Festival District

Alberto Barbera racconta un'attesissima Venezia 79
di Massimo Bran, Mariachiara Marzari
trasparente960

Come da tradizione, a pochi giorni dallo Start! di Venezia 79 abbiamo incontrato il Direttore Artistico, Alberto Barbera per farci raccontare una Mostra che quest’anno compie 90 anni, ma li porta benissimo.

Un bel terno al Lotto sulla ruota di Venezia questo settembre! 79, 90, 14.
79. edizione della Mostra del Cinema a 90 anni esatti dal suo primo atto, la 14esima firmata Alberto Barbera. Insomma, non proprio numeretti, ecco. Dopo un biennio di straordinaria difficoltà ed incertezza, dove tutto si era fatto precario, in bilico, due anni in cui la Mostra ha saputo dimostrare tutta la sua forza, la sua tenacia non saltando neanche una edizione una, dopo questo lungo stato di sospensione in cui il cinema più di ogni altro settore dello spettacolo e della cultura ha visto preoccupantemente messe in discussione le sue consuetudini, le sue grammatiche lavorative, ora, alla vigilia di questa nuova edizione della Mostra in presenza piena senza limitazione alcuna, tutte le componenti che ruotano attorno alla più trasversale delle arti si accingono a vivere dieci giorni di assouta, febbrile vitalita, di ritorno almeno temporaneo a una brillante normalità. Davvero ossigeno puro per dei polmoni quasi al collasso. Un’edizione che si preannuncia per contenuti, protagonisti presenti, novità strutturali e di programma tra le più attese degli ultimi vent’anni. Un ventennio segnato fortemente dalle visioni curatoriali di Alberto Barbera.

Le edizioni da lei dirette sono oramai ben 13 e con questa alle porte fanno 14. Un percorso lunghissimo che ha lasciato un segno profondo nella storia di una Mostra del Cinema che compie in questo 2022 novant’anni. Quali sono state le più significative tracce di continuità e quali invece gli scarti, i cambiamenti di direzione di questo ventennale viaggio?
Premessa doverosa e perentoria: dalla prima edizione che ho curato nel 1999 è cambiato tutto. Si tratta però di cambiamenti che non si sono mai palesati come ‘salti’ veri e propri, ma piuttosto attraverso trasformazioni continue, sottotraccia, le cui dinamiche si sono sviluppate nel corso delle diverse edizioni. Rivoluzioni latenti ma costanti, lente ma inesorabili.
Quando si è passati dal muto al sonoro, quello sì un passaggio repentino ed epocale, c’era piena coscienza di trovarsi di fronte alla rivoluzione copernicana della storia del cinema di ogni tempo e luogo. Oggi assistiamo a balzi in avanti, ritorni all’indietro, continue modifiche di percorso e indirizzo di cui spesso si coglie la vera portata solamente a posteriori, ripercorrendo l’album dei ricordi e rovistando nella memoria.
Se penso alla Mostra del Cinema di vent’anni fa mi sembra di guardare davvero ad un’altra era geologica, ma se dovessi soffermarmi sui cambiamenti più significativi avvenuti negli ultimi cinque, sei anni, beh, la sensazione sarebbe di sicuro diversa.
I grandi cambiamenti ad ogni modo li conosciamo tutti: il predominio delle piattaforme, le difficoltà vissute dagli apparati tradizionali di pro- duzione e distribuzione, gli stravolgimenti affrontati da tutte le diverse realtà culturali, industriali, istituzionali che nel loro insieme danno corpo all’universo cinema. Materia nota, argomenti conosciuti. Addentrandosi più specificamente nell’universo festival, invece, e più in dettaglio nella nostra amata Mostra del Cinema, perlomeno per quel che riguarda il rapporto della stessa con tutti i soggetti del nostro settore non è cambiato poi moltissimo. Non è venuta meno l’esigenza primaria di partecipazione al festival, il cui senso primo rimane sempre lo stesso, vale a dire quello di far conoscere un film, promuoverne le tematiche e testarne il primo impatto con un pubblico dalle esigenze particolari quale necessariamente è quello che partecipa ad un festival internazionale storico come
il nostro. Un pubblico a ben vedere anche assai composito però, composto certamente da centinaia di esperti e di addetti ai lavori, ma al contempo anche da altrettante centinaia, ma direi migliaia, di appassionati e di semplici spettatori che nel loro insieme restituiscono poi uno spaccato credibile di quello che è il pubblico largo della sala commerciale. Le indicazioni che sortiscono dagli esiti di ogni edizione della Mostra si rivelano quindi ancora utili, anticipatrici di quella che sarà la vita futura di un film ben oltre i confini del Festival. Un grosso cambiamento nelle dinamiche interne alla Mostra è di sicuro quello che ha investito negli ultimi due anni il lavoro di noi selezionatori. Si lavora nettamente di più più rispetto a prima. La pandemia ha rappresentato da questo punto di vista uno scarto vero, perché ha fatto saltare la regolarità cadenzata delle uscite, dei calendari, di fatto per mesi praticamente sospesi. Ciò inevitabilmente ha creato un accumulo, un ingorgo infinito di film non distribuiti e in attesa ansiosa di uscire in sala. Una volta riaperte tutte le sale è scesa sulle nostre teste un’autentica grandinata di pellicole smaniose di essere presentate, viste, promosse. Per essere concreti, prima del 2020 il lavoro di visione dei film iniziava a marzo; da due anni a questa parte già tra novembre e dicembre i film vengono sottoposti alla nostra attenzione ad un ritmo incalzante, a volte davvero difficile da sostenere.
Tempo fa, a seconda del periodo dell’anno in cui un film veniva ultimato, questo veniva mandato a Berlino o a Cannes, o poi ancora a Venezia, in una corrispondenza progressiva tra fine del lavoro e primo festival utile in calendario. Ora quando un film è terminato viene automaticamente proposto in contemporanea a tutti i maggiori festival, a quelli sopracitati così come, che so, a San Sebastián, Locarno, Toronto. Si può dire che io non abbia mai smesso di vedere film nell’ultimo anno: ad un ritmo di 4-5 al giorno da dicembre, quindi con intere giornate che scivolavano via così; in alcuni periodi avrei dovuto vederne 8-10 quotidianamente per smaltire il lavoro accumulato. Insomma, una rincorsa continua. Ovviamente il nostro lavoro non si esaurisce con la visione dei film, ma si estende in una moltiplicazione esponenziale di relazioni, di contatti a cui dover poi rendere conto. Essendoci una montagna di film in più che ci vengono presentati, voi capite bene che, di conseguenza, si moltiplicano le richieste, le sollecitazioni, talvolta le pressioni, perché tutti vorrebbero essere in selezione. C’è poi la corrispondenza telematica quotidiana da assolvere per curare ogni dettaglio dell’organizzazione, che per fortuna ogni anno riusciamo ad arricchire di cose nuove e stimolanti, o di graditissimi ritorni come quello di Venezia Classici quest’anno, dopo che gli scorsi anni abbiamo trasferito la sezione nei cinema in città nei mesi a seguire, e di Venice VR, anch’essa di ritorno al Lido nella fantastica location dell’isola del Lazzaretto Vecchio, quest’anno davvero in una veste rinnovata fin dal nome, Venice Immersive, e potenziata con la grande novità di un nuovo mercato dedicato specificamente a questo linguaggio. Insomma, non ho davvero mai lavorato tanto come quest’anno. Ma sono felice di averlo fatto, perché il fuoco c’è sempre, è vivo e perennemente alimentato.

Insomma, non ho davvero mai lavorato tanto come quest’anno. Ma sono felice di averlo fatto, perché il fuoco c’è sempre, è vivo e perennemente alimentato.

Vi è uno specifico aspetto, un settore, una sezione della Mostra che è stato più di altri investito in questi anni da radicali cambiamenti?
Quest’anno ho potuto riscontrare un fortissimo cambiamento nel rapporto con i produttori; ho percepito da parte loro un’ansia ed un’angoscia che in passato non avvertivo. Mai come quest’anno ho ricevuto sollecitazioni incalzanti da parte di produttori e distributori per la presenza di loro film in selezione, per fortuna mai sfociate in pressioni vere e proprie, che sarebbero state di difficile e direi sgradevole gestione. Spesso non avevo la possibilità di dare una risposta immediata a queste numerosissime richieste e percepivo distintamente il logorio mentale che questa incertezza inevitabilmente procurava. Una situazione figlia di un malessere diffuso che ha investito frontalmente tutta l’industria del cinema, così come ovviamente tantissime altre. Un sacco di operatori che mi scrivevano a giorni alterni, argomentando i motivi per cui secondo loro il film avrebbe meritato un posto in Mostra… Insomma, un periodo di enorme stress che ha messo a dura prova un settore che aveva già subito un fortissimo contraccolpo dovuto alla pandemia, che ha accelerato prepotentemente la portata rivoluzionaria di cambiamenti epocali nelle logiche di fruizione, e quindi di distribuzione, dei prodotti filmici. Uno stato di diffusa incertezza che non sempre andava giustificata, però compresa sì. Non ho mai passato così tanto tempo a rispondere a tutte queste persone, ad ascoltarne le ragioni e a spiegar loro le mie, a motivare le mie scelte e a condividerle con loro.
Questo malessere, sia ben chiaro, non è legato ad un cinema in crisi o moribondo: niente di più lontano dalla realtà. Non si è mai prodotto così tanto cinema come in questo periodo. Si tratta di una situazione di incertezza che dipende in larga parte dalle forze produttive e della distribuzione, le quali vedono il proprio spazio vitale minacciato dalle enormi trasformazioni che stanno investendo il loro mondo. Mutazioni a cui è sempre più difficile dare delle risposte adeguate e vincenti. Cambiamenti che, se possibile, pare abbiano amplificato ancora di più la funzione centrale dei festival come luogo di visibilità, di promozione essenziale del prodotto film. Assolutamente, su questo non c’è ombra di dubbio. Essere nel programma di un festival non vuol dire solamente far conoscere il proprio film al più ampio pubblico possibile, significa garantirsi un label di qualità che permette al tuo lavoro di spiccare sugli altri, di distinguersi. Di pari passo crescono naturalmente anche le responsabilità di cui un festival viene investito, con aspettative enormi da soddisfare in termini sia di pubblico che di addetti ai lavori: oggi come mai prima d’ora ci rendiamo davvero conto di quale peso rivestano un nostro “sì” o un nostro “no” alla presenza di una data pellicola al Lido. E questo non solo in termini di fortune commerciali. Anche gli autori più navigati e i produttori più sperimentati hanno la stessa ansia di giovani esordienti completamente a digiuno delle dinamiche che connotano la vita di una manifestazione tanto seguita a livello nazionale ed internazionale.

 

Nel Concorso, ma diremmo, con uno sguardo trasversale, un po’ in tutte le varie sezioni della Mostra, abbiamo notato la persistenza di temi e anche di generi molto attuali, o meglio, che in questo presente connotano fortemente il cinema un po’ di ogni dove. Un genere oggi decisamente assai in voga, e ben presente qui a Venezia, è ad esempio il biopic in tutte le sue diverse sfumature e declinazioni. Vi è poi un accento deciso ai temi intimi, profondamente esistenziali del nostro tempo connessi alle trasformazioni epocali che stiamo oggi attraversando: le sempre più complesse relazioni genitori/figli, l’integrazione razziale, la frantumazione delle grammatiche tradizionali delle politiche, la lunga onda della storia con tutti i suoi risvolti sociali e valoriali.
Credo che sia una delle missioni del festival quella di affiancare registi dalla diversa natura e disposizione, siano essi noti e attesi oppure emeriti sconosciuti, per fuggire ad un appiattimento che altrimenti snaturerebbe completamente la natura, lo spirito stesso della Mostra. Il nostro deve essere un lavoro di setaccio, un’azione di scoperta e di ricerca curiosa, con tutti i rischi che derivano poi dal dover scegliere 23 film lasciandone fuori altri 2.300. Come già ho avuto occasione di dire durante la conferenza stampa di presentazione, in questo periodo, e non solo in Italia, si è prodotto tantissimo. E nell’ansia di produrre, spesso è stata la qualità a rimetterci maggiormente. Un’ansia di sicuro motivata dalla richiesta crescente di film, in primis da parte delle piattaforme, ma anche e soprattutto dal fiume di denaro, tra politiche di sostegno pubbliche e provvedimenti di detassazione, che si è riversato nel settore e che ha spinto a produrre film senza che a volte ne valesse davvero la pena, parliamoci chiaro. Un’ansia di girare che ha poi dovuto fare i conti con le difficoltà logistiche legate al lavoro, con l’aumento dei costi di gestione per poter lavorare in sicurezza, in chiave anti-pandemica. Certo, abbiamo selezionato film in concorso che non sono stati condizionati da questa logica infida, che ci hanno impiegato i loro buoni tre, cinque anni per dirsi compiuti a dovere, vedi i nuovi lavori di Iñárritu o Baumbach. Però ci siamo trovati tra le mani troppe opere fatte di fretta, senza cura dei dettagli o anche peggio. Chi ha girato ‘tanto per girare’, per non uscire dal mercato, ha inevitabilmente realizzato film che soffrono grandemente in termini di qualità. Una situazione, questa, purtroppo gravida di conseguenze anche a medio-lungo termine, perché se una cinematografia perde di qualità perde inevitabilmente spettatori, andando ad incrinare un rapporto di fiducia e credibilità con il pubblico che sarà difficile poi recuperare. Pensiamo a quanto ci ha messo il cinema italiano a risalire dall’abisso qualitativo in cui era sprofondato negli anni ’90, a quanto ci ha messo a recuperare fette di mercato. Non vorrei fare l’uccello del malaugurio, tutt’altro: il mio vuole essere un preoccupato monito a riflettere su questo stato delle cose fortemente critico.
Mi rendo conto che al cospetto di una situazione come questa ci si trovi di fronte a scelte complicate da prendere. Insomma, c’è grande crisi e preoccupazione in giro, finalmente arrivano sostegni veri, quindi la possibilità felice di rimettere migliaia di operatori al lavoro: non puoi non essere tentato di fare tutto e subito fin che ce n’è, fin che dura. E però, ripeto, fretta e ansia sono pessimi ingredienti in termini di visioni prospettiche. Ti portano a guardare solo al qui e ora e quindi a non seminare, a non sedimentare, e la qualità se ne va. Tornando nel merito stretto di questa 79. edizione, è vero, sì, che in Concorso ci sono parecchi film autobiografici o che prendono spunto da racconti autobiografici; come è altrettanto vero che vi sono ancora più film costruiti attorno a un’attenzione molto forte verso il rapporto tra genitori e figli, come se questi due anni di lockdown più o meno intenso avessero costretto gli autori a un fortissimo lavoro di introspezione attorno a questo tema, in particolare a cimentarsi in un confronto forte con le nuove generazioni, che in questi due anni hanno sofferto come sappiamo più di tutti. Questi film hanno intercettato questo disagio ed evidenziato l’incapacità da parte del mondo adulto di comprendere e affrontare il malessere dei più giovani. Anche la storia, è vero, ha uno spazio crescente ed irrinunciabile nel  palinsesto del festival, così come le realtà complesse di diversi Paesi in un momento globalmente tanto instabile. Per fortuna, però, anche sotto questo punto di vista non vi è alcun rischio di omogeneità, di appiattimento nel programma che abbiamo costruito, anzi. Sono talmente diverse le letture, i temi, le identità di queste differenti aree del mondo che vengono raccontate che questo rischio non si corre proprio.

Un Festival legato mai come in questi ultimi anni alle grandi produzioni oltreoceano. Come è cambiato il Concorso di Venezia da questo punto di vista? Significativa in questo senso la partecipazione ufficiale, istituzionale dell’Academy quest’anno a Venezia, per la prima volta presente in questa forma a quanto ci risulta in un festival, perlomeno qui in Europa.
Era ormai da diverso tempo che stavo cercando di capire come instaurare un rapporto con un’istituzione come l’Academy, negli ultimi dieci anni soggetto che si identificava con l’epilogo fortunatissimo di un percorso che moltissimi film insigniti dell’Oscar iniziavano proprio qui a Venezia. Lo scorso anno una componente del board aveva seguito i film al Lido e a fine rassegna ci aveva tenuto ad incontrarmi per farmi sapere quanto avesse apprezzato la Mostra da svariati punti di vista, dalla programmazione in sala a quella dei diversi panel, il tutto in un clima che davvero l’aveva colpita particolarmente. Abbiamo deciso quindi di comune accordo di dare a questo rapporto una veste più ufficiale, lavorando alla cosa fin dall’autunno scorso. Siamo stati poi fortunati con le tempistiche, visto che Bill Kramer, loro nuovo Amministratore Delegato, è stato nominato appena due mesi fa e non ha ancora fatto uscite pubbliche in questa sua nuova veste, cosa che avverrà quindi proprio da noi. L’Academy si è da subito mostrata interessata a capire in concreto e dall’interno le dinamiche di un festival come il nostro, per comprendere ancora meglio i risultati ottenuti in questi anni, desiderosa di entrare in contatto con un universo cinematografico come quello europeo che per forza di cose hanno meno possibilità di frequentare personalmente. Altro aspetto importante per loro sarà la possibilità di presentare attraverso la ribalta offerta dalla Mostra le linee programmatiche della nuova compagine dirigenziale. Non tanto delle attività specifiche, quanto dei principi che le ispireranno, con il tema dell’inclusione a spiccare di certo su tutti.
Per noi è ovviamente un riconoscimento importante, la legittimazione di un ruolo e l’affermazione di un prestigio che abbiamo conqui- stato grazie al duro lavoro di tutti. Una straordinaria opportunità di vedere i nostri sforzi ufficialmente premiati e valorizzati dalla massima istituzione cinematografica americana. Io credo che venga sempre più apprezzato nel mondo e nel tempo, anche da queste storiche istituzioni, il nostro modo di intendere e di vivere il nostro ruolo nella maniera più indipendente possibile.
Il fatto che, pur instaurando ottimi rapporti con piattaforme e case di produzione, non abbiamo mai accettato di scendere a compromessi di vera sostanza in fase di scelta, di selezione dei film, credo abbia pagato e paghi tantissimo in termini di reputazione. Che il film ci venga proposto o che parta da noi la richiesta di poterlo visionare, siamo noi a decidere se prenderlo o meno nel nostro festival. Anche quest’anno abbiamo detto “no” in più di un’occasione anche a nomi e compagnie di prima rilevanza. È proprio questo approccio chiaro e netto che permette di mantenere forte e alta la credibilità della manifestazione e dell’istituzione, unica condizione che ti permette di sottrarti a pressioni ingiustificate e ingestibili.

L’Academy si è da subito mostrata interessata a capire in concreto e dall’interno le dinamiche di un festival come il nostro, per comprendere ancora meglio i risultati ottenuti in questi anni, desiderosa di entrare in contatto con un universo cinematografico come quello europeo che per forza di cose hanno meno possibilità di frequentare personalmente

Quest’anno spicca l’assenza delle cinematografie dell’estremo oriente. Non manca però il solito sguardo aperto sul mondo, sui vari angoli dei continenti. Quali sorprese dobbiamo attenderci da film o da registi provenienti da Paesi “altri”? Quali sguardi alternativi offrono?
L’assenza, a parte un paio di eccezioni, della Cina spicca di sicuro. La motivazione principale, oltre a quella rilevantissima della crisi pandemica, è da ricercarsi nella censura subdola, sotterranea, ma comunque molto forte, che sta investendo il settore cinematografico di quel Paese. Un contesto in cui autori sgraditi vengono totalmente esclusi dalla possibilità di ricevere sostegno adeguato per produrre e distribuire i propri lavori. Una pressione fortissima che il governo cinese sta portando avanti per fare in modo che alcuni registi non possano lavorare o che film ultimati non possano essere distribuiti, men che meno all’estero.
Ciò detto, gli sguardi alternativi e le nuove geografie coinvolte in Mostra ci hanno sorpreso per la capacità di far nascere lavori assolutamente meritevoli anche in realtà in cui non si capisce bene come sia possibile anche solo pensare di poter lavorare. C’è da dire che, finalmente!, si comincia a registrare una crescente e forte attenzione, con relativi sostegni in termini economici, verso la produzione filmica da parte di governi che prima d’ora non si erano dedicati affatto, o ben poco, alla cura del comparto cinematografico, settore di cui ora comprendono l’importanza in termini di valorizzazione e promozione della cultura dei territori che si trovano a governare. Insomma, capiscono oggi quanto il cinema sia un veicolo straordinario in questa direzione.
Ci sono giovani talenti che sbocciano ovunque, in realtà in cui magari i cinema nemmeno esistono. Da luoghi praticamente inediti nei grandi festival abbiamo ricevuto lavori che ci hanno sorpreso per la dimestichezza dimostrata da registi e attori nel padroneggiare il linguaggio delle immagini. Ci sono poi anche, invece, felici conferme come quella dell’Iran, che naturalmente non è accostabile in alcun modo a queste nuove cinematografie alla luce della straordinaria storia cinematografica che lo contraddistingue, da cui abbiamo ricevuto quest’anno una marea di film, alcuni di buona qualità. Di sorprese, siamo sicuri, ce ne saranno molte.

 

A questo proposito volevamo qui indagare il percorso che ha portato a Venezia gli ultimi lavori di due straordinari autori quali Jafar Panahi e Kim Ki-duk, il primo incarcerato dal regime iraniano, il secondo morto improvvisamente poco prima di ultimare il suo ultimo lavoro che qui presenterete.
Sono due anni che il produttore estone del film di Kim Ki-duk, tra l’altro lui stesso anche attivo come regista, ci parlava del progetto di portare a compimento il film che il regista sudcoreano aveva lasciato incompiuto dopo la morte avvenuta nel dicembre 2020 per complicazioni legate al Covid-19. Il film era stato girato tutto, si stava procedendo al montaggio per il quale tra l’altro Kim Ki-duk aveva lasciato indicazioni molto precise. Le grandissime difficoltà causate dalla pandemia, con la conseguente ardua ricerca di sostegni economici, hanno ritardato la fine del lavoro, originariamente prevista per l’anno scorso. Per fortuna il film è stato finito in tempo utile per la Mostra, cosa che purtroppo non si può dire di un documentario a cui sta lavorando questo stesso regista estone su Kim Ki-duk, basato sul contributo di registi, sceneggiatori e produttori che hanno lavorato negli ultimi vent’anni a fianco del grande autore sudcoreano. A tutti è sembrato logico far vedere il suo ultimo lavoro a Venezia, festival che ha fatto scoprire Kim Ki-duk con L’isola nel 2000 e che lo ha premiato per ben due volte: nel 2004 con il Premio Speciale della giuria a Ferro 3 e nel 2012 con il Leone d’Oro a Pietà.
Abbiamo scoperto, se mai ce ne fosse stato bisogno, di come e quanto Kim Ki-duk abbia in questi anni goduto di una platea di affezionati che non si è mai ridotta, neanche quando nel 2018 il regista ha vissuto vicissitudini personali assai complicate, con le accuse mossegli di molestie sessuali e metodi lavorativi brutali che lo hanno costretto ad emigrare in Tagikistan per girare il film e successivamente in Estonia.
Per quel che riguarda invece Jafar Panahi, il film presentato in Concorso a Venezia, che per tutti coloro i quali hanno già avuto modo di vederlo è il miglior lavoro tra quelli da lui girati negli ultimi anni, il più compiuto ed esteticamente impressionante, è ormai il quarto che il regista realizza in condizioni di clandestinità. Una clandestinità che è anche espressione della rodatissima ipocrisia del regime iraniano, che naturalmente non può non sapere che un autore come Panahi, al quale da anni viene negata la possibilità di uscire dal Paese dandogli però la possibilità di muoversi nel Paese stesso, sta girando “nascostamente” dei film. Film che poi trovano il modo di uscire dall’Iran nonostante per il regista ci sia il divieto di lavorare, oltretutto ricevendo in diversi contesti internazionali il giusto riconoscimento. Un rapporto sottilissimo in cui tutti sanno e nessuno dice, una stortura che solo l’insensatezza di una dittatura riesce a spiegare.
Ora, con il suo arresto a luglio di quest’anno, la situazione è però precipitata, anche perché a differenza degli arresti precedenti, in base alle informazioni che riceviamo da persone a lui vicine, il regista ha accettato di sottoporsi ad un processo non patteggiando le pene come in passato, quando era stato condannato a diversi anni di arresti domiciliari, poi al divieto di uscire dal Paese e di realizzare film. La scelta di affrontare il processo, quindi di sfidare a viso aperto il regime senza prestarsi a subdoli compromessi, lo porterà quasi sicuramente all’obbligo di rispettare una condanna di cui tutti abbiamo paura, visto l’accanimento che il regime ha sempre dimostrato nei suoi confronti e che ora si accrescerà ancora di più, dato il sottrarsi dell’autore a scendere a patti con l’assurdo.
La situazione a livello globale, per quanto riguarda censura e persecuzione, mi preoccupa moltissimo, sempre di più. Penso alla Turchia, dove è praticamente impossibile lavorare in questo settore se si è in qualche maniera invisi al regime, vedi il caso recentissimo della giornalista e produttrice Cigdem Mater, condannata a 18 anni di prigione per aver solo ipotizzato di voler trovare fondi per la realizzazione di un documentario sulle proteste di Gezi Park del 2013. E spesso anche non pochi Paesi occidentali, che si professano campioni di democrazia, falliscono miseramente la messa in pratica di questi valori con scelte che vanno in direzione di censure pazzesche, inaccettabili, occultate dall’ipocrisia. L’Italia, in questo senso, non fa eccezione.

Volendo un po’ semplificare, perché naturalmente poi il delta delle proposte qui in Mostra è assai più ramificato, il cinema italiano quest’anno a Venezia sembra presentarsi con due sguardi, con due approcci estetici e produttivi assai distinti: da un lato la continuità autoriale di cineasti che hanno costruito la loro storia, i loro percorsi nel solco della grande tradizione del nostro cinema, chi più innovando chi meno, vedi i vari Amelio, Virzì, Crialese o Rosi, dall’altro autori i cui lavori nascono, sono caratterizzati a monte da uno sguardo, da visioni decisamente più internazionali, su tutti Guadagnino e Pallaoro. Cosa differenzia gli uni dagli altri nell’approccio al fare cinema, nell’osservazione della realtà, della vita da restituire visivamente e come nel loro composito insieme contribuiscono a definire il quadro contemporaneo del nostro cinema?
I casi di Pallaoro e Guadagnino credo rappresentino la migliore dimostrazione di come si possa lavorare in uno scenario internazionale senza perdere la propria identità più autentica, senza snaturare le radici di collegamento con la propria cultura, con la propria terra di provenienza. Né Pallaoro e né tantomeno Guadagnino hanno rinunciato a nulla della propria personalità, pur vivendo o lavorando in ambito statunitense. Allo stesso tempo grazie alla loro condizione mentalmente aperta, libera da troppi condizionamenti per così dire d’ambiente, fanno film assolutamente non vincolati all’estetica italiana. Se non sapessimo che il film di Guadagnino è di Guadagnino potremmo tranquillamente attribuirlo ad un regista americano, o comunque straniero. Il film, tra i suoi più riusciti, parla tra l’altro di un’America storicamente da noi poco conosciuta, abituati come siamo a identificare gli Stati Uniti con New York, Miami, Los Angeles o Chicago; ci troviamo quindi assolutamente disorientati quando entriamo in contatto con l’arretratezza, la povertà assoluta addirittura che caratterizza il cuore profondo di questo Paese-Continente, quel Midwest che con l’east- e la west-coast non ha proprio nulla cui spartire. Si tratta davvero del suo film più compiuto, vedrete. Ora sta già girando un suo nuovo lungometraggio con la Metro Goldwin-Mayer, scelto tra altri due, tre progetti che gli sono stati offerti sempre dal mercato americano. Il suo status internazionale è pieno, totale. Spero che questo film serva finalmente a far crollare quelle barriere che spesso vengono erette qui da noi quando si parla del suo lavoro da un ambiente talvolta assai provinciale. Paga di sicuro in Italia il coraggio che lo contraddistingue di dire sempre quello che pensa, senza paura delle reazioni che andrà a suscitare. Diciamo che non gli piace dare del tu alla diplomazia, ecco. Per queste ragioni il suo lavoro è sempre stato sottovalutato, non apprezzato a dovere per quello che in realtà vale. Spero quindi davvero che il film possa invertire questa tendenza. Credo sinceramente ci sia molto da imparare da questa sua capacità quasi naturale di sapersi muovere in estrema libertà senza mai rinunciare a un’unghia della propria indipendenza.
Lo stesso, per certi versi, si potrebbe dire di Andrea Pallaoro, che giovanissimo ha lasciato il nostro Paese per andare a vivere e a lavorare negli Stati Uniti con attori americani, con l’eccezione di Hannah, presentato a Venezia nel 2017 e che è valso a Charlotte Rampling la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Esattamente come Guadagnino, Pallaoro non si pone nemmeno il problema di cosa voglia dire realizzare un film all’estero con un cast di attori internazionali; per lui è una condizione normale, logica. Questa positiva, risolta disinvoltura lo porta a lavorare in qualsiasi contesto cinematografico con una naturalezza, un’autenticità che gli consentono di non doversi mai snaturare neanche di una virgola nell’atto di intraprendere progetti anche assai diversi tra loro. Sull’altro fronte, quello diciamo così più italiano-italiano, al di là delle criticità di cui abbiamo parlato in precedenza circa la bulimia produttiva a discapito della qualità che ha caratterizzato la produzione della nostra industria cinematografica in questo ultimo biennio, siamo riusciti a selezionare in Concorso comunque ottimi lavori. Per quanto riguarda Amelio, secondo me con Il signore delle formiche siamo in presenza del suo film più bello degli ultimi vent’anni. Ma anche gli altri hanno realizzato opere forti e coinvolgenti. Mi piace segnalare su tutti Susanna Nicchiarelli, che con Chiara aggiunge un altro solido tassello a quel suo percorso forte e personale, sia in termini di linguaggio, di estetica, che di contenuti narrativi, verso quella tesa e vitale riscoperta delle figure femminili che per diversi motivi sono state cancellate dalla storia nel corso dei secoli. La forza di questi film nel loro articolato insieme sta nel fatto che nella loro talvolta anche profonda difformità di esiti riescono a restituire al meglio la cifra autoriale del nostro cinema, in particolare quella capace di non farsi imbrigliare e condizionare pesantemente dai talvolta soffocanti schemi della nostra tradizione. Un dato, questo, assai più vivo, accentuato qui a Venezia rispetto agli anni precedenti.

 

Orizzonti ed Orizzonti Extra si confermano sezioni ricercate e sempre più ambite oramai anche da registi affermati sulla scena internazionale, con quel confine a dividerle dal Concorso che si fa sempre più sottile, quasi impalpabile. Credeva già quando le progettò queste sezioni che sarebbero cresciute così velocemente?
Ci speravo di certo. La mia intenzione era tutt’altro che quella di costruire un contenitore di nicchia autoreferenziale, al servizio esclusivo di cinefili accaniti o di appassionati alla ricerca delle ultime sperimentazioni. Naturalmente è stata concepita come uno spazio meno condizionato dai canoni di un grande festival, più libero, aperto. E proprio questo ha permesso alla sezione di essere inclusiva, crescendo ai bordi di più confini. Quando abbiamo deciso di far nascere Orizzonti, l’ambizione era quella di allestire due Concorsi che fossero due facce della stessa medaglia. In alcune occasioni è stato complicato convincere il regista affermato a collocarsi in quella che veniva a torto considerata una serie B della rassegna, soprattutto nei primi anni. Ma poi, progressivamente, questa diffidenza si è sbriciolata alla luce dei risultati che la sezione è stata capace di conseguire, dimostrando di potersi saldamente reggere sulle proprie gambe, anzi, di essere caratterizzata da un dinamismo capace di accogliere al proprio interno le opere più disparate. Direi che è precisamente questa la sua cifra identitaria prima. Quando quest’anno ho deciso di proporre la collocazione in Orizzonti al regista francese Jean-Paul Salomé e al suo La Syndacaliste con Isabelle Huppert, beh, vi confesso che, nonostante sia ormai da anni più che consapevole della crescita di questa sezione, le gambe mi tremavano un po’. Insomma, stiamo parlando della massima attrice francese, una delle più importanti del mondo, che solitamente se non le inserisci in Concorso vanno altrove. Ebbene, nel giro di neanche mezza giornata ho ricevuto da loro una chiamata in cui entrambi mi ringraziavano dell’opportunità che la Mostra gli offriva. Direi che non serve aggiungere altro circa lo status raggiunto da Orizzonti, vero? Si conferma una sezione in cui si mescolano volentieri le carte, in cui a opere di registi più conosciuti come Pippo Mezzapesa, qui con Ti mangio il cuore con protagonista attesissima Elodie, si affiancano lavori di registi esordienti, che naturalmente guadagnano luce dallo stare a fianco ad autori già affermati. Giovani che magari l’anno pros
simo o quello dopo avranno l’opportunità, grazie a questo importante passaggio, di tornare a Venezia, magari proprio in Concorso.
Il film di apertura quest’anno sarà Princess di Roberto De Paolis, una bellissima conferma per un grande talento che con il suo primo lavoro, Cuori puri, era già stato selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs nel 2017. Un regista che lavora con un approccio personalissimo, in equilibrio tra fiaba e documentario, e che per realizzare il film ha passato due anni interi con queste prostitute nigeriane per guadagnare la loro fiducia, scovando tra loro poi una protagonista che ha modi da attrice navigata. Un film che poteva tranquillamente essere selezionato per il Concorso, ma che qui sta benissimo.

La Virtual Reality, quest’anno Venice Immersive, sta guadagnando un suo spazio sempre più definito nell’economia complessiva della Mostra. In più quest’anno, dopo due anni di ‘esilio’ forzato, ritorna di nuovo al Lido. Quali novità dobbiamo attenderci e quale lo stato di salute di questa nuova frontiera visiva?
Una sezione che ritorna finalmente al Lido, sì, accresciuta negli spazi e nei temi. Quest’anno occuperemo tutte le tese del Lazzaretto Vecchio, con una parte interamente dedicata al mercato della VR, che è la vera, grande novità dell’edizione. Tutto svolto sull’isola. Oltre 2500 metri quadri saranno occupati da installazioni interattive davvero impressionanti e sempre come minimo interessanti. Essendo l’unico grande festival con un Concorso espressamente dedicato a questa tecnica di produzione, ci confermiamo punto di riferimento per tutti gli addetti ai lavori del settore e per tutti quei soggetti interessati non solo agli sviluppi tecnologici di questo nuovo linguaggio, ma anche e soprattutto alle possibilità estetiche, contenutistiche che esso sa offrire oggi. È in questa direzione che la sezione regalerà le sue migliori sorprese, dimostrando di stare vivendo un percorso di crescita a 360 gradi.

Il Leone: Paul Schrader.
Un autore a tutto tondo, capace di regalarci sceneggiature rimaste indelebili nella storia del cinema. Ha realizzato alcuni film a dir poco epocali, basti pensare che cosa ha rappresentato American Gigolò all’epoca della sua uscita. Un autore che continua a lavorare e a confezionare film provocatori, mai concilianti. Un regista che ha avuto una storia, un percorso importante anche qui da noi, alla Mostra del Cinema e che ci sembrava quindi doveroso celebrare.

La Leonessa: Catherine Deneuve.
Se esiste un’icona moderna capace di racchiudere nella propria fisionomia il cinema d’autore dalla Nouvelle Vague in poi, la moda e l’ideale di bellezza e di eleganza, questa è solo ed unicamente lei: Catherine Deneuve.

La Presidente: Julianne Moore.
Un’attrice straordinaria, che ha lavorato con alcuni dei registi più amati e celebrati del cinema moderno. Una persona dal grande fascino e dall’intelligenza vivace, curiosa e profondamente innamorata del cinema. Si è fatta coinvolgere e appassionare da subito nel ruolo che la abbiamo chiamata a rivestire. Sono sicuro che sarà un’ottima Presidente di giuria.

 

Immgine in evidenza: Rocio Muño Morales and Alberto Barbera, credits La Biennale di Venezia – Foto ASAC ph. Giorgio Zucchiatti

 

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