Al centro dei film di Giorgio Diritti sta il rapporto difficile e contrastato tra comunità e diverso, dove la diversità è soprattutto di tipo relazionale, in cui si gioca un inceppamento del linguaggio, o un suo utilizzo conservativo, per difendere una immaginaria purezza lontana nel tempo. Sempre, nei film di Diritti, il dialetto è protezione dal mondo esterno (l’occitano del suo primo film, Il vento fa il suo giro, il dialetto dei contadini di L’ uomo che verrà, il mutismo o il silenzio delle protagoniste femminili dei suoi lavori, la doppia estraneità di un Ligabue, prima linguistica come tedesc catapultato nella Bassa padana, poi sociale come matto del paese).
La comunità, per Diritti, non potrà mai andare oltre l’accoglienza intesa come tolleranza o accondiscendente ospitalità. E quando lo straniero chiederà di passare all’esercizio dei suoi diritti, dalla mera accoglienza alla società dei diritti, allora scatta il corto-circuito del rigetto, della chiusura, dell’espulsione. E così il gregge del pastore francese non potrà attraversare i terreni incolti dei proprietari che da anni hanno abbandonato il paese e vivono in città, perché comunque la comunità non può accettarlo. E Ligabue non potrà a sua volta pretendere di diventare anche il marito di una donna del paese, perché sono confini non scritti che non si possono valicare. E così Augusta, la protagonista de Un giorno devi andare, che dopo la sua esperienza con le suore missionarie e con i derelitti della favela di Manaus si ritroverà nella solitudine di una spiaggia brasiliana a combattere il suo trauma silenzioso e implacabile. Perché l’altro vettore fondamentale del cinema di Diritti, nella tradizione del cinema di Olmi e di Avati di cui è stato collaboratore, è il paesaggio, ripreso sempre nella sua magnifica estraneità, più come contesto, come specchio, che come soggetto. E quindi i paesaggi delle Alpi piemontesi, della giungla brasiliana, dei boschi dell’Appennino e delle campagne della Bassa reggiana diventano il contenitore di un conflitto pre-politico tra società e individuo.
Il cinema di Diritti occupa quindi un suo spazio peculiare, tra il cinema visionario e magico-realista delle nuove generazioni e quello delle analisi politico-autobiografiche della generazione precedente.
Tratto dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, il film racconta la storia vera di Lubo Moser, un giovane jenisch (zingaro) e artista di strada nella Svizzera degli anni ’30. Giovane, forte e allegro, Lubo ama la propria famiglia, sua moglie Mirana e i loro tre ...
Magnifico esordio realizzato ben oltre i quarant’anni, dopo un lungo apprendistato con Pupi Avati e una carriera fatta di corti, film per la tv, documentari.
È evidente che a Diritti non interessa tanto la ricostruzione storica della strage di Marzabotto quanto la ricostruzione del mondo dei contadini dell’Appennino che vi furono coinvolti.
Ne nasce un film seducente proprio perché filtra la descrizione di uno degli eccidi più atroci della Seconda Guerra mondiale attraverso uno sguardo anti-neorealista, che predilige i piccoli gesti anonimi della vita agli eroismi della morte
Qui il cinema di Diritti, nel seguire il progressivo allontanamento di Augusta da ogni tipo di comunità, sembra ricordare i paesaggi interiori e i soliloqui dell’anima di Terrence Malick.