Racconti d’inverno in città

Istantanee da una Venezia passata: Vuoi sparare?
di Fabio Marzari

Dopo il capitolo estivo sulla Venezia di un tempo lontano, ma non lontanissimo, prosegue il racconto di Alessandro Zoppi legato agli inverni veneziani della sua infanzia, simile per alcuni aspetti a quella di molti altri bambini che allora vivevano, numerosi, in città. Non è un nostalgico “come eravamo”, ma un ricordo condiviso di una Venezia molto diversa da quella odierna, trasformatasi via via da luogo di vita a destinazione temporanea.

«Premessa doverosa, gli inverni erano freddi. I foresti erano pochissimi e quindi restavamo quasi solo noi veneziani in città. Ricordo come una rarità un misterioso ufficiale americano che stava in albergo da noi in inverno, forse era una spia, chissà… Nel mio tragitto da San Fantin, dove abitavo, alla scuola a Sant’Angelo, spesso dovevo fare i conti con un ventaccio freddo e non è vero che un tempo non ci fosse l’acqua alta. Ho una foto scattata il 30 gennaio, giorno del mio compleanno, che coincideva anche con quello di mio padre, in cui indicavo con la mano il numero 5, i miei anni, ed indossavo stivaletti di gomma. Anche le nevicate non erano così infrequenti e c’erano sempre pronti degli spalatori per tenere il più possibile pulite le strade. Legato al freddo invernale è il ricordo molto nitido del doposcuola. Mio padre voleva prendessi delle ripetizioni di matematica, sin dalle prime classi delle elementari non era la mia materia favorita e quindi ne andava secondo lui incentivato lo studio. Decise di mandarmi a lezione dalla maestra Ghio, che abitava dalle parti di Santa Maria Formosa. Con un mio amico ci recavamo in quella casa, freddissima, riscaldata solo da una stufa posizionata nella stanza in cui studiavamo. Ogni tanto compariva il fratello della maestra con addosso una giacca da casa, non di velluto e bordata, ma pesantissima, forse realizzata con una vecchia coperta, portando in testa una retina. Mio padre aveva deciso che da bambino fortunato quale ero avrei dovuto conoscere da subito i vari aspetti della vita e questa fu una lezione che appresi e che porto ancora con me.
D’inverno la maggior parte del tempo dedicato al gioco si trascorreva in casa, questo significava per me avere a disposizione l’ultimo piano dell’albergo, dove c’erano la lavanderia e la stireria. Con il mio amico Renato, che è andato a vivere in bassa California per studiare le balene, i nostri giochi erano quasi esclusivamente rivolti a situazioni di guerra, oppure si estraevano i grandi cassetti da un mobile e diventavano delle imbarcazioni utili a risalire il Rio delle Amazzoni dove poi avremmo trovato i dinosauri, tuttavia essendo entrambi molto pignoli, si perdevano ore nei preparativi. Era mia madre che ci ricordava quanto poco tempo effettivamente ci sarebbe rimasto per giocare, dopo gli accurati preliminari! Io indossavo un casco coloniale di mio padre e mi sentivo totalmente a mio agio nel ruolo di esploratore, pronto ad usare le armi per fronteggiare un eventuale nemico. Le armi le prendevamo in un negozio che era posizionato in un altro bancone e ogni volta andavamo lì a rifornirci prima della nuova avventura. Quando invece da Venezia ci si spostava in campagna, ad Onè di Fonte, si assoldavano i bambini del luogo per poter compiere con loro delle esplorazioni in Africa, portando in giro, sopra dei tavoli rovesciati, molti oggetti pesanti. Il mio amico in quelle occasioni indossava un fez rosso.

Spesso una buona e golosa occasione per interrompere temporaneamente i giochi veniva offerta da una tazza di cioccolata calda; allora era imperdibile quella di Zorzi, con la panna montata al momento in un grande paiolo di rame. Una latteria molto frequentata che offriva già allora anche una piccola cucina vegetariana.
In campo Santa Margherita per Carnevale c’erano le giostre, un vero e proprio parco divertimenti per moltissimi bambini e relativi genitori, molto indaffarati a non perderli di vista. Tra le molte attrazioni, le mie favorite erano gli autoscontri e il tiro al bersaglio. Avrò avuto circa otto anni, ricordo come fosse ora il ragazzo responsabile degli autoscontri pettinato con il ciuffo alla Elvis, che indossava una camicia scozzese, jeans arrotolati e scarpe da ginnastica – allora considerate una cosa disdicevole da usare per strada –, che saltava da una macchinina all’altra per recuperare i gettoni. Ma soprattutto c’era lei, la ragazza del tiro a segno, bionda, forse artificiale, che indossava un maglioncino di angora rosa e ripeteva a chi si avvicinava: «Vuoi sparare?». Non potrò mai dimenticarla, me ne ero innamorato e imparai anche a sparare piuttosto bene!

Le nostre esplorazioni urbane ci avevano spinti dopo la Giudecca a visitare anche la zona intorno alla stazione, che a noi sembrava una sorta di Chinatown, con tutto quel brulicare di luci e insegne, così strane ai nostri occhi, abituati a una Venezia che per noi finiva a Santi Apostoli. C’era il viaggio in vaporetto e poi la pasticceria Dal Mas, ma soprattutto, in campo san Geremia, un negozio di abbigliamento, i grandi magazzini al Cavallo, con i primi jeans e i giubbotti alla “Fronte del porto”, che per noi affamati di modelli cinematografici erano il massimo.
Il mio amico Renato, a cui non è mai mancato lo spirito imprenditoriale, si era inventato un modo speciale di guardare la televisione, che entrambi avevamo in casa dal 1954. Metteva delle carte colorate sullo schermo, per ricreare l’effetto del colore come al cinema, e invitavamo altri bambini che pagando cinque lire avrebbero avuto anche una bevanda colorata e una tazza di tè, con le bustine che io portavo dall’albergo. Talvolta, ispirandosi al film Il pianeta proibito, si metteva in scena uno spettacolo. Complice un robottino giocattolo e un tavolo rovesciato che diveniva un’astronave, e soprattutto il rumore dei motori prodotto dalla televisione accesa, finivamo per vivere avventure ogni volta diverse in pianeti sconosciuti e pieni di insidie.
Capitava non di rado che passassi del tempo da zia Amelia, sorella di mia mamma che aveva una sartoria per abiti femminili in calle del Cafetier, a Sant’Angelo. C’erano con lei un paio di lavoranti, una delle quali veniva chiamata da mia zia “Melampo”, come il cane di Pinocchio, ed era uguale a Lucia Mannucci del quartetto Cetra, e cantava pure bene. C’era anche un uomo, io lo chiamavo “Conte”, come faceva mia zia. Una volta lo vidi per strada con la moglie e lo salutai, «Ciao Conte!», e notai lo stupore della moglie, evidentemente all’oscuro di tale soprannome. Fu nella sartoria di mia zia che vidi delle donne in sottoveste, che le dicevano di non preoccuparsi per la mia presenza, «assa qua el bambin, no importa», mentre invece mia nonna, quando avevo sette anni, riprese le cameriere che mi avevano visto nascere ed erano sempre super gentili con me, coccolandomi e abbracciandomi, dicendo che ero ormai grande per quelle manifestazioni di affetto, anzi, in realtà usò delle espressioni più colorite…».

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