Dopo la fortunata tappa americana alla National Gallery di Washington, è arrivata a Venezia la tanto attesa mostra monografica dedicata a uno dei più celebri interpreti della Venezia di fine Quattrocento e primo Cinquecento: Vittore Carpaccio (1460/66 – 1525/26).
Un artista che ha saputo documentare una ricca e splendente stagione della lunga storia della Serenissima Repubblica di San Marco attraverso le sue celebri istorie di Orsola, di Giorgio, di Girolamo e di Stefano trattate come poemi cavallereschi, dove Venezia, la città d’acqua anfibia, è costantemente presente in una continua mescolanza tra realtà e sogno.
L’ultima retrospettiva in città era stata quella del 1963 sempre a Palazzo Ducale (Zampetti), tuttavia da allora il pittore non era stato di sicuro dimenticato e tanto meno trascurato. Una ricca messe di studi ha sempre tenuta desta l’attenzione su questo straordinario esponente della pittura rinascimentale veneziana con monografie, rivelatrici letture iconografiche e iconologiche, relazioni sui restauri e convegni di studio, fino alla recente rilettura critica del periodo tardo (mostra Carpaccio. Vittore e Benedetto da Venezia all’Istria, Conegliano 2015), quello sì poco considerato, severamente giudicato, contemporaneo all’affermarsi dell’innovativa pittura di Giorgione e Tiziano e della loro modernità.L’attuale mostra a Palazzo Ducale e soprattutto il catalogo cercano di far sintesi di questa fortuna critica anche se di quel Vetor Scarpazo, è così che si firmava nelle sue prime opere, ci sarebbe ancora molto da sapere o meglio ci piacerebbe saperne ancora di più.
Nelle sale dell’Appartamento ducale l’evoluzione del linguaggio pittorico di Vittore è ben segnata da un percorso espositivo chiaro e piano, che segue la cronologia delle opere provenienti da istituzioni museali e private, italiane e straniere, e da chiese degli antichi territori della Serenissima. L’influenza della tradizione pittorica veneziana da Bellini e Vivarini è ben documentata nelle opere per la devozione privata, in particolare alcune Madonne con il bambino, ma a dare il via a quel linguaggio così personale, psicologico, che guarda al mondo fiammingo e si abbevera della cultura umanistica dell’epoca, è sicuramente la “star” della mostra: la ricomposizione dei due pannelli con le Due dame (Venezia, Museo Correr) e la Caccia in valle (Los Angeles, Paul Getty Museum) e la loro affascinante e ancora ingarbugliata storia. Diversamente dall’esposizione a Washington – la prima dedicata a Carpaccio in America – quella di Venezia potrà rimandare a itinerari cittadini per approfondire l’essenziale capitolo dei grandi cicli narrativi, in particolare quello della Scuola dalmata dei Santi Giorgio e Trifone ancora nella sede originaria, mentre è veramente un’occasione sprecata non poter visitare il Ciclo di Sant’Orsola conservato alle Gallerie dell’Accademia, attualmente non visitabile per motivi di inagibilità della sala per lavori di manutenzione.
In mostra è invece ricostruito l’eccezionale intero ciclo della scuola degli Albanesi, quella comunità di immigrati da una terra pesantemente minacciata e invasa dai Turchi ottomani e storicamente legatissima alla Serenissima, che avevano costruito la loro piccola sede presso la chiesa di San Maurizio, dove intorno al 1502 Carpaccio venne invitato a realizzare la decorazione con un ciclo dedicato alla Vergine, principale e identitario culto devozionale albanese. Le tele rimasero nella sala superiore della Scuola fino alla requisizione napoleonica del 1806, quando il ciclo fu smembrato tra gallerie pubbliche di Venezia, Milano e Bergamo.
Il periodo della maturità è ben documentato con opere molto importanti: rispetto a Washington non sono arrivati in Laguna il Ritratto di Cavaliere della Collezione Thyssen-Bornemisza e la Meditazione sulla passione di Cristo del Metropolitan Museum di New York, tuttavia campeggia in mostra l’immenso San Paolo Apostolo di Chioggia, un’opera di grandissimo rilievo e importanza.
In chiusura, la ricostruzione dell’Organo della Cattedrale di Capodistria, con le portelle finalmente restaurate, e per la prima volta, dopo spiacevoli vicissitudini, la visione dei due profeti con gli enormi turbanti e le lunghe barbe.
Un consistente nucleo di disegni autografi del pittore è presente lungo il percorso, da godere con calma, attenzione e cura, vere “chicche” che evidenziano l’ampio interesse di Carpaccio per la prospettiva, la natura e la luce. Alla fine non abbiamo dubbi, è una mostra assolutamente da vedere.