Si dice che, ancora molti anni dopo, qualche giornalista chiedesse a Tina Turner se avesse il desiderio di dimenticare il suo difficile passato: «Certo – rispondeva –, se non fosse che continuate a ricordarmelo voi…». Allo stesso modo, bisognerà prima o poi smetterla di riferirsi a Sofia Coppola, affermata e pluripremiata regista, come “figlia di”. La signora non è da tempo più una ragazzina e ha all’attivo una certa filmografia che ha una propria cifra.
Va detto che, a fronte di una non poco ingombrante figura paterna, Sofia Coppola ha provato in maniera più che egregia ad affrancarsi dal peso di un cognome così importante: tanti altri hanno preferito occuparsi d’altro, piuttosto che misurarsi nel medesimo campo di un genitore famoso. Di sicuro nel suo caso sembrano esserci stati più lati positivi che negativi nel fare parte di una comunità (famiglia è un termine restrittivo) che ha segnato con una forte impronta il cinema americano degli ultimi cinquant’anni.
Non è stata e tutt’ora non è amatissima dalla critica e qui non si può fare a meno di pensare ai riferimenti al cognome, il che non le ha impedito di ottenere diversi riconoscimenti come il (contestato) Leone d’Oro del 2010 per Somewhere, oltre a un Oscar e un Golden Globe per Lost in Translation. Sembra talvolta che non le venga perdonato un certo stile freddo e distaccato rispetto alle narrazioni contenute nei suoi lavori e, ancora una volta questo sembra volerle tenere attaccata al piede una specie di palla che inevitabilmente fa riferimento a come, contrariamente a lei, il padre abbia sempre messo sé stesso e la propria forza fisica nei suoi film.
In realtà, Sofia è profondamente americana tanto quanto Francis Ford è inguaribilmente e orgogliosamente italiano (il cibo, la lirica, il familismo) e questa differenza si nota fin dal suo esplosivo esordio nel 1999 con Il giardino delle vergini suicide nel quale, dietro la tragedia delle sorelle dagli implacabili capelli color grano e con il pretesto di narrarla, in realtà più che sull’educazione bigotta di una certa America e a un generico mal di vivere tipicamente adolescenziale, viene gettato un occhio per niente benevolo e nostalgico sugli anni ‘70, descritti come un incubo dal quale prendere le distanze.
Da qui in poi si sviluppa nella sua carriera il ritorno quasi ossessivo all’incomunicabilità e alla solitudine come temi ricorrenti: fra ragazzi e ragazze, all’interno del medesimo branco (Bling Ring), in epoche passate come in Marie Antoinette, sola e prigioniera nel proprio reame, nel futuribile Giappone della giovane disadattata che si lega a uno stralunato Bill Murray – attore icona di Coppola – per il solo fatto che invece di parlare sempre come fanno gli altri la sta invece ad ascoltare, e infine all’interno di una coppia (On the Rocks) che dialoga continuamente senza capirsi.
Nata nel 1945, Priscilla Ann Wagner Beaulieu aveva solo quattordici anni quando catturò l’attenzione dell’allora ventiquattrenne e già celebre Elvis Presley, durante il suo servizio militare in Germania. I due si sposarono l’1 maggio 1967 ed ebbero una figlia, Lisa...
Tutte belle, tutte bionde, tutte infelici: nel suo film d’esordio, Sofia Coppola manda all’aria il falso sogno americano di una gioventù inascoltata.
Diversi anche nelle proprie solitudini, Bob e Charlotte vivono in una Tokyo surreale un amore impossibile, racchiuso in uno strepitoso e tenerissimo finale.
La moglie del re è la prima, la più lodata, la più temuta, ma è prigioniera del proprio ruolo: e c’è la Rivoluzione in arrivo.
Un branco di sciocchine più uno sciocchino se ne vanno in giro a rubare ai VIP: dietro le facezie, un insieme di incomprensioni in una luce sovraesposta.
Coppola insiste sui non-rapporti basati su vite scisse che non comunicano, e racconta la solita coppia in crisi con un insolito Bill Murray.