Anche quest’anno sotto l’albero di Natale della nostra Redazione abbiamo trovato un bellissimo regalo, il nuovo reportage di Nico Zaramella in cui le riflessioni dell’indomito esploratore-fotografo si coniugano alle sue meravigliose fotografie.
Muoversi nel ghiaccio e nella neve. Muoversi: in un ambiente strategicamente mutevole e diverso. È sinonimo di cambiamento. Cambiamento di stato, cambiamento di mentalità, usi e costumi. Guardare attentamente con i binocoli ghiacciati dove ti si incollano le dita se hai dimenticato i guanti per un attimo. Guardare avanti, ma con uno specchietto retrovisore emotivo. Essere lungimiranti. Pensare agli effetti e alle conseguenze dei propri atti molto prima che accadano o mentre si compiono, alla luce dell’esperienza. Tastare con cautela il ghiaccio e la neve senza caricare sprovvedutamente il proprio peso, proprio come fa l’orso polare, per non piombare nell’acqua ghiacciata dove si sopravvive per qualche minuto, per non piombare in un crepaccio senza fondo mettendo a rischio la propria vita e quella dei compagni legati a te. Essere quindi consapevoli dei propri atti nella misura in cui sono inevitabilmente causa di effetti collaterali e conseguenze rischiose. Governare il presente per non subire il futuro. Essere cauti e riflessivi. Capaci di pianificare ciò che non si vede perché poi tutti possono pianificare ciò che si vede, vanificando il valore del vedere oltre.
Essere lungimiranti. Pensare agli effetti e alle conseguenze dei propri atti molto prima che accadano o mentre si compiono, alla luce dell’esperienza.
Essere esploratori vale più di ogni scatto fotografico, perché chi esplora e investiga prima che le cose siano epifania ha il senso del tempo e della verità ed è maestro dell’arte. Qui non si gioca a vincere alcuna competizione, perché le competizioni con vinti e vincitori sono la sconfitta della vita: gli uni illusi di un valore fittizio ed effimero e i secondi disillusi e rancorosi. Chi compete ha bisogno di affermarsi a scapito di qualcuno o qualcosa. Chi non compete afferma il proprio pensiero, la propria opinione, il proprio karma, le proprie autentiche capacità e attitudini. Questa è la mia vita. E qui, per chi ha capito ma anche per chi non ha capito, questo Christmas Carol potrebbe concludersi. Ma non basta. Ogni tradizione negativa va cambiata, non è più un possibile alibi per commettere nefandezze o peggio. Ogni tradizione positiva va salvaguardata. Giocare e raggirare il mondo con la narrazione e l’alibi delle tradizioni significa opporsi al cambiamento per una sola ragione: interesse.
Nella barca la piccola comunità deve muoversi piano, come fosse un coacervo: c’è molto ghiaccio, ghiaccio spesso, thick, moltissima nebbia, iceberg. È il concetto basilare di ogni comunità: navigare negli imprevisti quotidiani della globalizzazione e del cambiamento climatico è una responsabilità comune che prevede estrema consapevolezza, cautela e concretezza, pena l’affondamento. Gli occhi si infossano ogni giorno di più, stanchissimi per le troppe ore al binocolo, per un tramonto sempre più tardivo e un’alba sempre più precoce. Può accadere tutto o niente. Si infossano come quelli del condannato che non ha più lacrime da piangere né ore da dormire, perché consapevolmente cerca di espiare un peccato. Nasconde un’avventura di vita in un proposito futuro. E invece noi siamo qui perché immaginiamo il futuro che speriamo non accada mai.
È freddo. L’estate artica è comunque un’estate particolare, “empirica”, e questo freddo è forse nelle ossa o forse nell’anima: l’esperienza del disastro che diventa mio dopo i molti anni passati in questo “mondo nel mondo”.
Oggi, vicino a Shannon Island, tutti abbiamo imparato una cosa importante: siamo circondati da coloro che ci vedono e ci osservano e che non vogliono essere, ragione per cui è opportuno ogni tanto fare marcia indietro. Sono ombre nella nebbia, montagne di un ghiaccio “vivo” che patisce la dannazione di una lenta morte per collasso o per uno tsunami terribile che scavalla la chiglia e il ponte. Ora si vedono e non si vedono svelte silhouette quasi trasparenti nella nebbia degli orsi polari: i cauti cercatori di foche. Evitano la barca. In questo paese gli uomini hanno ucciso e uccidono, perché in realtà non sanno fare altro. Gli orsi non vogliono essere uccisi e vogliono vivere la propria esistenza da esseri straordinari, forse a costo di una consapevole estinzione, come tutti i più grandi mammiferi terrestri. O forse sono i grandi imperatori del Pianeta e come tutti i grandi imperatori prima o poi, esiliati o uccisi, finiscono nella storia. O come il lupo, l’orso è l’ultimo vero ribelle della terra che ignora il camuffamento delle favole umane e delle storielle giornalistiche perché senziente e consapevole della… dignità di esistere.
È freddo. L’estate artica è comunque un’estate particolare, “empirica”, e questo freddo è forse nelle ossa o forse nell’anima: l’esperienza del disastro che diventa mio dopo i molti anni passati in questo “mondo nel mondo”. Il ghiaccio si consuma sempre più rapidamente, così come sempre più rapidamente si innalzerà il livello dell’acqua. Ma cercare un passaggio nel ghiaccio è ancora un problema: è l’arte del navigare. È necessario spostarsi un po’ più a sud, perché in questo momento il ghiaccio è veramente troppo spesso: ci sono grandi problemi e la risposta giusta è spesso fare marcia indietro. È necessario cercare una nuova via. Una via più sicura. Una via “rispettosa”. Da ora i miei incontri con il pubblico e le mie discussioni si chiameranno stepping back: “un passo indietro”. Non possiamo comportarci più come chiassosi e sconvenienti turisti con i capelli colorati, cuffie in testa, che scarabocchiano sui muri di una civiltà millenaria trascorsa ma presente. Qui non ci sono impianti di risalita da costruire per variopinti sciatori del ponte di Sant’Ambrogio. Il tempo delle false saghe televisive è finito.
Forse solo in un tempo lontanissimo qualcuno ha calpestato lo stesso ghiaccio scendendo da una nave vichinga, ma a me non dispiace pensare di essere tra i primi e magari il primo tra tutti.
Capisco, non sono sufficientemente politically correct, ma francamente preferisco essere un libero pensatore, un “illuminista” fuori tempo. Qui, in questo posto, in quest’isola enorme non si uccide nulla che non sia necessario per sfamare la propria famiglia, riuscire a vestirsi e proteggersi la notte dal gelo del grande inverno artico. Qui non ci sono improbabili “presidenti” che gestiscono la vita come una “sine cura”. Non ci sono elezioni da vincere. Qui la vita sta alla morte come un evento naturale: non esistono vendette plausibili contro la natura per amplificare il chiasso politico invadente o bisognoso di lobbistici, quanto disastrosi, “slogan”. Qui lo spazio per l’uomo è ancora una questione molto limitata, dove siamo ora non esiste alcun insediamento umano per centinaia di chilometri. Forse solo in un tempo lontanissimo qualcuno ha calpestato lo stesso ghiaccio scendendo da una nave vichinga, ma a me non dispiace pensare di essere tra i primi e magari il primo tra tutti.
Ancora una volta sono esploratore di luoghi e di pensiero. Ho imparato, o sto imparando, che esplorare significa non avere presunzioni ma solo un comportamento corretto. Qualche giorno prima siamo partiti dalle Isole Svalbard e, prima di puntare sulla Groenlandia, abbiamo deciso che valeva la pena spendere qualche giorno esplorando la costa più settentrionale. In questo paese non si uccide più o quasi più. Il valore dell’integrità del territorio e di tutti i suoi abitanti non umani prevale sull’interesse di ognuno, tutti hanno capito. In altre parole non è il qui e ora che conta, dove un chicchessia ignoto è pervaso dal pensiero eversivo che tutto ciò che ci circonda ci appartiene secondo uno “ius primae noctis” con licenza di uccidere, cedendo l’intelletto all’ipotesi del più grande fallimento storico del suprematismo umano.
Ho trovato la conferma di quanto un giorno scrissi su queste pagine: quando l’ultimo orso polare scomparirà scoccherà anche l’ultima ora dell’umanità. È una metafora, ma è molto, quasi troppo, vicina alla realtà.
Questa ricchezza ambientale ci ha fatto un raro regalo in questi giorni avventurosi. E per chi ha occhi dentro l’anima, e non solo attaccati alla testa, l’orso polare è assolutamente perfezionato per vivere dove è freddo, gelo e ghiaccio. Non ha scelto, per decisione o evoluzione, la vita facile. Non gioca a bonus e monopattini, non dice “no” a priori, anche se non si trova certamente a proprio perfetto agio in questo mondo che cambia, dove i suoi cuccioli non hanno vita facile e ogni anno ne sopravvive qualcuno di meno. Il latte della mamma non basta più. È servito al cucciolo per superare il primo anno di vita, ma ha ancora tanto da imparare per sopravvivere. La prima cosa che dovrà imparare dalla mamma è procurarsi cibo ricco di grasso. L’acqua è fredda e il ghiaccio dove si cacciavano le foche è sempre meno esteso. È necessario nuotare molto più di prima e il pelo folto non sarà sufficiente a salvare il piccolo dal freddo se non avrà una spessa protezione di grasso, il suo isolante naturale.
Questi primi giorni per una lunga spedizione prettamente, o per meglio dire, “esclusivamente” esplorativa ci hanno educato a una rappresentazione del comportamento dell’orso polare che non avevamo mai visto. È un animale intelligente, capace di approntare strategie nuove. È in grado di contare e pensare, di compiere scelte e pianificare strategie e ha potenzialità che all’Università di Oakland hanno scoperto essere del tutto analoghe ai primati e solo di poco inferiori (o uguali ?) a quelle dell’uomo. Ho trovato la conferma di quanto un giorno scrissi su queste pagine: quando l’ultimo orso polare scomparirà scoccherà anche l’ultima ora dell’umanità. È una metafora, ma è molto, quasi troppo, vicina alla realtà.
Quattro orsi hanno trovato la carcassa di un walrus, un tricheco. È una grossa carcassa. Un vecchio adulto molto più grande e pericoloso dell’orso e la sua morte è probabilmente avvenuta per cause naturali, perché è praticamente impossibile per un orso perforare la spessa e dura pelle di un grande walrus. L’orso con manovre scaltre è in grado di isolare un cucciolo dal branco, la sua unica possibile vittima, per non rischiare le profonde e letali ferite che le lunghe zanne degli adulti possono infliggere. In questa carcassa quattro orsi, due adulti e due cuccioli, troveranno il grasso che probabilmente salverà loro la vita durante l’inverno e sarà il banchetto ideale per molti giorni. La natura è ben organizzata, nulla va sprecato e la morte molto spesso è in pari misura sinonimo di vita.
Ma il problema è che soltanto due sono parenti (stretti): una femmina e il suo cucciolone. Gli altri sono un giovane maschio adulto e un cucciolo oramai prossimo all’età adulta senza mamma, forse perduta o forse da lei spontaneamente allontanatosi. La femmina è chiaramente ben più grande e robusta, determinata e aggressiva rispetto ai non consanguinei. Il suo evidente interesse è quello di garantire che il suo cucciolo possa mangiare a sazietà. È poco interessata alla carcassa, che nemmeno assaggia. Come una madre umana osserva il suo cucciolo e i due contendenti sono ben consapevoli della sua netta superiorità fisica. Il dato è che in una rappresentazione perfettamente etologica (purezza che non è inquinata dall’autoreferenzialità della religione, della filosofia e dell’etica) semplicemente gli affamati contendenti aspetteranno il loro turno. E l’orsa, saziato il figlio, si compiacerà delle effusioni del piccolo: il suo consapevole ringraziamento. Umanità ed eternità evidentemente non sono fatte di uguaglianze, bensì di diseguaglianze “necessarie”. Non è affatto rilevante decidere che, trattandosi del più grande e forte carnivoro terrestre, ogni orso avrà un diritto alla vita connaturato alla nascita. La sua sopravvivenza è comunque soggetta a regole e garanzie non scritte. Sono paradossi del lemma e della teoria per cui la vita condiziona la morte e viceversa.
Ma per quale inenarrabile ragione ciò dovrebbe essere una esclusiva propria dell’animale-uomo e non un pieno diritto di ogni essere vivente?
Ma quale è stato il momento in cui abbiamo fatto nostra la presunzione di essere migliori di un orso? Quale il giorno in cui qualcuno, per la verità umano, ha conculcato l’idea che la morte non esiste, o che comunque sia è uno stato di mero transito verso un altro esistere, rendendo l’animale-umano l’unico che ha diritto di vantare una propria condizione di eternità? Ed almeno per un certo periodo nemmeno tutti gli esseri umani: magari non le donne, magari inventando l’inimicizia di un dio minore per streghe fantastiche e fattucchiere da osteria, per imbastire ovunque torture e roghi, perché divertimento e paura siano la stessa identica storia che ha punito l’intelletto, dalla coppa di Socrate alla botte di Attilio Regolo. Ma per quale inenarrabile ragione ciò dovrebbe essere una esclusiva propria dell’animale-uomo e non un pieno diritto di ogni essere vivente? Se nessuno ha trovato un’anima nell’uomo (costringendolo al triteismo della fede, ovvero alla consegna a vita della ragione), di per sé quindi “presunta” per deduzione o per l’esistenza di scritture che potrebbero avere il peso di una interpretazione, è quanto meno il caso allora di regalare agli animali con un’equivalente deduzione un simile, identico diritto: un’anima democratica per tutti!
Sono qui sulla tolda, un po’ rannicchiato e un po’ infreddolito a pensare, che è la mia condanna. Sicuramente alla prossima non saprò tacere per la tranquillità mia o di chi esercita un potere ancorché in assoluta buona fede. Sarò costretto a dire, magari da solo, a rischio di lapidazione, che la vita è un diritto di tutti soggetto solo alla morte, da cui il Pianeta trae immenso beneficio. Non è l’eternità di una vita illusoria che riconsegna il bene alle vite di tutti, ma la certezza della morte. È per questo che non sopportiamo l’idea di essere divorati, così come dice David Quammen. È per questo che ben lontani dall’essere dei predatori alfa, che nella piramide evolutiva sono numericamente infinitamente inferiori, ci comportiamo come tali introducendo una macroscopica anomalia: siamo NON-predatori numericamente infinitamente superiori, così siamo diventati CONSUMATORI ALFA che sbilanciano drammaticamente l’equilibrio vitale ed energetico del Pianeta.
Ma questi pensieri lasciateli a me. Un pulcinella di mare, buffo, dal becco variopinto si posa vicinissimo e compie il suo dovere bottinando le aringhe e le alici. E subito in questa maledetta testa iniziano ad accavallarsi i pensieri delle correnti marine che cambiano, dello spostamento dei pesci predati dalle balene, di paesi che sotto l’assoluzione della ricerca scientifica uccidono a più non posso il più grande e redditizio mammifero marino, che forse è anche l’essere vivente più intelligente di questo Pianeta. Mi chiedo se sono fatto per questo mondo. Se il mio tempo deve finire o è in anticipo. E non saprei dare una risposta. Certamente se il mio tempo finirà sfamando un orso e il suo cucciolo o se questa barca affonderà per le spicce non avrò nessun rimpianto, perché ho avuto e dato molto e oggi godo del piacere di essere un sereno abitante del paradiso terrestre.
La nebbia si dirada, è notte fonda ma il bagliore di un’alba prematura inizia a sbirciare il buio. Sono le due di una lunga mattinata. Una giornata splendida si avvicina alla stessa velocità di un altissimo iceberg: una vera e propria montagna di ghiaccio sovrasta il nostro minuto, stupendo coacervo galleggiante. Le sfumature di blu e azzurro si intravedono perfettamente, e tra le vene di ghiaccio antico mi sembra di intuire una crepa. All’improvviso un rumore tuona violento: un “crack” spaventoso fa vibrare la superficie dell’acqua. La luce è ancora poca ma la macchina fotografica comincia a leggere bene ogni dettaglio. Riesco a vedere piccoli sbuffi di fumo attorno a questa algida e sovrastante torre. Un entropico evento sta per restituire alla confusione molecolare marina la cristallina struttura. Ma questa montagna di ghiaccio è veramente enorme e noi siamo piccoli. Il rumore è sempre più forte ed incalzante, fino a divenire assordante. E questa montagna, che un bravo illustratore sarebbe capace di trasformare in un personaggio di Tolkien, in pochi eterni secondi collassa sollevando una massa di acqua smeraldina che ci sovrasta. Ho appena il tempo di gridare: «Tsunami… Everyone down on the ground!» che tutto si esaurisce in un violento sussulto, un rimbalzo. Siamo graziati dall’emergere del nuovo più piccolo iceberg che avrebbe potuto comunque mandarci a pancia all’aria.
E forse questo accadrà. Questo Pianeta in qualche modo assomiglia a questa piccola barca e quella gelida montagna è il grande pericolo di cui non ci eravamo accorti, che in sé riassume errori e presunzioni di una razza cadetta, che si è opinabilmente eletta senza umiltà. Forse ce la caveremo perché qualcuno griderà. Probabilmente avremo mille natali ancora di fronte, ma il più bel regalo sarebbe un orsetto vivo da coccolare, un leoncino, un tigrotto, insomma, amici che ci accompagnano in un’arca che potrebbe navigare per l’eternità, mentre l’aria una volta tanto non sarà invasa da particelle letali ma dal profumo di un bellissimo abete che affonda le sue radici e ci dona ogni giorno un motivo per vivere e respirare. In fin dei conti che cosa mi piacerebbe? Che il Natale fosse una festa di vita per tutti e non una festa “targata”. Chiamatela come volete, ma ci serve una festa per celebrare la vita in ogni sua forma. Ci serve una festa del rispetto, dell’umiltà, della parità; che poi ci siano luci e ornamenti va anche bene, anzi benissimo…, ma se non ci fossero, cerchiamo di fare in modo che le idee positive possano brillare come le stelle.