La sottile linea tra architettura e arte

Demas Nwoko, pioniere del design africano
di Marisa Santin
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Premio alla carriera a “Baba” Demas Nwoko, l’architetto-designer che ha contribuito a ridefinire l’immagine dell’estetica africana, portando un nuovo senso di identità e fierezza alla scena artistica internazionale.

Nel mondo del design contemporaneo, pochi nomi sono in grado di coniugare tradizione e modernità con la stessa audacia di Demas Nwoko. Nato e cresciuto in Nigeria, formatosi a Parigi, Nwoko è un pioniere del design africano, noto per la sua capacità di fondere influenze culturali diverse in creazioni artistiche senza tempo Il suo lavoro ha ispirato una generazione di artisti e designer africani a esplorare la propria identità culturale e a celebrare le tradizioni locali in modo innovativo. «Quando viene interpellato – dice di lui la curatrice Lesley Lokko – si riferisce a se stesso come a un “artista-designer”, il che dice molto sia della natura poliglotta dei suoi talenti e delle sue opere, sia dell’interpretazione piuttosto ristretta della parola “architetto” che ha probabilmente tenuto il suo nome fuori dagli annali».

Nell’idea classica di architettura l’immaginazione creativa e l’architettura vengono viste come due entità separate, mentre nella sua pratica professionale vivono in una dimensione prossima, sembrano addirittura essere la stessa cosa. Pensa che vi sia oggi ancora una differenza costitutiva tra arte e architettura? La domanda è particolarmente pertinente qui a Venezia visto che abbiamo la Biennale Arte e la Biennale Architettura: non siamo tanto interessati a trovare una differenza tra le due, quanto piuttosto a mettere a fuoco entrambe. Secondo lei perché l’architettura ha bisogno dell’immaginazione?
Nella cultura africana, cui appartengo, non vi è una netta separazione tra arti plastiche e architettura, perché qui da noi la cultura non è prerogativa di una determinata classe sociale e appartiene, quindi, a tutti indistintamente. Noi africani apprezziamo molto le arti creative, siano esse arti plastiche o dello spettacolo. Tutti vi partecipano allo stesso livello; non è affatto costoso, visto che fanno parte integrante della nostra vita quotidiana. Nella nostra cultura c’è spazio per tutti; chiunque può esprimere liberamente la propria creatività e per vederla non devi pagare. Per esempio quando qualcuno finisce di costruirsi la casa non affida la tinteggiatura ad un imbianchino, perché è la moglie stessa a occuparsene e a rioccuparsene molto probabilmente ogni mese o ogni due mesi. Tinteggiando la sua casa esprime tutta la sua creatività nei motivi monocromatici realizzati con le proprie mani.

Nella cultura africana, cui appartengo, non vi è una netta separazione tra arti plastiche e architettura, perché qui da noi la cultura non è prerogativa di una determinata classe sociale e appartiene, quindi, a tutti indistintamente.

Anche i ragazzi che tutte le mattine spazzano l’esterno delle case con scope artigianali di paglia involontariamente disegnano dei motivi che rimangono impressi sul terreno quasi tutto il giorno, per poi scomparire solo verso sera dopo essere stati calpestati per tutta la giornata. Il mattino successivo bisogna rifare tutto daccapo: si tratta di veri e propri disegni artistici tracciati sul terreno. In questo senso intendevo dire che la nostra cultura dà spazio a tutti di esprimersi liberamente. Nella cultura artistica africana non esiste alcuna definizione collegata ad un determinato periodo storico per definire le varie correnti artistiche come viceversa avviene nel resto del mondo. Se qui in Africa i risultati dell’attività artistica sono meno innovativi, il modo di fare arte è per contro molto più vivace. Quindi per me la creazione di un’opera architettonica permanente è inscindibile da questo spirito artistico insito nella nostra cultura. Se prima si trattava di qualcosa di temporaneo ma ripetitivo, ora tutto viene fotografato e postato sui social ed è come se i miei lavori fossero delle creazioni sempre nuove. La differenza tra le nostre città e quelle europee è che quest’ultime sono in qualche modo più fossilizzate. Tornare a Parigi adesso a distanza di 50 anni dalla prima volta è come se nulla fosse cambiato. Qui in Africa invece stiamo costruendo ora le nostre città, per cui abbiamo maggiori possibilità di scegliere in qualunque momento i modelli offertici dal resto del mondo.

Demas Nwoko
Demas Nwoko, © Titi Ogufere

Il suo lavoro, benché moderno, si ispira all’estetica africana e ai metodi di costruzione tradizionali. Cosa può imparare il resto del mondo dal design africano?
Vi è un problema globale che riguarda le culture cui è consentito esistere. È normale che tutti noi accettiamo che ciascuno viva secondo la propria cultura, quindi assecondando e sviluppando l’estetica della propria arte e della propria architettura. Ma la maggior parte dei paesi del Terzo mondo si sono venuti a trovare in una situazione in cui la loro cultura estetica identitaria è stata rifiutata, trovandosi costretti ad abbandonare le proprie tradizioni e a seguire il design disponibile sul mercato globale. Il rapporto tra le varie culture è ancora fondamentalmente di tipo economico. Mentre i paesi europei si tengono stretta la propria cultura, il Terzo mondo non ha la fortuna di poter fare la stessa cosa. Il che va contro il processo naturale dell’evoluzione e contro la libertà di scegliere il proprio modo di vita. Perché si è arrivati a questa situazione? Prendiamo per esempio il problema della casa in Africa. In passato vi era un’ampia scelta, oggi invece la situazione si fa sempre più difficile al punto che trovare un alloggio adeguato è diventato quasi un miraggio. Questa situazione è stata determinata da molti fattori, primo fra tutti il costo dei materiali sul mercato globale. Si continua a dire che si dovrebbe abbassare il costo dei materiali per renderli più accessibili ai paesi del Terzo mondo. L’unica via d’uscita da questo problema è trovare il modo di consentire a questi paesi di continuare a portare avanti la loro tradizione.

Io utilizzo materiali moderni, ma per fare in modo che il mio lavoro sia sostenibile è necessario ripensare e produrre con metodi moderni avvalendosi dell’industria locale. Alla fine si tratta di una situazione che va a vantaggio di tutti.

Il che significa fare un passo indietro, ricomporre i cocci e sviluppare un sistema per iniziare di nuovo a creare il proprio habitat. Il modo migliore per raggiungere questo obiettivo è ritornare alle proprie origini e sviluppare una propria tecnologia in base alle proprie necessità, senza doversi avvalere per forza di cose di una determinata tecnologia solo perché è fortemente presente sul mercato o perché si hanno i mezzi finanziari per acquistarla. Ritorniamo all’esempio degli alloggi: se per migliaia di anni siamo stati in grado di affrontare questa necessità, perché non dovremmo più essere in grado di affrontarla a modo nostro oggi? Questo è il motivo per cui ho deciso di persistere sulla mia strada. Sono sicuro che la tradizione, così importante un tempo, può continuare a sopravvivere anche oggi; per questo ho preso dei modelli dalla tradizione dimostrando che quello che sto cercando di raggiungere è del tutto fattibile. Per essere più chiaro, io utilizzo materiali moderni, ma per fare in modo che il mio lavoro sia sostenibile è necessario ripensare e produrre con metodi moderni avvalendosi dell’industria locale. Alla fine si tratta di una situazione che va a vantaggio di tutti. L’industria tecnologica va sviluppata utilizzando tutti i materiali possibili, visto che in fin dei conti i materiali che vengono generalmente utilizzati in tutto il mondo provengono per la maggior parte dal Terzo mondo. Noi qui in Africa siamo in teoria i più avvantaggiati da questo punto di vista, ma per una serie di molteplici ragioni non abbiamo quasi mai potuto approfittare appieno di questa situazione vantaggiosa. Ciò sicuramente è dovuto in buona parte al vincolante retaggio del colonialismo o alla dominazione razzista; si tratta in ogni caso di nuovo di un fenomeno non naturale. Oggi sono convinto che abbiamo tutte le qualità e le possibilità per poter ricostruire un mondo sostenibile per noi stessi, dato che il nostro mondo in passato era perfettamente sostenibile.

La curatrice Lesley Lokko afferma: «Nel Laboratorio del Futuro non stiamo cercando di correggere, bensì di completare alcune pagine vuote della storia dell’architettura. Se dovesse riempire una di queste pagine vuote che cosa scriverebbe?
Non lo scriverei in una sola pagina: sto finendo di scrivere un libro su alcuni parametri di progettazione architettonica nei Tropici dove illustro quelli che secondo me dovrebbero essere l’essenza e gli sviluppi della progettazione architettonica. Credo che l’architettura presenti le stesse caratteristiche in tutti i luoghi appartenenti ad una determinata area geografica; per cui l’architettura nelle zone tropicali di tutto il mondo è necessariamente la stessa. Da questa mia analisi ho dedotto che anche i modelli tradizionali che vengono ripetuti sono importanti per lo sviluppo dell’architettura, poiché ritengo che, in particolare nelle zone tropicali come quella in cui io vivo, si sia sviluppata nei secoli una storia molto importante anche per quanto riguarda la tecnologia. Quello che mi propongo in questo libro è di continuare a sviluppare questa tecnologia proponendo delle soluzioni che non sono affatto teoriche, in quanto le ho già messe in pratica nel mio lavoro. Spero che questo libro possa contribuire a demistificare l’idea secondo cui l’architettura debba per forza di cose diversificarsi da una zona geografica all’altra. Si parla inoltre di come gli spazi interni debbano essere progettati esclusivamente in funzione delle esigenze delle persone che li utilizzeranno.

Immagine in evidenza: Demas Nwoko, © New Culture

Demas Nwoko, l’emblema dell’architetto poliedrico