Frammenti di Venezia

Il lapidario del Seminario Patriarcale della Madonna della Salute
di Camillo Tonini

Dalle epigrafi romane alla salvaguardia del patrimonio storico-artistico, un viaggio tra la memoria scolpita di una città che cambia, in un contesto di mutamenti urbanistici e spoliazioni.

Dopo le devozioni alla Madonna della Salute, dovuto tributo alla fede, alla tradizione e alla speranza, nella giornata a Lei dedicata, ma anche in qualsiasi altro giorno dell’anno, vale la pena osservare le lapidi, le lastre tombali, i bassorilievi disposti a parete attorno al cortile del Seminario e attardarsi a leggere le didascalie che ne raccontano la storia.

«Bella scoperta, di una lapide romana in un muro di una casa demolita». Questa frase, che annuncia la fausta, inaspettata scoperta di un frammento archeologico romano da un edificio demolito sul rio di San Barnaba, si legge alla data dell’8 aprile del 1831 nei Diari di Emanuele A. Cicogna, l’erudito che molto si adoperò per la conservazione di oggetti storici e d’arte veneziani, salvandoli dalla dispersione sul mercato antiquario durante tutta la prima metà dell’Ottocento.

Seminario Patriarcale di Venezia

Del fortunato ritrovamento Weber, collezionista e anch’esso mercante d’arte, come viene riportato ancora nei Diari, «avvisò Moschini: Moschini avvisò Casoni: Casoni avvisò me». La notizia della nuova scoperta veniva quindi comunicata a Giovanni Casoni, che nel suo ruolo di Ingegnere alle Pubbliche Costruzioni spesso era il primo a riconoscere tra le macerie dei cantieri preziosi reperti antichi, sui quali veniva interrogato Emanuele Cicogna per la sua riconosciuta competenza nella storia e nell’arte cittadina. Veniva, quindi, interessato anche l’abate Giannantonio Moschini, che era in grado di accogliere, quanto era possibile e valeva la pena salvare, queste sopravvissute memorie cittadine nel cortile del palazzo adiacente alla Basilica della Salute, divenuto sede del Seminario patriarcale dal 1818. In questa virtuosa catena di solidarietà civica e culturale, sostenuta da una rispettosa e reciproca amicizia, in una città che supinamente non era più in grado di reagire all’andamento dei tempi, si distinguevano le personalità di questi tre studiosi tra loro assai diversi per formazione, mestiere ed esperienze, ma accomunati dalla stessa passione per la conservazione del patrimonio storico e artistico veneziano. Tra questi Giannantonio Moschini, imbevuto di cultura classica e religiosa, era all’epoca anche l’unico solido punto di riferimento al quale affidare materialmente le disiecta membra provenienti da una città in parte saccheggiata, in parte demolita perché bisognosa di nuovi spazi, in parte costretta a inseguire sull’esempio delle grandi capitali europee un futuro urbano non abituale con l’apertura di più ampie vie pedonabili.

Lapidario, cortile del Seminario Patriarcale

Responsabile di questo progressivo mutamento fu anche la Repubblica veneziana prima della sua caduta, perché oramai incapace di mantenere un patrimonio immobiliare esorbitante e in parte degradato, tale che lasciò, per esempio, andare in rovina la grande chiesa dei Servi di Maria a Santa Fosca e permise che i suoi preziosi altari fossero venduti e trasferiti fuori della città. Poi seguì il Governo francese che, pur nel lodevole impegno di creare nuovi giardini, fece abbattere chiese, conventi e ricoveri ospedalieri e sventrò il popoloso Sestiere di Castello per fare spazio alla via Eugenia, oggi via Garibaldi. Poi vennero gli Austriaci che, nell’ossessivo tentativo di fare di Venezia una città armata, convertirono l’uso di molti edifici religiosi destinandoli a caserme o polveriere, a cominciare da quelli che popolavano molte isole della laguna: San Giorgio in Alga, lo Spirito, San Giacomo in Paludo, Santi Cosma e Damiano alla Giudecca. Nel lapidario del cortile del Seminario della Salute si accumularono, così, in una sorta di museo all’aperto, gli elementi residui di queste invasive operazioni, prevalentemente consistenti nei beni riconducibili al patrimonio ecclesiastico, il quale soprattutto nel corso del XIX secolo fu in parte demanializzato, oggetto di molteplici demolizioni per il recupero dei luoghi, in parte smantellato di ogni antica ornamentazione e sovrastruttura recuperando la sola cubatura interna dell’edificio.

Lapidario, portico del Seminario Patriarcale

A fronte di tanti materiali recuperati, fu lo stesso Moschini a redigere nella sua pubblicazione del 1842, La chiesa e il seminario di S.ta Maria della Salute in Venezia, uscita postuma due anni dopo la sua morte, un primo inventario di questa raccolta di reperti lapidei, dichiarandone la provenienza, descrivendone le forme e trascrivendone le epigrafi, in questo coadiuvato da Cicogna, il quale aveva dato principio alla compilazione del suo Delle Iscrizioni veneziane. Con l’annessione di Venezia all’Italia nel 1866 il patrimonio storico degli ordini religiosi ancora presenti in città continuò ad essere demanializzato e a subire ulteriori spoliazioni, ma al contempo si registrò il maturare di una ritrovata coscienza volta alla conservazione della memoria collettiva. Con Niccolò Barozzi e poi con Federico Berchet furono i Civici Musei Veneziani a seguire l’esempio di Moschini e a conservare queste testimonianze del passato raccolte inizialmente nel Fondaco dei Tedeschi fino alla fine dell’Ottocento, quando venne istituito per la loro tutela l’Ufficio regionale per la Conservazione dei Monumenti, primo nucleo operativo delle attuali Soprintendenze. Questi beni salvati in quegli anni difficili, oggi costituiscono un nucleo di straordinario interesse storico-artistico che, con l’avanzare della ricerca, trovano coerente collocazione nel più ampio profilo di studi su una Venezia scomparsa e, in questa prospettiva, il lapidario del Seminario veneziano raccolto da Giannantonio Moschini riveste un ruolo importantissimo e centrale.

Ancona, Chiesetta della Santissima Trinità, Seminario Patriarcale

Ecco perché, dopo le devozioni alla Madonna della Salute, dovuto tributo alla fede, alla tradizione e alla speranza, nella giornata a Lei dedicata, ma anche in qualsiasi altro giorno dell’anno, vale la pena osservare le lapidi, le lastre tombali, i bassorilievi disposti a parete attorno al cortile del Seminario e attardarsi a leggere le didascalie che ne danno informazioni. Si riconosceranno i nomi di alcuni importanti personaggi le cui sepolture sono state qui trasferite, come nel caso di Tommaso Rangone, il medico filosofo, le cui spoglie riposavano nella chiesa di San Giuliano in Piazza San Marco. Di tante altre chiese, delle quali in questo cortile c’è la memoria, resta solo il richiamo nella toponomastica: nel centro storico Sant’Angelo, San Boldo, le Vergini, Sant’Antonio, il Santo Sepolcro, e nelle isole la Certosa, San Maffio e San Cipriano a Murano, San Giorgio in Alga e altre ancora. Tanti anche i resti di edifici dove oggi è difficile riconoscere il loro passato assistenziale e religioso: la Scuola della Carità, quella di San Teodoro, le chiese di San Leonardo, il chiostro di Santo Stefano, Sant’Agnese, Santa Giustina, San Vidal. Un itinerario stimolante quanto difficoltoso a contatto con un repertorio di memorie storiche e di stili artistici che esercita la voglia di approfondire la conoscenza di una Venezia che non c’è più.

Bassorilievo, Chiesetta della Santissima Trinità, Seminario Patriarcale

Non si trascuri poi di entrare nella chiesetta della Santissima Trinità, attigua al cortile del Seminario e riservata ai seminaristi, dove si può incontrare «incastrata nel muro – come si legge nella guida del Moschini – un’ancona di marmo rappresentante la B.V. (Beata Vergine) col bambino in braccio e a’ lati i santi Benedetto e Bernardo. Sotto queste figure leggesi in gotico carattere: MCCCLIII mensis madii factum fuit hoc opus. Stava nel campo dinanzi la chiesa di Santa Maria della Celestia e fu donata al Seminario dall’Ingegnere Giovanni Casoni il 23 maggio 1826». E ancora, infissa sulla stessa parete, una bella lunetta a bassorilievo con Daniele nella fossa dei leoni tra due figure di devoti. Due esempi di arte scultorea di straordinaria qualità che ben figurerebbero nella tanto attesa mostra, per il momento ancora purtroppo lontana, sulla scultura veneziana di epoca medievale. Poco più in là, si scorge una moderna lapide tombale: segnala i resti mortali del canonico Moschini.

Immagine in evidenza: Giovanni Casoni, Emanuele A. Cicogna, Giannantonio Moschini
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