Lars Von Trier

di Cesare Stradaioli
  • giovedì, 1 settembre 2022

Gli assomiglia anche, fisicamente oltre che artisticamente: uno guarda un primo piano di Lars von Trier e pensa subito a Rainer Werner Fassbinder; stesso viso pieno, occhi sottili e taglienti, barba rada e sorrisetto sprezzante, uno dal quale non sai mai cosa aspettarti. Graffiante, provocatore («Ho girato in lungo e in largo gli Usa e ho visto un sacco di musei sull’Olocausto, ma nemmeno uno sul razzismo»), crudele, freddo, accusato di misantropia, il regista danese ha sistematicamente diretto la sua arte in maniera davvero ostinata nel suo perseguire la forma – basti pensare alla fondazione di Dogma 95, che già nel nome è una dichiarazione di intenti: camera a spalla, pochi dialoghi, colonna sonora ridotta al minimo, immagini e nient’altro – e contraria a qualsiasi compromesso, il che gli è costato, complici anche alcune dichiarazioni quanto meno improvvide (e magari volutamente provocatorie), un certo isolamento e la presa di distanza delle produzioni.
Si diceva di Fassbinder: come non riconoscere la cifra dei suoi melò nello struggente Le onde del destino o nel disperato Dancer in the Dark, la sua rabbia nella descrizione in Europa di una Germania distrutta non solo nelle abitazioni, nel cupo dolore delle narrazioni di amori veramente più freddi della morte, una delle più famose frasi del mai abbastanza compianto genio del Nuovo Cinema Tedesco…
Von Trier piace o non piace; urta e affascina, blandisce e spiazza (d’altronde Frank Zappa, in altro campo artistico diceva che al pubblico bisogna sempre dare quello che meno si aspetta) avvicina e allontana. Regista – e uomo – che non concepisce le mezze misure, è e rimane in ogni caso un fedele artigiano delle immagini, non poste al servizio delle storie, ma loro padrone e direttrici. Assolutamente libere, come lui.

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Lars' five
Europa
(1991)

Un americano di origini tedesche torna in patria nell’immediato dopoguerra per dare il proprio contributo alla ricostruzione. Troverà un Paese distrutto nelle abitazioni e corrotto nelle persone.

Le onde del destino
(1996)

Un melò come Dio comanda. Bontà, altruismo e amore non salvano, gli esseri umani come pupazzi nelle mani del fato vanno inesorabilmente incontro al dolore e alla disillusione: finale con tanto di campane a martello.

Dogville
(2003)

Capolavoro d’avanguardia: in una città descritta come un mappale di un assessorato all’urbanistica si svolge un qualcosa a metà fra il poliziesco e il mystery. L’incapacità di convivere in un intreccio di giochi di potere.

Nymphomaniac
(2013)

Non sono stati pochi quelli a esserne stati delusi: entrati in sala credendo di assistere a un porno soft con attori di cassetta e usciti come da una grottesca seduta a metà fra lo spiritico e lo psichiatrico. Volti noti ridotti a facce come tante altre.

La casa di Jack
(2018)

Matt Dillon – un grande – la faccia da psicopatico ce l’ha ed ecco che gli viene offerto un ruolo da serial killer che si diletta di arte e filosofia mentre commette le peggio cose, consigliate a stomaci con un certo pelo. Sono gli Usa, tanto detestati dall’Autore, la vera casa di Jack.