Isola di isole, la Sardegna è un arcipelago di bellezze e di storia che la Film Commission ha saputo raccontare attraverso lo guardo di registi, produttori, attori, pubblico.
Qui protagonista è l’isola dell’Asinara, perla unica e ricca di personalità. Dieci anni di cinema e politiche green della Fondazione Sardegna Film Commission emergono così in un racconto sul filo dell’ironia, dove protagonisti sono gli asini.
Un racconto
di Renato Cubo (Luigi Manca)
Ma chi l’ha deciso che durante una tempesta gli umani si possono riparare e invece noi asini ci dobbiamo prendere tutta la pioggia a testa?
E dire che stamattina qua il cielo era talmente limpido che sembrava come appena lavato. Ma poi è arrivata questa cosa della tempesta, e quegli umani che urlavano tutto il giorno “motore” e “azione”, sono scappati in ogni dove. E io sono rimasta fuori. Proprio io, la più importante, quella che ha dato il nome a questo posto: ché come io ho dato il nome all’Asinara, i sardi hanno dato il nome alla Sardegna. E invece cosa ne ho avuto? Che gli umani adesso sono al riparo e io sto qua a pigliarmi tutto il vento a faccia.
Erano quasi meglio i tipi che c’erano prima: gli uomini messi qua per punizione. Io ero piccola, ma me li ricordo. E poi me l’ha raccontato pure mamma. Bella lei, che non c’è più da così tanto tempo, che c’ho il ricordo talmente sbiadito, che comincio a pensare che non sia mai stata viva.
A un certo punto li hanno mandati via tutti, e invece a noi asini ci hanno lasciato qua. Credo perché, se andiamo via, finisce che l’isola perde il nome.
Mì un tuono.
C’hanno preso sempre per tonti gli umani, ma è tutta una cosa loro. Mica ci hanno mai messo alla prova: mica ci hanno mai guardato bene. Io invece sì che ho imparato un sacco di cose osservandoli: io so che gli umani si sono inventati delle cose che chiamano “bugie a fin di bene”, per non sentirsi in colpa quando le dicono; che sono ridicoli quando cercano di mettersi le calze stando in piedi, e che quando sono in ritardo dicono “scusa, mi stavo facendo bello”, ma che non sempre ci riescono. E che poi la maggior parte di loro spesso non ascolta, perché nel frattempo si sta preparando per quello che dovrà dire quando l’altro ha finito.
Questa cosa di giudicare che c’hanno, senza conoscere bene prima, mi fa uscire di testa. E va a finire che si circondano di animali tutti sbagliati. Ché non esistono mica asini che ti svegliano alle cinque di mattina cantando. Ma gl’umani c’hanno la fissa. E se uno di loro è poco intelligente, lo chiamano “somaro”, ma non ho mai sentito dire per un tipo attraente “oh, ma guarda che bell’asino”.
Mì che sta pure aumentando: ma l’acqua in cielo non finisce mai?
Almeno mi lavo. Che il manto bianco pulito è come lo scherzo, dura poco. Una volta ho sentito un umano dire a un altro: “a lavar la testa all’asino si perde tempo e sapone”. Ma chi ti ha chiesto niente?
Ma posso prendere lezioni da una specie che ha rinunciato ai peli, e che però si riempie la pelle di vestiti?
Non voglio fare di tutta l’erba un raglio, perché ci sono quegli umani che si chiamano sardi, che un po’ mi piacciono. Perché sono tipo me. Che quando li guardi non gli dai cinque lire, ma poi fanno qualche cosa e ti stupiscono. E che per molti è come se non esistiamo.
Per certi umani gli asini bianchi e i sardi sono tipo gli unicorni, o i dinosauri, o quegli animali che prima c’erano, ma poi sono arrivati in ritardo alla partenza dell’Arca di Noè, e sono spariti dal giro.
Mì un fulmine. E basta però.
Da qualche tempo qua in giro ci sono persone nuove, anche se non capisco cosa fanno. Uno di loro dev’essere il capobranco, perché stanno tutti a sentirlo ed è l’unico che c’ha il nome sulla sedia. Forse se l’è costruita lui e ci tiene a farlo sapere.
C’ho parlato l’altro giorno, ma non mi sembrava un tipo troppo in ordine: dice che non gliel’ho dato io il nome a questo posto, ma che i Romani la chiamavano “Isola Sinuaria” tanto tempo fa, perché era sinuosa. Ma che c’entrano i romani? I romani hanno dato il nome a Roma, i sardi alla Sardegna, e gli asini all’Asinara. Di poco non gli tiro un calcio di spalle, ma si è salvato perché poi mi ha raccontato una cosa niente male.
M’ha detto che quello che stanno facendo si chiama Cìmena o una cosa del genere. Che è una specie di magia. Che se tu stai male, lui ti cura. E che ti fa star bene, ma pure arrabbiare certe volte. Che parte in un posto buio, ma che poi si illumina tutto e ti fa ritrovare in posti belli, che non t’aspettavi.
Io adesso vorrei stare lontano dalla tempesta, ad esempio, ma che ne so se funziona.
L’uomo col nome sulla sedia a un certo punto si è messo a blaterare di uno che zappava la terra con la chitarra e che stava bene perché abitava in un posto al riparo dai venti. Forse potrei andare lì per stare bene, che ne so. Io non sono mai uscita da quest’isola distaccata dal mondo, ma questa cosa del Cìmena magari funziona.
Posso fare buio chiudendo gli occhi, no?
CUT TO BLACK.
Ma è finita di colpo la tempesta?
FADE IN:
Roba di luce. Ma è questo che fa il Cìmena? Questo posto tutto verde sembra l’isola mia, ma se mi giro intorno ci sono rocce altissime, che io mica le ho mai viste così. Ma almeno non c’è più la pioggia. Anzi, se mi controllo, c’ho il pelo già asciutto. Bello scherzo che m’ha imparato l’uomo col nome sulla sedia.
C’è una casa, di quelle sperdute. Di quelle che gli umani quando le vedono le indicano e dicono “chissà cosa dev’essere abitare isolati così”.
E ci sono dei pastori. Io li so riconoscere i pastori, ma uno di questi è diverso. Perché io un pastore con la camicia nei pantaloni, gli occhiali da sole e la sigaretta in bocca, mica l’ho mai visto.
Quando mi guarda ride. Mi si avvicina, ha una specie di sorriso.
Mi dice di chiamarlo Faber, e così ho fatto.
Che poi, io questa cosa dei nomi mica l’ho mai capita. Solo gli umani c’hanno questa fissa. Mi dice che lui prima scriveva canzoni, ma che poi è venuto qui, a nascondersi dalla sua stessa musica. M’ha detto che
quel posto si chiama L’Agnata, che in gallurese vuol dire “riparato dai venti” e poi mi domanda da cosa mi sto nascondendo io.
Rimango strana, non me l’aveva mai chiesto nessuno. Questo è uno di quelli che fa le domande, ma ascolta pure le risposte.
Balbetto un po’. Dico che non ne posso più di essere giudicata male, che non mi piace la mia reputazione, e che se a Troia avessero regalato un asino anziché un cavallo, tutto quel casino non sarebbe manco successo, perché non lo avrebbero nemmeno fatto entrare. Ma chi lo vuole un asino gigante di legno come regalo?
Il pastore fumante mi rincuora, e mi dice che ci sono un sacco di asini anche tra gli umani. È solo che sono nascosti bene. Ma però li posso riconoscere, perché fanno il mio stesso verso. Lui li chiama “egocentrici” perché stanno tutto il giorno a dire io, io, io, e dice che quelli sono i peggiori.
Parliamo tanto, ogni notte. Mentre tutti dormono, ed è buio come quando chiudi gli occhi. E l’unica luce è quella della luna e della sua sigaretta.
Di giorno lo osservo, e vedo che si produce da solo ciò che mangia. Un po’ come faccio io, che spazzolo solo il cibo intorno a me. Ognuno dovrebbe mangiare il cibo della propria zona infatti, senza andare a cercarlo chissà dove. Che se la natura ce l’ha messo vicino, un motivo ci sarà.
Una notte Faber arriva con la chitarra, dice che ha fatto una canzone: gliel’ho ispirata io, che c’ho il manto come la luna. Racconta di un ragazzo che si innamora di un’asina, e che i due volevano pure sposarsi, ma poi tutto il paese si è messo contro. Io gli dico che deve buttare tutto: non ci crederebbe nessuno. Io non mi sposerei mai con un umano. È troppo tonto per i miei gusti.
Lui ride, riuscendo a non perdere la sigaretta. E quando comincia a cantare, capisco perché mi va così a genio. Perché non è umano.
Le parole che dice non le capisco “Oh bedda mea, l’aina luna… carrasciali di baxi… bianca foltuna”, ma quando poi la fa nella mia lingua capisco che sono cose belle “Oh bella mia, l’asina luna… carnevale di baci… bianca fortuna”.
Lui non mi giudica. Infatti ci sto bene.
Ma una notte non arriva.
E mi dicono che non arriverà più.
Senza di lui il buio è illuminato solo dalla luna.
Manca il rosso della sigaretta. Mi dispero.
Era dal giorno della tempesta che non ero così triste.
Ma mi ricordo come sono finita lì: il Cìmena.
Magari posso farlo di nuovo, magari funziona ancora. Magari posso andare dove nessuno mi giudica. Magari posso andare da lui. Com’è che d’era?
Si chiudevano gli occhi e…
CUT TO BLACK.
Niente odori. Ma cos’è?
FADE IN:
Meno male che sono capitata sul lato acceso, ché laggiù è tutto buio: dev’essere che in quel punto il film non è ancora iniziato.
Guardo in alto per capirci qualcosa, ma non vedo la luna. E mi accorgo che ci sono sopra, come quando gli umani cercano gli occhiali e ce li hanno sul naso.
È bello qua. C’aveva ragione Faber, le rocce c’hanno il colore del manto mio. Oltre a me, c’è solo una bandiera. È bianca pure lei, ma pure rossa e con le teste di quattro umani. Non sembra una che mi giudica male, ci starò bene con lei.
Laggiù c’è una palla. Ma vuoi vedere… Che mi venga un raglio se quello non è il mondo dove stavo. Da qui è diverso però. Adesso riesco a vedere “l’isola sinuosa” che diceva l’uomo della sedia. Bella l’isoletta mia. E vicino c’è pure quella dei sardi. E non è così lontana da tutto come mi credevo. Anzi, non è proprio isolata come dicevano tutti. Non è mica distaccata dal mondo: con un colpo d’occhio riesco a vedere tutto. Che poi, bastava solo fare un passo indietro.
Ma vai a vedere che, alla fine, tutto l’universo è paese?
E allora mi sa che, in fondo in fondo, pure l’essere asini, è solo uno stato mentale.
FADE OUT.
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