive? Adesso proviamo a pensare ad immagini acustiche, immagini di suono. Come possiamo costruire una teoria di tecniche per accedervi e allo stesso tempo durante l’improvvisazione evitare il visivo? È un modo molto affascinante di esplorare un territorio diverso. Naturalmente l’apporto della neuroscienza è fondamentale e stiamo solo ora incominciando ad intravedere l’inizio di infinite possibilità.
Ci piacerebbe assistere a queste sessioni di insegnamento ai danzatori…
Non solo con danzatori; ne abbiamo fatte a Londra con architetti, designers, insegnanti. Non è solo danza, è un processo che permette di ricollegarsi al proprio corpo in modo diverso e di usarlo come strumento di pensiero. Ma, prima di tutto, bisogna conoscere le abitudini di pensiero preesistenti, per quanto possibile, e una volta fatto questo possiamo finalmente capire che ci sono possibilità di pensiero e atteggiamento a cui non attingiamo mai. Quando ci riusciamo, produciamo un evento straordinario.
Come avviene in lei il processo di creazione di un nuovo lavoro? Come nasce una nuova coreografia?
Non è un processo molto lineare, questo è certo. Ci vogliono anni per ogni lavoro; molte sono le idee che si mettono in campo e ciascuna offre uno spunto nello sviluppo creativo. Ad un certo punto accade che un’idea diviene dominante e progressivamente imprescindibile. È lo stesso processo della scrittura. Bisogna assicurarsi che queste idee vengano alimentate ed è così che ad un tratto il progetto prende forma. Prendo appunti costantemente, ora in modo digitalizzato. Ho condiviso i miei appunti con i nostri scienziati per capire in che modo questa abitudine influisca sul mio pensiero. In che modo penso con il mio quaderno, in che modo lo uso. La loro risposta è stata: «non c’è nessun pensiero coreografico nel quaderno, perché quell’abilità la utilizzi in studio, non hai bisogno di scriverlo. Ogni altro appunto è un’idea, un concetto, una lista di informazioni. Sono cose importanti, ma non sono strutture coreografiche». Un commento interessante.
Quando ci chiediamo da dove prendiamo le nostre idee non sempre ci rendiamo conto che partono da molto lontano, assai prima di approdare in studio. Quali informazioni perdiamo, quali invece aggiungiamo? Nel mio studio londinese catturo il processo creativo con sei telecamere e i filmati vengono poi analizzati dai nostri neuroscienziati a San Diego, cercando di focalizzare il punto/momento in cui cambiano le decisioni. Non è tanto importante cosa uno stia facendo, quanto come le idee si trasformino. Chi di noi ricorda l’informazione iniziale? Ad un danzatore assegno un movimento, ad un altro una intenzione? Ciascun danzatore ha il suo personale modo di sentirsi parte del processo. C’è bisogno di persone diverse con talenti diversi per attivare questo processo di ricordi. Registriamo tutto quando creiamo un pezzo, la fisicità e l’intenzione. In questo periodo, ad esempio, all’Opera di Parigi è in scena il nostro spettacolo su Dante e le notazioni sono lette come se fossero musica.
Ci sono possibilità di pensiero e atteggiamento a cui non attingiamo mai. Quando ci riusciamo, produciamo un evento straordinario…
I suoi lavori sembrano non avere limiti. Lei ha lavorato non solo con movimento, suoni e colori, ma anche con i profumi!
Prima abbiamo parlato di immagini visive, acustiche, cinestetiche, olfattive: concetti molto potenti. Ho condotto un esperimento con la maison britannica Jo Malone per una rappresentazione de Il Lago dei Cigni all’Opera di Londra dove ho usato solo profumi, un peculiarissimo percorso coreografico il cui compito era anche quello di costruire una immagine. Molto difficile. A Londra vi sarà un nuovo teatro, l’MSG Sphere, con un sistema acustico incredibile: in un orecchio si sente italiano e nell’altro giapponese, oppure in uno Bach e nell’altro Mozart. Ventimila spettatori, ma ognuno con una fruizione diversa del suono. Ora stanno sperimentando lo stesso processo con gli odori. Potremo in un futuro non lontano creare un ambiente diverso per ogni persona. Spesso parliamo di danza come di una esperienza collettiva; lo è ovviamente, ma ciascuno ha una esperienza diversa dello stesso processo. Sono molto curioso sui possibili sviluppi che la tecnologia ci potrà offrire.
Secondo lei è importante che il pubblico possa capire il significato di una coreografia?
Ottima domanda. Siamo troppo abituati a descrivere il significato di qualcosa usando le parole, analizzandola retrospettivamente. Io penso invece sia necessario interagire e avere coscienza dei nostri sensi. Così facendo il significato emerge in modo diverso, non come una spiegazione razionale: questo significa X, quindi devi cercare X in ciò che vedi. Sono entrambi approcci sensati, ma decisamente diversi. Penso che nella danza vi sia una particolare ossessione di trovare significati razionali e concreti, ma si tratta di una disciplina ambigua e costitutivamente sfuggente a stringenti definizioni. Perché vincolarsi all’idea che X debba essere uguale a X, a meno che questa non sia una precisa idea del coreografo? Quando creiamo uno spettacolo aggiungiamo sempre qualcosa di personale, ma questo non significa che debba dire tutto della mia ricerca in modo che anche gli altri possano comprenderla. Assistere ad uno spettacolo significa partecipare, fare un’esperienza. Come mi fa sentire? Cosa mi ricorda? Ciascuno di noi attribuisce un significato a ciò che vede.
Credo che molte persone che si avvicinino alla danza temano di non capirla. È un po’ colpa nostra, perché troppo spesso sosteniamo che qualcosa da capire c’è. È come affermare con gesto di superiorità: «il balletto significa questo, dovreste saperlo e se non lo sapete non potete accedere a questa arte». Dovremmo invece dire: «andate a vedere Il Lago dei Cigni. Cosa vedete? Cosa notate?». Quando il pubblico ad esempio è costituito da bambini, è bellissimo vedere come essi colgano così tanti particolari. È questa gioiosa curiosità che vorrei vedere in tutti gli spettatori. Spero che il pubblico del Festival sia proprio così, sì.
Intervista con Andrea Peña, coreografa, danzatrice e designer, ospite della 17. Biennale Danza