Biopic explosion

Un genere non-genere ‘vecchio’ come il cinema
di F.D.S.
  • giovedì, 8 settembre 2022

Ok, lo storico del cinema dirà che il biopic c’è sempre stato e citerà The Execution of Mary Stuart come il primo lungometraggio asseribile a questo genere nella storia del cinema, prodotto da Thomas Edison nel 1895 e non a caso coetaneo della Sortie d’usine dei fratelli Lumière.

E avrà ragione: il film biografico da sempre accompagna la storia del cinema, seguendone direttrici, cambiamenti, costumi. Dai primi film su alcune figure mito-poietiche della storia della civiltà occidentale (La reine Élizabeth del 1912, Caio Giulio Cesare del nostro Enrico Guazzoni del 1914, Anna Bolena di Lubitsch del 1920, per culminare poi con il gigantico Napoléon di Gance del 1927) a quelli prodotti nei periodi immediatamente successivi, allorquando negli anni ‘30 l’interesse si indirizza sulle grandi figure politiche (Disraeli del 1929, Young Mr. Lincoln del 1939), per poi nei  ’40 focalizzarsi invece, ed è una grande svolta, sui musicisti (Night and Day di Curtiz su Cole Porter, The Glenn Miller Story) e poi ancora negli anni ’50 sugli sportivi, vedi su tutti Lassù qualcuno mi ama sulla vita di Rocky Graziano del 1956, attraverso anche i contributi specifici apportati al biopic da singole figure di registi vocati al tema (William Dieterle, Rossellini coi suoi film didattici, Ken Russell, Milos Forman), il biopic da un punto di vista anche proprio della quantità di pellicole prodotte è un genere costitutivo della storia del cinema.

Quindi nulla di nuovo. E però ora ci sarebbe comunque da capire come mai, perlomeno negli ultimi 15 anni, il numero di biopic, un gran numero dei quali dedicati alle rockstar, siano aumentati così a dismisura. Dai biopic archive oriented, che sono veri e propri documentari realizzati con materiale d’archivio, correttissimi ma di solito un po’ noiosi, si va agli eagle flight biopic, che narrano l’intera vita del/la protagonista dagli esordi fino alla loro scomparsa il più delle volte tragica (e qui la lista è lunghissima: Respect, Walk the Line, Bohemian Rhapsody, Rocketman, Control, The Doors, Ray, The Lady Sings the Blues e Stati Uniti contro Billie Holiday, Bird, Elvis, e via via gli altri…). Questi ultimi possono risultare molto riusciti, come ad esempio Rocketman, riusciti, come quelli sulla Holiday, poco riusciti, come The Doors, ma in genere spesso appesantiti proprio dal peso della loro parabola schematica: infanzia con scoperta della vocazione – giovinezza e lotta per il successo – maturità e successo – crisi e caduta – eventuale rinascita – eventuale ricaduta – morte. Sembra di vedere per l’ennesima volta la storia di È nata una stella, solo che nel rock non sono in due, l’attore famoso e la giovane in ascesa: è la star che cannibalizza sé stessa.

Rocketman, Dexter Fletcher, 2019

Abbiamo poi un terzo sotto-genere, l’one-frame biopic, ovvero la narrazione di uno specifico episodio della vita del protagonista in cui la finzione gioca un ruolo decisamente maggiore, in cui lo sforzo di ricostruire una trama di invenzione, pur nel rispetto del contesto storico, risulta spesso convincente. Qui, in questo terzo filone, a nostro avviso, sono da ricercarsi i frutti migliori di questa autentica biopic explosion. Sempre a memoria, alla rinfusa: Elvis & Nixon sull’ossessione di Presley di diventare un agente in incognito dell’Antidroga; Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, grande riflessione sul crepuscolo di un mito; Stardust, sulla tournée negli USA di David Bowie prima di Ziggy Stardust; Quella notte a Miami… di Regina King; Last Days di Gus Van Sant sugli ultimi giorni di Cobain; The Queen di Frears sul meteorite che la morte di Lady D fece precipitare sulla famiglia reale. E così via…

Ma sorge qui un interrogativo non banale: il biopic è davvero un genere ontologicamente parlando? Ha davvero una sua dimensione archetipale che lo legittima come genere? Perché, nonostante la sua secolare esistenza, non si è prodotto attorno al suo linguaggio una significativa mole di studi, di saggi critici, come invece avvenuto per il western, il noir, la screwball comedy, il gangster movie, ecc.?
Dimmi al volo tre capolavori del genere biopic! Hummm, non è facile, fammici pensare…

Io non sono qui, Todd Haynes, 2007

È un fatto, diciamocelo, che la sua legittimazione come genere è sempre stata debole, offuscata, precaria. Perché? Perché i livelli di contaminazione del biopic con gli altri generi sono sempre stati altissimi. Perché i vari film sulla storia di Custer, Buffalo Bill o Jesse James erano western belli e buoni, perché i film sui pugili o i giocatori di baseball sono prima di tutto film sportivi e solo in second’ordine dei biopic, perché i grandi biopic di Carmine Gallone dedicati ai nostri immortali musicisti (Casta Diva del 1935 sulla vita di Bellini e Giuseppe Verdi del 1938) sono soprattutto dei magnifici melò ambientati nell’Ottocento italiano. Perché, alla fine, la pretesa del biopic di ispirarsi alla vita reale di un personaggio è una vera e propria finzione, e la sfida è proprio quella di trasformare la vita reale, la noiosissima vita reale, in una finzione che riservi uno spazio vitale all’immaginazione, alla fantasia, alla creazione artistica.

E allora non c’è dubbio che i due biopic più belli che siano stati mai diretti sono due film che biopic non sono, ma che si ispirano alla vita reale di due personaggi per stravolgerla e ricostruirla con una dose mostruosa di immaginazione, profondità, cattiveria: Citizen Kane di Orson Welles e Io non sono qui di Todd Haynes, rappresentazione corale, a sei volti, o meglio, a sei maschere, di Bob Dylan.
Siete d’accordo?

Immagine in evidenza: Citizen Kane, Orson Welles, 1941 (still)

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