Un dipinto misterioso e affascinante: Le due dame di Vittore Carpaccio. Chi sono queste donne eleganti e cosa rappresentano? Per scoprirlo, bisogna ricostruire la storia del quadro, nascosta dietro un’altra storia…
Tutta la potenza di De Hooghe in fatto d’ombre, del Van Eyck nei particolari, di Giorgione nelle masse, di Tiziano nel colore, del Bevick e del Landseer nella rappresentazione della vita animale è qui riunita.
John Ruskin
Nella casa di un patrizio veneziano, Teodoro Correr, che si affaccia ancor oggi sulle acque del Canal Grande a fianco di un celebre e antichissimo palazzo che ospitava la comunità dei mercanti turchi in Venezia, si trovava, appeso a una parete della “camera di seguito al corridore, appena appresso al camerino vicino alla camera dell’alcova (cioè la camera da letto del padron di casa) a fianco del salotto e della camera di udienza”, tra un ritratto di famiglia attribuito a Cesare Vecellio, una tavola fiamminga con le Tentazioni di sant’Antonio e altri dipinti di vario genere, una “tavola rappresentante due Donne che scherzano con due cani”. È la sintetica e dimessa testimonianza riportata in un inventario ottocentesco della presenza di un capolavoro: si tratta di un dipinto a tempera e olio su tavola di circa 95 centimetri di altezza per 64 di larghezza, con le Due Dame, opera del grande Vittore Carpaccio destinato, pur tra equivoci e incomprensioni, a rivelarsi uno dei più celebri e amati dipinti della pittura rinascimentale veneziana.
Il dipinto (che è certo l’opera più famosa esposta nelle sale del Museo Correr in Piazza San Marco a Venezia, da dove in pratica non s’è mai mosso e che è diventato uno dei quadri mitici della pittura veneziana di tutti i tempi) rappresenta quindi due donne veneziane con i capelli biondi pettinati secondo una ricercata acconciatura e con strani cappellini in testa. Sono sedute, portano ambedue delle collane e sono vestite con abiti confezionati con stoffe lavorate e di gran pregio databili alla fine del XV secolo. Incuriosisce il loro sguardo assorto, fissato verso qualche cosa che sta fuori dei margini del dipinto; all’osservatore si impone poi la loro aria come svagata e assente o, forse, solo annoiata; una delle due ha il braccio destro appoggiato alla balaustra in marmo che corre su due lati della scena e tiene in mano un fazzolettino bianco ricamato; l’altra, più anziana e più corpulenta, si appoggia con i gomiti alle ginocchia e gioca con due cani; uno di questi mette le zampette nella mano sinistra della donna e guarda fissamente verso di noi; dell’altro, un levriero, vediamo solo il muso e, in basso, le estremità delle zampe anteriori. Una di queste trattiene il cartiglio con la firma: “Vittore Carpaccio, veneto”; s’intravede una successiva riga di scrittura, ma quasi del tutto abrasa e, quindi, illeggibile.
Lo sfondo del dipinto è di un colore verdastro molto scuro. Lo scenario di questa raffigurazione è costituito da una specie di loggia, di terrazza o di grande balcone, con il pavimento ornato al centro dal disegno –presumibilmente in marmi colorati – di un quadrato a fasce bianche inscritto in un tondo rosso e che a sua volta contiene un cerchio scuro su un campo rosa; la loggia è chiusa da una balaustra in marmo con colonnette cilindriche completate da elementi dorati: capitelli ionici, basette e collarini. Nello spazio chiuso e così definito abbondano, oltre ai cani, altri elementi vegetali e animali: due tortore, un pappagallo, un pavone, un’arancia, un alberello di mirto e, misteriosamente, il gambo reciso di un giglio che esce da un vaso decorato con uno stemma. Infine: un paggio elegantemente vestito sembra avanzare tra le colonnette della balaustra; a terra, davanti a lui, sono abbandonati due calcagnetti, cioè due ciabatte rosse dall’altissima suola.
Il dipinto ha goduto a lungo di una fama piuttosto equivoca: molti, ancora oggi, messi sulla falsa strada dai critici romantici che vollero fantasiosamente costruire un misterioso retroscena al dipinto, lo chiamano Le Cortigiane, ipotizzando che si tratti di due prostitute in attesa dei clienti; ma abbastanza di recente è stato dimostrato che si tratta in realtà di due dame di alto rango sedute su un terrazzo verso la Laguna che attendono, presumibilmente, il ritorno di qualcuno, marito o fidanzato.Questa corretta interpretazione è stata facilitata da un fatto imprevisto: il ritrovamento a Roma nel 1944, nei mesi immediatamente seguenti la fine della Guerra, di un altro dipinto presso un mercante d’arte.
Un giovane e sfaccendato architetto girava in bicicletta per le strade della città semi-deserta: fu attratto dal fascino magnetico che esercitava su di lui una tavola dipinta, molto annerita dagli anni e dalla sporcizia che vi si era depositata, esposta sulla porta di un negozio di antiquario. Sul davanti si intravedeva una scena con barche, sul retro si scorgeva una specie di finestra o di edicola architettonica con appesi a un nastro dei fogli piegati, forse delle lettere. Il giovane acquista la tavola per una cifra irrisoria e la porta a casa. Pulito dallo spesso strato di sporcizia e di vecchie vernici, la qualità del dipinto si è rivelata assai alta; il soggetto rappresenta una scena di caccia in laguna con sette sottili barche spinte a remi; altrettanti cacciatori muniti di arco colpiscono con pallottole di argilla uccelli acquatici. In basso, a sinistra, compare un fiore di giglio il cui gambo reciso non si sa da dove nasca. Nel 1963, due studiosi di pittura veneziana, indipendentemente l’uno dall’altro, si accorsero che questa Caccia si sovrappone perfettamente al dipinto veneziano delle Due Dame e che il gambo del giglio tagliato che si vede nelle Due Dame proseguiva perfettamente nella Caccia, completandosi.
Ricerche approfondite e analisi scientifiche hanno successivamente dimostrato senza ombra di dubbio che i due dipinti erano all’origine uno solo: stessa larghezza, stesso tipo di legno, stessa lavorazione, stessi colori: anche le gallerie scavate dai tarli sui margini dei due frammenti risultavano perfettamente combacianti. Insomma: qualcuno, in epoca imprecisata, aveva tagliato in due una tavola dipinta in cui compaiono in primo piano due dame sedute su una terrazza in attesa dei mariti intenti alla caccia su dei piccoli battelli sull’acqua e che si possono vedere in lontananza in uno scenario tipicamente lagunare, con tanto di casoni da pesca con il tetto di paglia e le recinzioni per la pescicoltura: il verde scuro del fondo della Dame corrisponde alla parte in ombra dell’acqua su cui si muovono le barchette dei cacciatori. I due dipinti (ma in origine si trattava di un’unica tavola, come si è detto) sono di grande qualità e il loro stato di conservazione, nonostante i più di cinquecento anni passati e le traversie subite (non ultima la violenta divisione in due) è sostanzialmente buono. Ma che cosa è accaduto e chi ha voluto tagliare il dipinto? Quando e perché? Infine: se noi accostiamo i due frammenti uno sopra l’altro, ne abbiamo un’opera completa, oppure no? Ci sono, cioè, altri misteri e altri dubbi che complicano la lettura e l’interpretazione corretta di quest’opera di Vittore Carpaccio, cioè di uno dei maestri della pittura veneziana tra fine XV e inizio del XVI secolo?
Le domande sono molte e chiedono un’investigazione attenta. Il primo dato che emerge è un riscontro assolutamente materiale: sui margini laterali sia dell’uno che dell’altro dei due frammenti si possono vedere chiaramente delle tacche, degli intagli che, accompagnati da dei fori orizzontali in corrispondenza, stanno a significare senza ombra di dubbio che lì erano applicate delle cerniere saldamente tenute da dei chiodi: il dipinto – unito – era quindi una specie di portella di armadio o pannello di un paravento (o, più difficilmente, di imposta interna di finestra). L’esistenza sul retro della Caccia di una decorazione pittorica in trompe-l’oeil con un’edicola architettonica e delle lettere sospese a un nastro, sta ad indicare che la portella, quando era aperta e piegata, lasciava vedere un’ulteriore scena ‘minore’ per così dire, con una sua natura morta illusionistica (sulle Dame questa parte non si può vedere perché a fine XIX secolo il dipinto è stato piallato sul retro e assottigliato per applicare un sistema di tiranti in legno che impedissero la progressiva curvatura della tavola, che rischiava di spezzarsi). Tuttavia anche così il dipinto appare non equilibrato: la scena infatti finisce sulla sinistra in modo inaspettato: la balaustra in marmo, il paggio e il cane sono bruscamente tagliati. La conclusione che se ne trae è abbastanza naturale: l’insieme dei nostri due dipinti (le Dame e la Caccia) aveva una corrispondente parte (una portella, un ulteriore pannello di paravento ecc. presumibilmente di uguale misura) che completava la scena riequilibrando il tutto sia sul davanti con la scena maggiore (altre dame? Altri personaggi e animali? Non lo possiamo sapere) sia, sul retro, con un ulteriore trompe-l’oeil (che avrebbe potuto raffigurare un’altra edicola o qualcosa di simile).
Torniamo alle nostre Dame. Mentre la Caccia in laguna raffigura una scena di facile spiegazione (dei giovani uomini elegantemente vestiti che su una serie di barchette vanno a caccia di uccelli) ed è per altro una preziosa testimonianza sull’ambiente, sul paesaggio della laguna, sui costumi dei protagonisti, sulla stessa natura della cacciagione catturata, le Dame appaiono subito assai più complicate. Possiamo affermare infatti che nessuna delle presenze – animali, vegetali o inanimate – è posta a caso nel dipinto: la raffinata cultura tardo-medievale e umanistica di questo periodo era intessuta di simbologie e allegorie; in pittura nulla era concepito e raffigurato casualmente: ogni oggetto, animale, forma, segno aveva una sua ragione ed esprimeva un concetto o un messaggio, rinviava cioè a un insieme di saperi e di valori rappresentati simbolicamente. Anche nel caso delle Dame vale questo principio. Studi recenti hanno potuto dimostrare che l’intento della rappresentazione è allegorico e morale. Gli oggetti, gli animali, le piante fanno riferimento più o meno esplicito e più o meno facilmente decifrabile a una chiara allegoria morale: così i cani, da sempre simbolo di fedeltà, rinviano alla fedeltà tra gli sposi; le tortore fin dall’antichità classica sono utilizzate per rappresentare il legame coniugale e la fertilità del matrimonio; l’alberello di mirto sopra la balaustra sulla destra, rappresenta anch’esso sia nel mondo pagano che in quello cristiano un riferimento coniugale e per di più, sacro a Venere, è un riferimento all’amore e alla riproduzione. Anche l’arancia sulla balaustra e il giglio (tagliato) nel vaso rinviano alla verginità e all’amore coniugale, così come la femmina del pavone che è simbolo esplicito della fecondità della sposa. Più complessa la figura del pappagallo che, nella sua caratteristica di essere capace di ‘parlare’ sa ripetere il nome dell’amato lontano e saprebbe, per di più, formulare parole di devozione religiosa. Quindi: amore coniugale, purezza, resistenza alle tentazioni dei sensi, omaggio ai frutti del matrimonio e dominio delle passioni disordinate; tutto questo ci fa chiaramente intendere che il dipinto apparteneva (portella di un armadio o pannello di un paravento o imposta interna) a un arredamento di camera nuziale che, quindi, del matrimonio (e della sposa in particolare) ricordava ed esaltava virtù, pregi e caratteri. Non possiamo tralasciare di ricordare che già nel Medioevo si donavano alla sposa in occasione del matrimonio cassoni dipinti con scene allegoriche o di origine letteraria di soggetto matrimoniale: in questi mobili, posti ai piedi del letto, era conservata la dote della sposa, cioè i vestiti, la biancheria, il corredo nuziale che l’accompagnava poi per tutta la vita.
La casa, le stanze destinate alle donne in particolare, sono il luogo nel quale le virtù femminili si manifestano e sono riconosciute; in questi spazi l’universo femminile ha modo di affermarsi e di esercitare il suo ruolo e il suo potere, ma in questi spazi la donna è anche in qualche modo limitata e prigioniera. Spiega il grande scrittore Giovanni Boccaccio (XIV secolo, celebre autore di uno dei capolavori della letteratura italiana, la raccolta di novelle intitolata Decamerone), mentre gli uomini si dedicano ai commerci e alla finanza, all’arte di governo, alla guerra, ai fastidi del lavoro e, talvolta, ai piaceri della caccia e della pesca e agli sport, le donne virtuose, secondo la volontà di padri, madri, fratelli e mariti, devono restare chiuse in casa “quasi oziose sedendosi”, sopportando quella malinconia e quella depressione, come la chiamiamo oggi, che è una malattia quasi inevitabile delle casalinghe.
Rimangono da ricostruire le vicende che hanno portato il dipinto ad essere diviso in due e a seguire differenti strade collezionistiche. Sappiamo per certo che nella seconda metà del XVIII secolo la separazione era già stata compiuta: troviamo infatti la sola Caccia (già nelle dimensioni attuali e attribuita senza esitazioni a Vittore Carpaccio) citata nel catalogo di una raccolta veneziana, quella del raffinato letterato ed esperto e mercante d’arte Francesco Algarotti e di suo fratello Bonomo. Questa collezione fu interamente venduta a fine secolo XVIII; fu allora che la Caccia entrò in proprietà di un celebre personaggio francese: il cardinale Joseph Fesch, zio materno di Napoleone Bonaparte che aveva messo assieme, grazie alla sua elevatissima posizione nell’Europa napoleonica e alle sue conoscenze, una sterminata raccolta d’arte; morto il Cardinale (1839) l’opera passò per varie mani fino a quelle di un altro collezionista, a Roma, e poi dell’antiquario presso il quale fu casualmente trovata nel 1944. Va anche segnalata la curiosa vicenda per cui la Caccia fu tolta per ordine della Magistratura italiana al giovane architetto che l’aveva scoperta a Roma e restituita al precedente proprietario: la giustizia amministrativa, infatti, giudicò che il prezzo pagato fosse assolutamente sproporzionato e ridicolo rispetto al valore reale dell’opera, pur senza che vi fosse alcuna truffa o imbroglio da parte dell’acquirente. Fatto uscire in gran segreto dall’Italia, il dipinto ricomparve in Svizzera dove fu acquistato dal Getty Museum ed esposto prima a Malibu e poi definitivamente a Los Angeles.
Le prime notizie delle Due Dame risalgono invece al 1830, quando sono registrate nel catalogo delle collezioni lasciate da Teodoro Correr alla città di Venezia perché diventassero il primo e ricchissimo nucleo dei musei cittadini. E nella casa di Teodoro Correr, come abbiamo all’inizio ricordato, le possiamo ‘vedere’, le nostre Dame, in uno dei fogli di un album che documenta diligentemente parete per parete tutti i dipinti posseduti dal Correr al momento della sua morte. Non disponiamo di documentazione coeva circa l’acquisto delle Due Dame da parte del Correr, ma da vari indizi sappiamo che egli ebbe a comperare opere, anche importanti, dalla collezione dei fratelli Algarotti nel cui catalogo, come si ricorderà, è registrata la presenza della Caccia ma non quella delle Dame. Poiché però, sempre in quel catalogo, la Caccia è attribuita senza esitazione a Carpaccio, significa che l’estensore dello stesso – che aveva potuto consultare le carte d’archivio della famiglia Algarotti – disponeva della prova o della memoria certa che i due frammenti facessero parte di un’unica composizione, firmata da Carpaccio nel cartiglio in basso tra le zampe del levriero tagliato. A questo punto possiamo legittimamente supporre che i fratelli Algarotti avessero posseduto l’opera integra o, quanto meno, che la conoscessero prima del taglio e che abbiano provveduto a venderne separatamente le due parti; potremmo addirittura pensare che siano stati loro a separare le Dame dalla Caccia: tuttavia la loro fama di letterati e di persone molto colte e molto amanti della pittura e dei suoi capolavori ci suggerisce di essere prudenti da questo punto di vista. È infine credibile che Correr abbia acquistato le Dame dagli Algarotti prima della redazione del catalogo (1780), ed è così che si spiega l’assenza del dipinto da quell’elenco.
Il grande storico d’arte inglese, nonché studioso di Venezia, John Ruskin riteneva le Due Dame il più bel quadro del mondo: «Tutta la potenza di De Hooghe in fatto d’ombre, del Van Eyck nei particolari, di Giorgione nelle masse, di Tiziano nel colore, del Bevick e del Landseer nella rappresentazione della vita animale è qui riunita» (1884). Ci troveremmo cioè di fronte a uno dei più alti risultati della pittura di tutti i tempi, e non possiamo certo negare che in queste Dame ci sia una tale carica poetica insieme a un indefinito sentimento come di angoscia trattenuta, di mistero che non si apre del tutto, che certo può, paradossalmente, essersi giovato della condizione di frammentarietà in cui l’opera ci è giunta; ed ecco perché, anche al di là della complicata vicenda della sua – parziale –ricomposizione con il ritrovamento del frammento oggi al Getty Museum, la tentazione di provare la sua ricostruzione completa è assai forte. Resta il fascino di un dipinto perfetto ed enigmatico anche nella imperfezione esteriore, nella sua condizione di frammentarietà: un dipinto che appare disseminato di indizi ma che non svela la chiave finale perché tutti gli indizi si ricompongano in un disegno unitario e dotato di senso pratico, comune. Verso dove o a chi si rivolgono gli sguardi delle due dame? Sappiamo certo che esse sono nobildonne veneziane (con tanto di stemma dipinto sul vaso da cui parte il gambo di giglio: ma lo stemma non è mai stato decifrato!) e la ricchezza e l’eleganza degli abiti e delle acconciature lo chiariscono a sufficienza, così come quelle collane si addicevano solo a donne maritate o in attesa di maritarsi; eppure la loro attesa è inquietante e forse sospetta: la noia, la malinconia (cioè la depressione), la solitudine non bastano a spiegare una sofferenza del vivere, una insoddisfazione profonda per una condizione dorata ma non libera (né dai vincoli del loro status, né dai pregiudizi culturali) che le trasformava quasi in prigioniere e la loro insoddisfazione in inquietudine (“volendo e non volendo in una medesima ora”) e l’inquietudine addirittura in angoscia.
Le interpretazioni psicologiche e l’atmosfera del dipinto ci condizionano quindi ancora oggi, come hanno condizionato la lettura di quest’opera da parte dei critici e degli storici Otto e Novecenteschi che hanno più o meno consapevolmente creato il mito delle cortigiane. Ma le nostre Due Dame hanno una innegabile e alta qualità pittorica, uno splendore di colori, una perfezione nel disegno, una raffinatissima relazione tra le parti e il tutto, una ragnatela, infine, di rimandi e di significati che dà indubbiamente vita a un capolavoro poetico e magico: l’occhio dell’osservatore non si sazia mai di indagare fin nei più piccoli dettagli quest’universo policromo e muto raggelato in una sorta di umida vertigine. E il fanciullo che avanza tra le colonnine: da quale lontananza giunge? È un paggio curioso, un messaggero d’amore, un ragazzetto a servizio, il figlio o il fratello di una delle donne? A chi appartengono i calcagnetti rossi che gli stanno davanti? Non a una delle nostre dame che paiono celare anch’esse analoghe calzature sotto le gonne di velluto ricadenti in pieghe pesanti lungo i corpi rilassati: ecco, anche queste ciabatte tipicamente veneziane paiono nascondere un altro mistero, un’assenza densa ed enigmatica oltre ogni misura e immaginazione, dentro allo spazio mentale di una perfetta conversazione rinascimentale, una battaglia silenziosa tra eros e sogno.
Tratto da Ritratto di Venezia. Mille Anni di Storia, Giappone, 2011
Per una bibliografia approfondita sull’opera vedi: Giandomenico Romanelli, Il mistero delle due Dame, Skira, 2011
Immagine in evidenza: Vittore Carpaccio, Due dame veneziane (particolare), ca.1492-94, Musei Civici Veneziani, Museo Correr