Alejandro González Iñárritu

di Cesare Stradaioli
  • giovedì, 1 settembre 2022

Se valessero ancora le gloriose definizioni dei magnifici anni ‘70, il trio Iñárritu-del Toro-Cuarón potrebbe, a buona ragione, essere identificato e classificato come rappresentante del Nuovo Cinema Messicano. Al di fuori delle etichette (servono sempre: basta non farne abuso), non vi è dubbio che Iñárritu abbia in qualche modo aperto una strada, prontamente seguito dagli altri due, che rappresenta ben più e bel altro di qualcosa come, complessivamente, undici premi Oscar, un paio di Leoni d’Oro, svariati Golden Globe, per citare solo i premi di maggiore risonanza mediatica.
La peculiarità del suo cinema, che ne marca una forte caratteristica, è l’utilizzo dell’incrocio di storie e immagini; ultimamente, nella critica il ricorso al flashback suscita qualche sbadiglio, ma il motivo essenziale è la strumentalità che spesso vi si accompagna: una bella serie di salti temporali al fine di spiazzare lo spettatore e poco importa se il tutto sia messo lì per caso. Nei lavori di Iñárritu, per contro, la scansione narrativa ha precisi significati, di pari passo con cadenze dolenti, amare, fataliste; quello che può sembrare un trucco, mettere insieme tre o quattro vite intorno a un incidente stradale, risulta invece essere la chiave di volta che rappresenta un’umanità sofferente, che per quanto si agiti e cerchi di muoversi, sembra prigioniera dei propri ruoli e delle proprie azioni.
Poche volte come nei film di Iñárritu le azioni portano a inevitabili conseguenze, tutte segnate – quasi già scritte – nei tratti somatici dei protagonisti, nelle trasformazioni interne ed esteriori delle loro figure: basti pensare a Jack Jordan/Benicio del Toro che in 21 grammi, da ex detenuto si ricrea anche visivamente come uomo nuovo, diverso, e che non appena ricade sotto la scure della legge compie il gesto di calarsi il classico cappuccio da felpa, divisa d’ordinanza dei detenuti di tutto il mondo, oppure a quanto progressivamente martoriati (e, quindi, modificati) sono il volto e il corpo di Hugh Glass/DiCaprio finalmente Oscar, in The Revenant.
Scarsamente portato per le metafore, con la splendida eccezione della cometa che appare sia in The Revenant sia in Birdman – esempio da manuale di un’immagine che vuol dire esattamente quello che ognuno di noi preferisce: Kubrick docet, col suo monolite – Iñárritu lavora con le storie ma le subordina a volti, gesti ed espressioni che quasi sempre le condizionano, fino quasi a farci capire pressoché subito come andranno le cose – di solito non bene, vedi Babel.
Iñárritu è a Venezia 79 con Bardo, il nuovo film girato in patria dopo quasi vent’anni di assenza.

BARDO

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Alejandro's five
Amores perros
(2000)

Ovvero, di uomini e di cani. Rabbia, aggressività, spaesamento: tre coppie di vite che ruotano intorno a un evento, tre tranci di esistenze che ci parlano di amore e morte giocando con gli scarti temporali. Gran Premio della Critica a Cannes.

21 grammi
(2003)

Il male che diventa bene, che ridiventa male. Caduta, risalita e nuova caduta e tutto per un banale equivoco: le carte sono già state date, le nostre azioni ci seguono e basta poco perché una vita che sembra cambiata ritorni quella di prima.

Babel
(2006)

Di nuovo vite che si incrociano in tre diversi continenti: come suggerisce il titolo, le lingue confondono le persone che sono prigioniere dei propri confini e della cognizione di un dolore che però non comprendono. Due premi a Cannes e un Golden Globe.

Birdman
(2014)

In fuga dalla figura di supereroe, un attore in caduta libera prova a ridarsi una dignità, ma ancora una volta il passato incombe: volerà via credendo nei superpoteri. Splendido one-to-one Michael Keaton e Edward Norton. Tre Oscar.

The Revenant
(2015)

Una storia di brutalità e vendetta, dove il confine fra umano e bestiale sbiadisce fino a scomparire. L’epopea dei bianchi nel nord America sotto gli occhi disincantati dei nativi: sangue, pelli di animali e vite vendute. Grande DiCaprio con Tom Hardy in più. Altri due Oscar.